Sulla legittimità dell'ordine di carcerazione senza la preventiva sospensione e sugli effetti della legge anticorruzione nel caso Formigoni

Alessandro Schillaci
16 Settembre 2019

La mancata sospensione dell'ordine di esecuzione e la sopravvenuta entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) hanno inciso in modo sfavorevole...
Il caso

Come è noto, Roberto Formigoni è stato sottoposto a processo penale e dichiarato responsabile del reato di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.). Ha pertanto riportato una condanna definitiva alla pena della reclusione di 5 anni e 10 mesi.

Con il rigetto del ricorso per Cassazione proposto dalla difesa dell'ex presidente della Regione Lombardia, il Procuratore Generale della Corte d'appello di Milano ha emesso, in data 22 febbraio 2019, l'ordine di esecuzione della pena, senza però disporre il decreto di sospensione idoneo a consentire al condannato di presentare – ancora in stato di libertà - istanza di applicazione di misura alternativa alla carcerazione nel termine di 30 giorni.

La sospensione dell'ordine di esecuzione

La mancata sospensione dell'ordine di esecuzione e la sopravvenuta entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) hanno inciso in modo sfavorevole sul regime sanzionatorio e sulla possibilità di ottenere benefici penitenziari anche in relazione al reato per cui Formigoni è stato condannato, inducendo la difesa a sollevare incidente di esecuzione, portando all'attenzione del Collegio giudicante – in funzione di giudice dell'esecuzione – più questioni interpretative.

Per meglio comprendere le problematiche sottese alla vicenda presa in esame della Corte d'appello di Milano, occorre premettere che l'ordine di esecuzione è una misura regolata dall'art. 656 c.p.p. che comporta l'immediata traduzione nella struttura carceraria del condannato.

Il legislatore ha però introdotto alcune deroghe che si possono ricavare da una lettura combinata e approfondita tra la normativa del codice di rito e alcune disposizioni della Legge sull'ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354) e del Testo unico in materia di stupefacenti (d.P.R. n. 309/1990).

In particolare, l'art. 656, comma 5, c.p.p. – alla luce anche della recente pronuncia della Corte Costituzionale del 2 marzo 2018 n. 4 (di cui si dirà in seguito) – prevede che quando la pena detentiva da espiare, anche se residua rispetto a maggior pena, non superi 4 anni nei casi previsti dall'art. 47-ter, comma 1, ord. pen. o 6 anni nei casi degli artt. 90 e 94 d.P.R. n. 309/1990, il Pubblico Ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9 dell'art. 656 c.p.p., ne sospende l'esecuzione.

L'ordinamento ammette quindi la possibilità che all'ordine di esecuzione (che abbiamo visto comportare l'immediata carcerazione del condannato) segua un decreto di sospensione. Si tratta però di un provvedimento che assume un'efficacia provvisoria, consentendo al condannato e al suo difensore di presentare “senza assaggio di pena” – entro 30 giorni dalla notifica – un'istanza di applicazione di misura alternativa alla detenzione in carcere, che in seguito verrà trattata dinanzi al Tribunale di Sorveglianza.

Per completezza, è opportuno inoltre precisare che – a prescindere dal quantum di pena considerato dal comma 5 dell'art. 656 c.p.p. – la sospensione dell'esecuzione non può operare:

  • nei confronti dei condannati per i delitti compresi nell'art. 4-bis ord. pen. (su cui si tornerà a breve per la significativa incidenza che ha avuto la legge n. 3/2019 includendo alcuni reati contro la pubblica amministrazione tra cui quello di corruzione ex art. 319 c.p. posto a carico di Formigoni);
  • nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano già in stato di custodia cautelare in carcere;
  • nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata di cui all'art. 99 comma 4, c.p.

Escluse tali peculiari ipotesi, la sospensione dell'ordine di esecuzione riferibile a pena non superiore a 4 anni è efficace e consente, pertanto, al condannato e al suo difensore di richiedere, a seconda dei casi, l'affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 ord. pen.), la detenzione domiciliare (art. 47-ter ord. pen.) oppure la semilibertà (art. 50 ord. pen.).

Tuttavia, se si tratta di condannato affetto da gravi problematiche connesse alla tossicodipendenza, con la sospensione dell'ordine di esecuzione è possibile richiedere – qualora la pena non sia superiore a 6 anni – l'affidamento in prova terapeutico (art. 94 D.P.R. n. 309/1990) ovvero la sospensione dell'esecuzione della pena per la sottoposizione a programma terapeutico (art. 90 d.P.R. n. 309/1990).

Chiariti tali profili, si è sopra ricordato che, a seguito di sentenza definitiva di condanna, il Procuratore generale della Corte d'appello di Milano ha disposto l'ordine di esecuzione della pena nei confronti di Formigoni.

I difensori di quest'ultimo hanno però contestato la mancata sospensione dell'ordine di esecuzione, sollevando una prima questione interpretativa:

  • è pur vero che l'art. 656, comma 5, c.p.p. ammette la sospensione dell'ordine di esecuzione in relazione a condanne non superiori a 4 anni (ovvero a 6 anni per i casi di tossicodipendenza). Vi è però un difetto di coordinamento tra la suddetta previsione normativa e quella invero contenuta nell'art. 47-ter, comma 01, ord. pen. che consente al condannato che abbia già compiuto 70 anni di poter scontare la pena in regime di detenzione domiciliare senza alcuna limitazione nel quantum della pena stessa (quindi anche i 5 anni e 10 mesi di reclusione inflitti a Formigoni).
  • Appare dunque illegittima la limitazione codicistica a 4 anni di reclusione per ottenere la sospensione dell'ordine di esecuzione se si considera che lamisura alternativa della detenzione domiciliare – per il condannato ultrasettantenne che si trovi già nelle mura carcerarie – potrebbe essere richiesta anche per una condanna superiore.
  • Ed infatti l'art. 47-ter co. 01 ord. pen. prevede che la pena della reclusione per qualunque reato, ad eccezione di quelli espressamente previsti dalla norma che comprendono il catalogo dei reati dell'art. 4-bis ord. pen., possa essere espiata nell'abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della stessa, abbia compiuto i 70 anni di età purché non sia dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l'aggravante della recidiva reiterata.

La seconda questione interpretativa attiene all'efficacia retroattiva della normativa introdotta con la legge n. 3/2019 (c.d. “Spazzacorrotti”) che ha significativamente modificato l'art. 4-bis ord. pen. prevedendo che i soggetti condannati per i reati di cui agli artt. 314 c. 1 c.p., 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis c.p. non possano beneficiare del regime di espiazione alternativa della pena detentiva.

Tale modifica ha inciso sulla possibilità di ottenere la sospensione dell'ordine di esecuzione – anche per condanne inferiori a 4 anni – se si tratta di uno dei reati compresi nel catalogo dell'art. 4-bis ord. pen.

A questo proposito, osserva la difesa di Formigoni che la sospensione dell'ordine di esecuzione doveva essere concessa non soltanto perché il condannato aveva già compiuto 70 anni, ma anche perché il reato per il quale è stato ritenuto responsabile non era – al momento della sua commissione – soggetto alla sopravvenuta modifica legislativa che ha integrato il novero di reati compresi nell'art. 4-bis ord. pen.

Diversamente opinando si configura – secondo i difensori – una questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, lett. b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 “nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli ostativi alla fruizione di benefici penitenziari ex art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario senza prevedere una disciplina intertemporale mitigatrice degli effetti dell'immediata applicabilità della novella”.

A seguito di ciò, il Procuratore Generale della Corte d'appello di Milano, qualificando l'istanza presentata dalla difesa del condannato come incidente di esecuzione concernente il titolo esecutivo ai sensi dell'art. 670 c.p.p. ha provveduto alla sua trasmissione alla Corte territoriale – quale giudice dell'esecuzione.

L'ordinanza della Corte d'appello di Milano

I Giudici milanesi hanno risposto, con ordinanza del 29 marzo 2019, alle suddette questioni nei termini che seguono:

  • la mancata emissione da parte del Procuratore generale del decreto di sospensione dell'esecuzione è giustificata dall'assorbente rilievo che l'art. 656,comma 5, c.p.p. è dettato per pene detentive da eseguirsi che non superino, anche se residuo di maggior pena, 4 anni. Ciò anche nell'ipotesi in cui il condannato abbia compiuto 70 anni, in quanto l'art. 47-ter, comma 01, ord. pen. riconosce la facoltà di richiedere la misura della detenzione domiciliare – senza limitazioni di pena – per chi già si trova all'interno dell'istituto carcerario.
  • La diversa prospettazione dei difensori di Formigoni si risolve dunque in una mera critica a legislatore. Si tratta comunque di una precisa scelta legislativa volta a stabilire una soglia sanzionatoria oltre la quale la sospensione dell'esecuzione non è concessa. Del resto, le due menzionate disposizioni (art. 656,comma 5, c.p.p. e art. 47-ter, comma 01, ord. pen.) operano in settori autonomi dell'ordinamento, ancorché funzionalmente collegati e perseguono finalità diverse. Questo giustifica un trattamento differenziato, spettando semmai al legislatore ricondurre a unità l'eventuale disarmonia, dovendosi escludere invece di interventi in chiave correttiva da parte dell'interprete (e quindi dello stesso giudicante).
  • Per quanto riguarda l'operatività della sopravvenuta normativa (legge 9 gennaio 2019, n. 3) sulla pena da eseguire, si tratta di questione priva di rilievo perché assorbita da quella precedente relativa all'impossibilità di sospendere l'ordine di esecuzione. In ogni caso, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, la disciplina che modifichi in senso sfavorevole le modalità di esecuzione della pena non soggiace al principio di irretroattività dell'art. 25, comma 2, Cost. e dell'art. 2, comma 1, c.p., stante la natura “processuale” di tale normativa che la riconduce al diverso principio del “tempus regit actum” (Cass. pen., Sez. Un., 30 maggio 2006, n. 24561).
  • Non appare rilevante nemmeno la questione di legittimità costituzionale sollevata dai difensori di Formigoni, in quanto già ritenuta dalla Corte di Cassazione non manifestamente infondata ma comunque irrilevante in un caso simile (Cass. pen., Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541). La Corte d'appello di Milano non ha però escluso che tali ultime questioni possano essere prospettate al Tribunale di Sorveglianza qualora sia avanzata richiesta di concessione della detenzione domiciliare.

In definitiva, i Giudici milanesi hanno rigettato tutte le questioni proposte dalla difesa di Formigoni, ritenendo legittimo l'ordine di esecuzione - ancorché non seguito dal decreto di sospensione – nonché irrilevanti le censure attinenti all'applicazione irretroattiva della nuova normativa contenuta nella legge “Spazzacorrotti”.

In conclusione

Le conclusioni a cui è giunta la Corte d'appello di Milano con ordinanza del 29 marzo 2019 non appaiono pienamente condivisibili.

Sotto il primo profilo, si evidenzia che il Collegio giudicante non ha considerato che l'art. 656,comma 5, c.p.p. – laddove pone il limite di 4 anni di reclusione per ottenere la sospensione dell'ordine di esecuzione – richiama solamente l'art. 47-ter,comma 1, ord. pen. che disciplina le ipotesi in cui la richiesta di detenzione domiciliare venga formulata da:

a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni 10 con lei convivente;

b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

c) persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;

d) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;

e) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

Nessun richiamo viene invece operato dalla norma in relazione all'art. 47-ter, comma 01, ord. pen. che – senza porre alcun freno al quantum di pena – consente di richiedere la detenzione domiciliare qualora il condannato abbia compiuto 70 anni.

Ne discende che il limite stabilito dall'art. 656,comma 5, c.p.p. è riferibile a un'ipotesi diversa da quella del condannato ultrasettantenne e non può trovare un'ingiustificata applicazione estensiva senza un richiamo specifico da parte del legislatore.

Nondimeno, va poi ricordato che, in subiecta materia, è recentemente intervenuta la Corte Costituzionale dichiarando l'illegittimità costituzionale, adottando un'interpretazione volta ad armonizzare anziché tenere separate le previsioni del codice di rito con quelle dell'ordinamento penitenziario.

Nella vicenda esaminata e risolta con la sentenza dalla Consulta con sentenza del 6 febbraio 2018, n. 41, il rimettente osservava che il (precedente) limite di pena (3 anni) indicato nell'art. 656 comma 5 c.p.p. ai fini della sospensione dell'ordine di esecuzione non equivaleva al corrispondente limite previsto per l'accesso alla misura alternativa dell'affidamento in prova ai servizi sociali di cui all'art. 47, comma 3-bis, ord. pen. (4 anni).

Di conseguenza se, da un lato, il legislatore aveva previsto in astratto la possibilità di concessione dell'affidamento allargato anche al condannato in stato di libertà; dall'altro, l'ordine di esecuzione di una pena detentiva tra 3 anni e 1 giorno e 4 anni non poteva mai essere sospeso. Si trattava, a ben vedere, di una previsione in concreto irrealizzabile poiché l'esecuzione dell'ordine di carcerazione – avvenuta senza dare il tempo al condannato di richiedere l'affidamento in prova allargato – rendeva impossibile la concessione della misura alternativa per chi non aveva ancora effettuato l'ingresso in carcere.

La suddetta situazione normativa – che si è cristallizzata a causa del mancato adeguamento dell'art. 656,comma 5, c.p.p. - ha determinato una incongruità sistematica.

Secondo i Giudici delle leggi, la mancata elevazione del quantum di pena previsto per la sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva al fine di adattarlo al quantum previsto per la concessione dell'affidamento in prova allargato fa emergere non soltanto un mero difetto di coordinamento, ma anche e soprattutto una lesione irragionevole e ingiustificata del principio di uguaglianza ai sensi dell'art. 3 Cost.

Da qui la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 656,comma 5, c.p.p. nella parte in cui prevede che il Pubblico Ministero sospenda l'esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a 3 anni anziché a 4 anni.

Sulla scorta di tali argomentazioni, si ritiene che – allo stesso modo – sarebbe opportuno un adeguamento di disciplina anche rispetto alla vicenda in esame, consentendo al condannato a pena superiore a 4 anni - ma che risulti aver già compiuto 70 anni – di beneficiare dell'istituto della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 01, ord. pen. anche se, al momento della richiesta, non si trovi già in vinculis.

Del resto la norma de qua garantisce l'accesso al beneficio a chi al momento dell'inizio dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della stessa abbia compiuto i 70 anni di età, facendo intendere la non necessità di essere già stato tradotto in carcere.

Venendo ad esaminare il secondo profilo, è innegabile che, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, l'inclusione di un reato tra quelli ostativi dell'art. 4-bis ord. pen. può avere effetto sulle pene in esecuzione, ancorché relative a condanne per fatti antecedentemente commessi, spiegando in tutta evidenza una efficacia retroattiva.

Il legislatore però ha anche dimostrato di voler ovviare a una simile evenienza attraverso l'introduzione di una disciplina transitoria volta a contenere l'applicabilità del regime sanzionatorio più sfavorevole. Ciò è avvenuto, ad esempio, con riguardo ai reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. attraverso l'art. 4 legge 23 dicembre 2002, n. 279.

Ebbene, un'analoga previsione transitoria non è presente nella legge “Spazzacorrotti”, ma un approccio interpretativo sostanzialistico dovrebbe indurre a risolvere il problema quantomeno attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata che consideri il modificato art. 4-bis ord. pen. come una disposizione processuale, ma con “effetti sostanziali”, in considerazione della sua intrinseca capacità afflittiva.

In questo senso, appare interessante la pronuncia del GIP del Tribunale di Como del08.03.2019 in cui, tra le altre cose, ha sottolineato che «la possibilità di sospendere l'ordine di esecuzione funge da necessario complemento alla previsione di misure alternative alla detenzione carceraria, scongiurando l'effetto desocializzante e criminogeno correlato al passaggio diretto in carcere del reo nei casi in cui lo stesso avrebbe avuto diritto (previa valutazione del merito rimessa al Tribunale di Sorveglianza) alla misura alternativa».

Lo stesso Giudicante ha poi osservato che la regola generale della sospensione dell'ordine di esecuzione (introdotta con l'art. 656,comma 5, c.p.p.) e le sue eccezioni (di cui all'art. 656 co. 9 c.p.p.) non possono essere aprioristicamente intese come norme processuali. Queste ultime in particolare «non incidono semplicemente sulle modalità esecutive della pena, ma in concreto impongono, seppur temporaneamente, il regime detentivo in attesa delle decisioni che dovranno essere prese dal magistrato di sorveglianza sul possibile accesso alla misura alternativa». Esse, dunque, sono pacificamente in grado di incidere sulla specie di pena, facendola riespandere nella sua pienezza di istituto privativo della libertà personale.

In definitiva, secondo il GIP del Tribunale di Como, riconoscere un'efficacia retroattiva alla legge n. 3/2019 – con la possibilità di escludere la sospensione dell'ordine di esecuzione rispetto a reati che al momento della commissione la prevedevano – significa in concreto «sanzionare, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all'epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull'esistenza di una disposizione penale che non prevedeva il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione e, quindi, la carcerazione».

Da qui la declaratoria di inefficacia dell'ordine di esecuzione, dando alla parte richiedente la possibilità di formulare entro 30 giorni richiesta di applicazione di una misura alternativa alla detenzione.

Più di recente si segnala anche l'intervento della Quarta Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza del 14 marzo 2019 n. 12541 ha aperto una breccia su tale questione, ritenendo non manifestamente infondata la dedotta censura di illegittimità costituzionale. I Giudici di legittimità hanno richiamato la pronuncia del 21.10.2013 della Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell'uomo, nel caso Del Rio Prada contro Spagna, laddove si affermava la violazione dell'art. 7 CEDU, nel caso di mutamento giurisprudenziale in ordine all'applicazione di un istituto affine alla nostra liberazione anticipata, in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi; con ciò giungendo ad affermare che, ai fini del rispetto del “principio di affidamento “ del consociato in ordine alla “prevedibilità della sanzione penale” occorre avere riguardo non solo della pena irrogata, ma anche della sua esecuzione.

Sulla scorta di tali premesse, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto non manifestamente infondata la prospettazione difensiva, la quale per l'appunto lamentava che il mutamento legislativo non accompagnato dalla previsione di una norma transitoria finiva per incidere sul rispetto dell'art. 7 CEDU, provocando un passaggio “a sorpresa” e neppure “prevedibile” per il condannato - il quale aveva patteggiato una pena nel convincimento di poter in seguito presentare la richiesta di misura alternativa - salvo poi trovarsi con la successiva riforma a dover subìre gli effetti della sanzione penale con la carcerazione immediata.

In quest'ottica, va però segnalato che la Corte di Cassazione, Sez. I, con ordinanza del 18 giugno2019 n. 38153 ha sollevato questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Cost., dell'art. 1, comma 6, lett. b) della legge n. 3/2019 nella parte in cui inserisce all'art. 4-biscomma 1 ord. pen. il riferimento al delitto peculato dell'art. 314 c.p.

Tuttavia – sulla tematica dell'inefficacia retroattiva della legge Spazzacorrotti – la Prima Sezione della Corte Suprema ha fornito una lettura in parte inedita.

Secondo la Corte infatti, condizione minima di validità, compatibile con l'art. 25 Cost., è la previsione – anteriormente al fatto commesso – della cornice edittale della sanzione, mentre l'eventuale variazione delle condizioni di accessibilità alle misure alternative anteriore al fatto commesso rappresenta un aspetto della complessiva risposta dell'ordinamento che esige semmai una verifica della “ragionevolezza” della scelta adottata dal legislatore, oltre a una “calibrata” individuazione (in assenza di disciplina transitoria) del momento processuale che legittima l'applicazione delle nuove disposizioni.

In questo senso, la tutela dell'affidamento dell'imputato nell'accessibilità (non condizionata da nova sfavorevoli) a forme alternative di espiazione della pena riconosciute dalla legge antecedente risulta meritevole di attenzione e tutela, ma non impone di ritenere sempre inapplicabili le disposizioni peggiorative introdotte in un momento successivo a quello della condotta.

Orbene, nella vicenda affrontata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, il ricorrente aveva però beneficiato della sospensione dell'ordine di esecuzione e formulato contestualmente istanza di misura alternativa alla detenzione, venuta meno con l'entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019.

A fronte di ciò, la Corte ha affermato che l'entrata in vigore – posteriore alla sospensione dell'ordine di esecuzione – di una disciplina peggiorativa non può provocare la cancellazione del diritto ad ottenere – secondo la disciplina previgente – la valutazione della domanda di applicazione della misura alternativa già formulata.

Nella parte conclusiva la Corte si interroga dunque sulla “ragionevolezza” della scelta del legislatore di far rientrare nel catalogo dei reati ostativi dell'art. 4-bis ord. pen. anche il delitto di peculato, tenuto conto delle conseguenze anche in punto di espiazione della pena.

In tal senso, il Collegio pone un dubbio sul fondamento logico e criminologico di un simile approdo legislativo. In particolare, la condotta di peculato – per come configurata dall'art. 314 c.p. – non appare contenere alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore tale da implicare la totale inaffidabilità del medesimo verso forme alternative di esecuzione della pena secondo una valutazione rimessa al Tribunale di Sorveglianza.

Dunque, la sottrazione alla ordinaria discrezionalità del giudice in tema di accesso a misure alternative tese alla risocializzazione si muove tutta in un ambito di predeterminazione legislativa che impone il rispetto del principio di ragionevolezza ai sensi dell'art. 3 Cost.

Per queste ragioni, la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzione dell'art. 1, comma 6, lett. b) della legge Spazzacorrotti nella parte in cui inserisce nell'art. 4-biscomma 1 ord. pen. il riferimento al delitto di peculato dell'art. 314,comma 1, c.p.

Per completezza, è opportuno infine segnalare che, a partire dal mese di Febbraio 2019, Formigoni è stato condotto presso la Casa Circondariale di Bollate per l'espiazione della pena detentiva. La difesa – come peraltro aveva prospettato la Corte d'appello milanese – ha formulato istanza di misura alternativa al Tribunale di Sorveglianza di Milano.

Il Collegio giudicante – come testimoniano le notizie riportate dalle principali testate giornalistiche – ha accolto l'istanza di applicazione di una misura alternativa, concedendo all'ex Presidente della Regione Lombardia di scontare la pena in regime di detenzione domiciliare.

Alla base della decisione non sono state poste però le questioni di “diritto intertemporale” e di legittimità costituzionale della legge “Spazzacorrotti”.

Per il Tribunale di Sorveglianza, vi è stato un significativo percorso di rivisitazione critica da parte del condannato. Non solo, ma va pure considerato che Formigoni è detenuto ultrasettantenne per cui ha la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare. Del resto, il limite imposto dall'art. 4-bis ord. pen. – che include tra i reati ostativi anche quello di corruzione per cui è stato condannato – deve essere valutato congiuntamente alla previsione del comma 1-bis della medesima norma.

L'art. 4-bis,comma 1-bis, ord. pen. prevede, in particolare, che i benefici del comma 1 possono essere concessi:

  • ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva;
  • nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata con sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia;
  • nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall'art. 62, n. 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'art. 114 ovvero dall'art. 116, comma 2, c.p.

In definitiva, il Tribunale di Sorveglianza di Milano, con ordinanza del 22 luglio 2019, ha riconosciuto il presupposto dell'attività di collaborazione con la Giustizia “impossibile” o “inesigibile”, concedendo la detenzione domiciliare a Formigoni.

Tuttavia, avverso la decisione sopra richiamata, ha presentato ricorso per cassazione l'Avvocato Generale della Corte d'appello di Milano – Nunzio Gatto.

Si rimane, quindi, in attesa di una valutazione da parte dei Giudici di legittimità.

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