Impresa familiare: natura del lavoro prestato dal coniuge e la violenza economica
24 Settembre 2019
Il quadro normativo
Il quadro normativo relativo alla impresa familiare è delineato dall'art. 230-bis c.c., introdotto nell'ordinamento dall'art. 89 l. n. 151/75 nell'ambito della riforma di diritto di famiglia ed avente lo scopo di approntare una tutela ai diritti del familiare che collabora nella impresa. La norma stabilisce che, salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare, ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. L'articolo prevede anche che le decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi e quelle inerenti l'amministrazione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell'impresa, vengano adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all'impresa. Chi, tra i familiari, non possiede la capacità di agire, verrà rappresentato nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Viene altresì introdotta l'equivalenza del lavoro della donna a quello dell'uomo. Per “familiare” si intende il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Per “impresa familiare” si intende quella in cui collaborano queste categorie di persone. Il diritto di partecipazione all'impresa non è trasmissibile, salvo che tra familiari con il consenso di tutti i partecipi. È anche prevista la possibilità di liquidare in denaro detta partecipazione sia nel momento della cessazione della prestazione di lavoro, per qualunque causa, sia in caso di alienazione dell'azienda. Quanto alle modalità di tale pagamento, esso può avvenire in più annualità o determinate dal Giudice in caso di mancato accordo. Viene anche sancito un diritto di prelazione in capo ai familiari di cui alla norma, in caso di divisione ereditaria o trasferimento di azienda. L'art 230-bis c.c. chiude stabilendo che le comunioni tacite nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme. La riforma portata dalla legge n. 76/2016 (nota anche come legge “Cirinnà), che ha introdotto la disciplina sulle unioni civili e sulle convivenze, al comma 46 ha stabilito la aggiunta, nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l'art. 230- bis, del seguente articolo: «art 230-ter (diritti del convivente): al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o lavoro subordinato». La norma, per quanto esprima la volontà del legislatore di superare la presunzione di gratuità delle prestazioni a favore dell'altro convivente (non contemplato, come abbiamo visto, tra l'elenco dei familiari di cui all'art 230 bis.c.c.), a parere di chi scrive si è chiusa, a livello normativo, giuridico e sostanziale, in modo infelice. Sarebbe stato, infatti, molto più opportuno e tutelante intervenire modificando l'art 230- bis c.c. semplicemente aggiungendo tra l'elenco dei familiari che partecipano all'impresa familiare anche i conviventi di fatto. Alla scelta normativa del legislatore, che ancora una volta dimostra di non considerare parificate e uguali le persone che appartengono e creano un nucleo familiare, consegue anche una disparità di trattamento riservata ai familiari ed ai conviventi. Se, infatti si esamina l'art 230-ter c.c., si può notare immediatamente che, oltre ad ivi scomparire qualsiasi riferimento al lavoro prestato nell'ambiente domestico, la norma prevede quale presupposto per la sua applicabilità, la stabilità del lavoro del convivente, laddove nell'art 230- bis c.c. parla di continuità dell'opera del familiare. La differenza terminologica scelta dal legislatore sottindende, secondo la scrivente, il diverso legame alla base della collaborazione nelle due tipologie di imprese, da un lato quella della famiglia legittima dove la stabilità è presunta, e dall'altro quella dei conviventi, ove la stessa è costantemente da rinnovarsi in termini probatori. Quanto testè affermato, si manifesta nel trattamento di tutela concesso al convivente rispetto al familiare impegnato nell'impresa familiare: il convivente non ha diritto al mantenimento, ma alla sola partecipazione agli utili, ai beni acquistati ed agli incrementi, anche in ordine all'avviamento. Fatto ancor più discriminante è la mancata attribuzione al convivente, rispetto al familiare, del diritto alla partecipazione alle decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi ed a quelle inerenti la gestione straordinaria ed alla cessazione dell'impresa e l'esclusione del diritto di prelazione in caso di alienazione dell'azienda. Ai fini della applicabilità della nuova disciplina prevista dall'art 230-ter c.c., pur non essendo contemplate nell'articolo, la dottrina prevalente ne ritiene l'estendibilità anche alle imprese agricole. Utile, poi, ai fini dell'inquadramento normativo, è precisare che per conviventi di fatto si deve intendere coloro che, maggiorenni, convivano uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale non vincolati da rapporti di parentela, affinità o adozione, matrimonio o da unione civile. La definizione viene fornita dall'art 1 comma 36 della legge 76/2016 e che, naturalmente, è estesa a coppie del medesimo sesso o di sesso diverso. Poichè la suddetta legge destina le proprie norme alle convivenze di fatto, senza presupporne necessariamente la loro registrazione anagrafica, si è ritenuto in dottrina che la convivenza e i suoi effetti giuridici sussistano anche a prescindere dalla dichiarazione anagrafica della convivenza stessa, ovvero che quella anagrafica non sia una pubblicità costitutiva della convivenza, ma una maggior agevolazione probatoria per la dimostrazione della sua esistenza. Detta interpretazione, d'altra parte, deriva dalla lettura del comma 37 della c.d. Legge Cirinnà, laddove si legge che “per l'accertamento” della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui al'art 4 e lettera a) del comma 1 dell'art 13 del regolamento di cui al d.P.R. n. 233/89. Dal punto di vista procedurale, la costituzione dell'impresa familiare, a norma dell'art 5 comma 4 del d.P.R. n. 917/1986, richiede l'atto pubblico o la scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, dal quale risulti il nominativo dei familiari partecipanti, l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore e la sottoscrizione di tutti i componenti. Il reddito dell'impresa familiare può essere attribuito ai familiari dell'imprenditore limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi di quest'ultimo, ovvero il reddito prodotto deve venire imputato a ogni collaboratore che ha prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili e indipendentemente dalla effettiva partecipazione di un reddito, in ogni caso complessivamente per un importo non superiore al 49% dell'ammontare che risulta dal modello redditi del titolare, cui andrà quindi attribuita una quota minima del 51%. Il lavoro subordinato e gratuito in ambito familiare nella giurisprudenza
Poichè sia l'art 230-bis c.c. che l'art 230-ter c.c. circoscrivono la loro applicabilità al fatto che l'apporto lavorativo prestato dal familiare o convivente non sia, rispettivamente, configurabile in un “diverso rapporto” o non costituisca rapporto di società o di lavoro subordinato, è opportuno esaminare le caratteristiche e la natura delle prestazioni di lavoro, in particolar modo prestate dal coniuge a favore dell'altro, che non rientrino nell'ambito della impresa familiare. Ciò anche in quanto la natura dell'apporto lavorativo all'interno della famiglia ha creato e crea sovente numerose problematiche in termini di qualificazione, tutela e conflittualità. Quando, dunque, un lavoro può dirsi subordinato? Il legislatore non ne ha fornito una definizione, optando invece per una qualificazione giuridica del prestatore di lavoro subordinato (art 2094 c.c.) quale soggetto che si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore. La giurisprudenza ha poi fornito i parametri che qualificano in concreto il carattere della subordinazione, ovvero: - la prestazione di lavoro secondo poteri direttivi (istruzioni), di controllo (verifica) e disciplinari (sanzioni); - la retribuzione periodica, a prescindere dal risultato economico-aziendale; - l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione produttiva aziendale; - obbligo di comunicazione di presenze e assenze dal posto di lavoro; - strumenti del datore di lavoro per svolgere l'attività; - l'osservanza di un orario di lavoro; la necessità di concordare le ferie. È orientamento consolidato in giurisprudenza che qualsiasi attività di lavoro oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume resa a titolo oneroso salvo prova contraria. Conseguentemente, ricade sul datore di lavoro la rigorosa ed indefettibile prova della riconducibilità della prestazione lavorativa ad un rapporto diverso da quello subordinato con la altrettanta inconfutabile prova della gratuità dell'attività del prestatore- Orbene: quid iuris se la prestazione lavorativa viene svolta da un coniuge a favore dell'altro, ovvero quando il fruitore della prestazione è legato al lavoratore da vincolo di familiarità, affettivo o filantropico? In queste fattispecie particolari, purtroppo la presunzione di onerosità cede il passo alla presunzione di gratuità: ciò in forza del rapporto di coniugio o del vincolo di parentela (art 77 c.c) o di convivenza tra datore e prestatore di lavoro. In poche parole, se il lavoro viene svolto da congiunti, conviventi, parenti e affini del datore di lavoro, il suddetto principio della presunzione di onerosità viene del tutto capovolto a favore della presunzione della gratuità della prestazione, in particolare quando si tratta di impresa individuale gestita e organizzata con criteri prevalentemente familiari, o di attività prestata in favore di un coniuge professionista o di lavoro svolto in favore di un socio di maggioranza o amministratore di società di persone. La presunzione di gratuità dell'attività lavorativa resa dal familiare non opera solo nell'ipotesi in cui il familiare che beneficia della prestazione sia socio di una società di capitali: in tale ipotesi, infatti, il rapporto di lavoro intercorre con la società, ovvero con un soggetto diverso. Fa eccezione il caso della società di capitali a socio unico. La giurisprudenza si è pressochè sempre espressa nel senso di considerare gratuite e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro le prestazioni lavorative rese tra persone legate da vicolo di convivenza, parentela e affinità. Con la conseguenza che spetta alla parte che sostiene l'esistenza di un rapporto di lavoro dimostrare rigorosamente la sussistenza dei requisiti della subordinazione e della onerosità delle rispettive prestazioni, non essendo all'uopo sufficiente la circostanza che le attività in questione, anziché svolgersi nello stretto ambito della vita familiare, attengano all'esercizio di una impresa qualora questa sia gestita ed organizzata con criteri prevalentemente familiari (cfr Cass. Civ. n.1880/1980). Sono molti i contributi delle corti di merito e di legittimità a sostegno di tale tesi. Ex multis, vale la pena ricordare la sentenza della Corte di Cassazione n. 5215/2000 secondo cui il soggetto che deduca di avere svolto attività lavorativa retribuita alle dipendenze di persona con esso in rapporto di affinità, deve fornire una prova idonea a vincere la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative eseguite solitamente affectionis causa in favore di persone verso le quali si è legati da vincoli di parentela, di affinità, di coniugio o convivenza more uxorio. Nonostante, dunque, l'assodato principio giuridico per cui ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ancor oggi questo assunto lascia spazio alla eccezione riservata al caso in cui l'attività lavorativa, se prestata nell'ambito della affecionis vel benevolentiae causa, viene ricondotta ad una altro diverso istituto caratterizzato dalla presunta gratuità della prestazione. Non solo: gli elementi di prova atti a dimostrare la prevalenza della subordinazione rispetto alla finalità affettiva della prestazione, è compiuta dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto o vizi logici (Vd per tutte Cass. Civ. n. 3602 del 20.2.2006; App. Genova 14 aprile 2014, n. 162). Sussiste, dunque, un connaturato legame tra presunzione di gratuità del rapporto di lavoro e vincolo di affezione e solidarietà che lega il coniuge, i parenti e gli affini conviventi, per questi ultimi intendendosi anche i partner legati da comunanza spirituale ed economica analoga a quella esistente nel rapporto coniugale. A questo proposito, basti ricordare la sentenza n. 19304/2015 con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che nel caso di conviventi di fatto l'elemento solidaristico concorre a pieno titolo con quello determinato dalla normale onerosità, per cui occorre utilizzare criteri di riferimento tendenzialmente precisi per distinguere le due diverse situazioni In sostanza, ciò che rileva è la finalità solidaristica, ovvero l'aspettativa di ottenere, per effetto della relazione instaurata, un incremento indiretto della condizione patrimoniale della famiglia di fatto e di una crescita del benessere di vita derivante dalla comune attività. Ma la dimostrazione è ardua e difficilmente raggiungibile. I principi e gli orientamenti testè esposti hanno avuto il loro epilogo applicativo nella sentenza n. 530 dell'8.2.2017 relativo al caso di una moglie che ha prestato attività lavorativa per 13 anni nella società di cui il marito era socio e presidente del consiglio di amministrazione con stabile suo inserimento nella struttura aziendale in qualità di responsabile di ufficio amministrativo messole a disposizione dell'azienda con altrettanta autonomia operativa e discrezionalità decisionale, ma sempre sotto le direttive del datore di lavoro, al quale ha dedicato per tanti anni, con orario giornaliero pieno, la sua attività. Dato il rapporto di coniugio, la moglie lavorava senza la presenza di regolare contratto e demandando al marito la corresponsione del suo pagamento che avveniva in denaro (€ 350 circa per settimana). All'intervento della crisi matrimoniale e della separazione, la moglie adiva il Tribunale per ivi sentire dichiarare che l'attività lavorativa dalla medesima prestata aveva tutte le caratteristiche ed i connotati giuridici e sostanziali del lavoro subordinato. Ancora una volta, con la sentenza in esame, il Tribunale ha dimostrato una applicazione restrittiva degli indici sintomatici della subordinazione: il Giudice ha infatti respinto la domanda della ricorrente, negando dunque la sussistenza di un lavoro subordinato, sulla base della mancata prova della sussistenza di un potere direttivo del datore di lavoro, di assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni di lavoro, caratteristiche indispensabili per la prova dell'eterodirezione del lavoro subordinato. La violenza economica
Il tema della violenza economica in ambito familiare, culturalmente ancora in evoluzione, induce brevemente, ad esaminare se esistono dei parametri che consentano di individuarne i connotati per verificare se e quali legami sussistono con il lavoro gratuito (per lo più femminile) e la violazione dei principi della parità di trattamento e dei ruoli nella famiglia. Dalla convenzione di Istanbul adottata dal Consiglio d'Europa l'11.5.2011 e dalle ricerche condotte, si può dedurre che per «violenza economica e/o domestica» si intende quell'insieme di atteggiamenti volti ad impedire che il compagno di vita (coniuge o convivente) possa essere o diventare economicamente indipendente. A titolo di esempio, queste strategie possono consistere nell'impedimento al partner della ricerca di un lavoro, nella privazione od il controllo dello stipendio, nel mancato assolvimento degli impegni economici assunti con il matrimonio, nella negazione o la limitazione dell'accesso alle finanze familiari, nell'occultamento delle informazioni sui mezzi finanziari o patrimoniali della famiglia, nella dilapidazione delle risorse economiche, l'indebitamento all'insaputa del partner. Al di là degli ulteriori esempi in cui si concretizza tale risultato, lo scopo che li accomuna è quello di riuscire ad esercitare un indiretto controllo sul partner privandolo, in sostanza, della libertà di autodeterminazione che, soprattutto nel momento della crisi della relazione affettiva, pone il soggetto vittima della violenza economica in una situazione di effettiva impossibilità difensiva e, conseguentemente, di tutela personale, in termini di dignità, autostima e recupero dei propri diritti alla libertà fondamentali in campo sociale, economico, culturale, politico e civile. Statisticamente, i maltrattamenti economici vedono come maggiori vittime le donne. Se si considera che gli interventi normativi degli ultimi anni hanno avuto come scopo quello di sancire il divieto di discriminazione del diritto di parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini in tutte le attività (vd. fra tutti art 1 d.lgs n. 198/06), anche in tema di violenza economica non dovrebbe essere trascurato il principio sancito dall'art 40 del suddetto decreto legislativo secondo il quale costituisce discriminazione diretta e indiretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole o una posizione di svantaggio discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. Tale disposizione potrebbe essere adottata, a parere di chi scrive, per inaugurare un differente regime probatorio, a livello giurisprudenziale, in virtù del favor della vittima di discriminazione quale principio sancito dalla norma testè citata. Esiste uno stretto collegamento tra diritto antidiscriminatorio e relazioni personali-familiari all'interno delle quali si consuma sovente la violenza economica: è lo stesso diritto dell'Unione Europea, infatti, che ci rimanda alla tutela dei diritti fondamentali ed ai divieti di discriminazione basati sul sesso tramite l'affermazione della lotta alla violenza di genere, anche economica. È in questo senso che, a parere di chi scrive, dovrebbe essere letto il maltrattamento economico per sensibilizzare la giurisprudenza ad adottare delle decisioni, mancanti, che offrano e concretizzino una effettiva tutela alla vittima.
Conclusione
Gli argomenti trattati per sommi capi, richiederebbero in realtà un ampio svolgimento, impossibile in questa sede. Ciò che è emerso, è il difficile rapporto tra i doveri di collaborazione e solidarietà familiare, con le attività lavorative prestate nell'ambito della famiglia. Tale rapporto rimane a tutt'oggi parzialmente irrisolto dalla giurisprudenza e, comunque, affrontato in modo del tutto insufficiente ed inadeguato. Manca, infatti, una definizione dei confini di ciò che è doveroso per solidarietà ed affetto rispetto a tutte quelle attività che comportano un arricchimento, anche indiretto (sotto forma di risparmio di costi), per chi lo riceve. |