La stringente perimetrazione della responsabilità della p.a. per danni causati da animale randagio
30 Settembre 2019
Massima
La responsabilità dei danni procurati da un animale randagio è soggettivamente imputabile all'Amministrazione che abbia il dovere specifico di prevenire il verificarsi di siffatti eventi lesivi. Al danneggiato, d'altronde, spetterà anche l'onere di dare prova del nesso causale tra l'omissione e l'evento di danno, nonché della colpevolezza in concreto della pubblica amministrazione, ai sensi dell'art. 2043 c.c. Il caso
Un'associazione ecclesiastica, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti ad una propria vettura provocati da un cane randagio che attraversava la strada, conveniva in giudizio il Comune Alfa e l'Azienda Sanitaria Locale competente per territorio. Il primo giudice riconosceva la responsabilità esclusiva del Comune. La Corte d'Appello riformava la sentenza. In particolare, il Collegio territoriale imputava il fatto lesivo in via esclusiva all'ASL, in ragione del mancato esercizio del potere di vigilanza e controllo sul fenomeno del randagismo, attribuitole con legge regionale. L'Azienda Sanitaria ricorre per Cassazione. Con i primi due motivi lamenta che, in forza del dettato della Legge Regionale, i poteri di vigilanza e di controllo del randagismo spettano in via esclusiva al Comune; inoltre, viene sostenuto che alla ricorrente spetterebbe soltanto l'obbligo di cattura degli animali la cui presenza sul territorio venga previamente segnalata dall'Ente territoriale. Con il terzo motivo di ricorso l'ASL deduce, invece, violazione dell'art. 2043 c.c.. L'addebito di responsabilità, infatti, non le sarebbe soggettivamente ascrivibile poiché nessuna richiesta di intervento le fu inoltrata dal Comune nelle giornate precedenti l'incidente. La questione
Merita accoglimento la pretesa di chi, danneggiato da un animale randagio, si limiti ad individuare la p.a. astrattamente obbligata a prevenire il verificarsi di tali eventi lesivi? Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte, in accoglimento parziale delle censure prospettate dal ricorrente, chiarisce e arricchisce ulteriormente il tema della responsabilità della p.a. in ipotesi di eventi di danno riconducibili al fenomeno del randagismo. I) In primo luogo, la pronuncia delinea la natura della fattispecie di responsabilità extracontrattuale in esame. In particolare, viene brevemente ricordato come i danni causati da animali randagi non siano addebitali ai soggetti pubblici in forza dell'art. 2052 c.c., ma il criterio di imputazione rimanga quello ordinario di cui all'art. 2043 c.c.. Tale assunto, che trova riscontro nella prevalente dottrina e nella pressoché unanime giurisprudenza, tanto di legittimità, quanto costituzionale (cfr. Corte cost., 4 gennaio 2001, n. 4), si fonda sull'interpretazione restrittiva dell'ambito applicativo della responsabilità speciale anzidetta. L'art. 2052 c.c., secondo tale tesi, presuppone che l'animale si trovi necessariamente nella disponibilità e nel governo, ovvero sotto la custodia, di chi ne ha la titolarità giuridica o di chi ne trae godimento per un proprio scopo personale. In tale prospettiva, la fauna selvatica (tra cui rientrano certamente gli animali randagi), cioè quella non domestica e non in cattività, per sua natura in stato di libertà, non è idonea ad essere strumentale ad un godimento particolare e non è suscettibile di rientrare nel dominio di alcun soggetto. Ne consegue che i danni che ne derivano non possono ricadere in ogni caso sullo Stato o sue articolazioni, benché tali beni rientrino nel patrimonio indisponibile dello Stato, ai sensi della legge 11 febbraio 1992, n. 157. Sebbene si renda inapplicabile il suddetto criterio d'imputazione oggettivo nelle ipotesi descritte, la p.a. risponde per la lesione della sfera giuridica altrui in base alla disciplina generale della responsabilità civile, in quanto la propria azione deve essere sempre svolta in un contesto di liceità. Ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche l'amministrazione, infatti, è tenuta a rispondere dei comportamenti alla stessa riconducibili che abbiano prodotto danni ai consociati. L'azione amministrativa è contraddistinta da illiceità anche qualora il soggetto pubblico, al quale sono attribuite normativamente specifiche funzioni, non compia adeguatamente o non compia affatto quanto in suo dovere per il perseguimento dei propri fini istituzionali. In altri termini, ciò si verifica qualora l'amministrazione abbia omesso di esercitare o non abbia esercitato adeguatamente il potere attribuitole da specifica normativa. Per quanto qui d'interesse, il legislatore pone in capo a determinati soggetti pubblici il dovere di tutelare l'incolumità pubblica e l'ambiente, per mezzo di specifiche funzioni di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo. Sul punto la legge n. 281 del 1991 “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo” all'art. 3 demanda alle Regioni la predisposizione di un “programma di prevenzione del randagismo”. Pertanto, sulla base delle distinte legiferazioni regionali è possibile determinare in capo ai Comuni e/o altri Enti peculiari (spesso le ASL, come si vedrà) la puntuale attribuzione di precipue competenze amministrative atte a salvaguardare i cittadini e l'ambiente stesso. Va dato atto, ulteriormente, che nella maggior parte delle normative regionali in capo ai Comuni viene posto il compito di istituire l'anagrafe canina e predisporre i canili municipali che poi ospiteranno gli animali catturati, mentre sulle Aziende Sanitarie Locali ricade proprio il compito di cattura.
II) Così brevemente riassunto il quadro di sistema, la pronuncia in esame come le precedenti sul tema non manca di affrontare il punctum pruriens relativo a tali ipotesi di illeciti. In materia, infatti, sembrerebbe tutt'altro che risolto il problema dell'individuazione del soggetto pubblico passivamente legittimato al risarcimento delle lesioni occorse a terzi, in conseguenza del mancato assolvimento del suddetto obbligo di tutela. Le tesi prospettate tradizionalmente si ricollegano a due filoni giurisprudenziali apparentemente distinti. Un primo orientamento ritiene che se alle ASL è ricondotto il dovere di accalappiare la fauna vagante iscritta o meno all'anagrafe canina, nondimeno all'Ente territoriale potrebbero spettare generali doveri di vigilanza e controllo del territorio (cfr. in tal senso Cass. civ., sez. III, 13 agosto 2015, n.16802; Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n.2741; Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2011, n.17528; nonché Cass. civ., 28 aprile 2010, n. 10190), a fronte dei quali sarebbe configurabile una responsabilità solidale tra tutte le pp.aa. coinvolte. Un secondo orientamento sostiene invece che dall'esame della disciplina regionale occorre individuare quale sia l'Ente su cui ricade il puntuale dovere di adottare misure di prevenzione dello specifico pericolo per l'incolumità dei consociati, consistenti precisamente nella cattura dei cani randagi (cfr. Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2018, n. 17060; Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31957; Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2017 n. 15167 e Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2017, n.12495). Siffatta tesi determinerebbe una responsabilità esclusiva di quel soggetto, che frequentemente viene individuato nel Servizio Veterinario, strutturalmente inserito nell'organizzazione delle ASL. Nella pronuncia qui in discussione, la Corte di ultima istanza accede a quest'ultima interpretazione della responsabilità della p.a. per lesione di diritti soggettivi. In motivazione, infatti, statuisce che “la responsabilità̀ per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente, nel concorso degli altri presupposti, all'ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge […] il compito di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità̀ della popolazione connesso al randagismo e cioè̀ il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi”. Ancora, stante l'indeterminatezza della legge quadro statale in materia, ai fini dell'individuazione di tale peculiare, si sostiene nella parte motiva che “occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso”.
III) Superata l'analisi tesa all'individuazione della posizione di garanzia, l'ordinanza passa all'accertamento degli altri elementi costitutivi della responsabilità aquiliana in discorso. Accogliendo il ricorso sul punto, la Cassazione ribadisce gli stringenti oneri probatori in capo al danneggiato, derivanti dall'applicazione del regime ordinario di responsabilità. Il comportamento, o meglio l'omissione, imputabile agli Enti pubblici, infatti, non deve essere solo dovuto e legato eziologicamente all'evento di danno, nel senso che, se si fosse agito nel rispetto del dovere imposto, quest'ultimo sarebbe stato evitato, o quantomeno ricondotto nella normale alea di rischio del fatto lesivo. Si richiede, infatti, che l'omissione sia anche colposa e, in particolare, viene indagata la misura soggettiva della colpa, consistente nella verifica della condotta in concreto esigibile dal danneggiante. In altri termini, ricostruito, sulla base della regola violata, il comportamento dovuto, che avrebbe impedito l'evento, si pone in capo al danneggiato l'onere di dare dimostrazione della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento, adottando la condotta che nelle circostanze del caso concreto poteva richiedersi ad un soggetto diligente, avente quale parametro quello dell'agente modello. La puntualizzazione dell'onere probatorio gravante sulla vittima circa la colpevolezza del danneggiante è sorretta tanto da ragioni logiche, quanto da ragioni giuridiche. Infatti, in primo luogo, è del tutto evidente che all'amministrazione non può essere richiesto di presidiare e controllare quotidianamente l'intero territorio di competenza alla ricerca di animali randagi da catturare. Tale attività richiederebbe un dispiegamento di personale e di stanziamenti economici certamente non accettabili, in violazione dei principi di economicità e di efficienza che distinguono l'azione amministrativa. Pertanto, ciò che può essere richiesto, ed è infatti oggetto di prova, è di individuare lo scarto fra condotta tenuta e quella esigibile in quelle condizioni di spazio e tempo, attuando uno sforzo diligente. Il riflesso giuridico dell'esigenza di accertare la colpevolezza della p.a. si rintraccia, invece, nell'evidenza che se fosse sufficiente il nesso causale tra condotta ed evento si rientrerebbe nell'alveo della responsabilità oggettiva. Anche la statuizione in commento rileva che in assenza di colpa si renderebbe “la responsabilità dell'ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c.”. Nel merito, la Corte evidenzia come l'evento in sé dell'attraversamento stradale del cane randagio sia certamente prevedibile, stante la normalità dello stesso. Tuttavia, viene revocato in dubbio che in concreto l'ASL potesse effettivamente agire così da evitare il verificarsi del danno “in quel determinato momento ed in quella particolare situazione con uno sforzo proporzionato alle capacità dell'agente”. La decisione, come altre sul tema, chiarisce, a titolo esemplificativo, che ai fini di fornire la prova dell'evitabilità del danneggiamento, la vittima lesa deve provare l'esistenza “di precedenti segnalazioni della presenza abituale di animali randagi nel luogo dell'incidente, lontano dalle vie cittadine, ma rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto, ovvero che vi fossero state nella zona richieste d'intervento dei servizi di cattura e di ricovero”. Osservazioni
Verificata la difficoltà in materia di rinvenire un criterio di individuazione dell'Ente passivamente legittimato alla pretesa risarcitoria, si ritiene utile fornire, seppur limitatamente, delle coordinate anche sistematiche del dibattito surriferito, così da permettere una valutazione maggiormente consapevole anche della propria posizione processuale. Come descritto, la questione sembra affetta da un'insanabile dualismo interpretativo. La pronunciata in questione, rifacendosi all'orientamento più recente, sostiene che il responsabile dell'illecito sia la pubblica amministrazione su cui ricade “il compito di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione connesso al randagismo e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi”. La ragione di una maggiore condivisione da parte della giurisprudenza di legittimità nelle sue pronunce più recenti sembra trovare fondamento in una più rigorosa ricostruzione sistematica della responsabilità omissiva e delle correlate e peculiari regole che ne disciplinano l'analisi del collegamento eziologico tra fatto ed evento. Tale analisi rinviene il proprio referente normativo nell'art. 40 cpv c.p., stante l'assenza di una puntuale disciplina della causalità in campo civile. Da tale norma si evince che l'equiparazione fra condotta attiva e condotta omissiva si fonda, infatti, sull'individuazione di una cd. posizione di garanzia, ovvero di un puntuale obbligo in capo ad un determinato soggetto di impedire il verificarsi di eventi lesivi. Tale presupposto trova ragione nella fondamentale eccezionalità della responsabilità omissiva, in quanto interferente con la sfera della libertà individuale, sicché l'imposizione di particolari attività, di particolari facere deve essere giustificata dalla tutela di interessi preminenti di volta in volta individuati. Tale eccezionalità è resa evidente anche dalla norma generale sull'illecito civile. Infatti, l'art. 2043 c.c. impone un generale divieto di ledere la sfera personale altrui, quindi un non facere.
Rinvenire un preciso obbligo giuridico, come rilevato anche dalla decisione in commento, non è però sufficiente, in quanto occorre vagliare la configurabilità del rilievo causale della omessa condotta attiva. In base alla teoria condizionalistica, invero, dovrà accertarsi che in presenza della condotta alternativa dovuta l'evento non si sarebbe verificato o, in materia civile, che le probabilità di verificazione dello stesso sarebbero rimaste circoscritte entro la normale alea di rischio. Il procedimento mentale per accertare tale connessione eziologica, per quanto concerne le omissioni, consiste in un giudizio doppiamente ipotetico, di sostituzione dell'omissione con la condotta dovuta e della valutazione di persistenza o meno dell'evento dannoso. Tale giudizio di prevedibilità, va evidenziato, come esplicitato dai più noti arresti della giurisprudenza penale sul tema, non si distanzia da quello necessario per affermare la colpa del soggetto che avrebbe dovuto agire diligentemente. In base all'art. 43 c.p., infatti, se da un lato occorre valutare che il comportamento alternativo lecito avrebbe evitato l'insorgere di una probabilità di rischio più alta di quella consentita, in via preliminare è determinante chiarire se l'evento da impedire risulti una concretizzazione del rischio specifico che le regole cautelari miravano a prevenire. Sicché, così come accade nell'accertamento della colpevolezza, va evidenziato come l'addebitabilità per il verificarsi di un fatto lesivo non possa prescindere dalla valutazione della specifica funzione preventiva della norma impositiva di determinate condotte. Pertanto, l'evento verificatosi deve rientrare tra quelli che la posizione di garanzia aveva lo scopo di evitare. Tale ragionamento viene applicato dalla giurisprudenza di legittimità che si è espressa sul particolare fenomeno del randagismo per perimetrare gli obblighi normativi sui quali fondare l'imputazione di responsabilità, dando rilevanza soltanto a quelli che sono tesi ad evitare eventi del tipo in discorso. Su tali basi, si è evidenziato come l'aggressione da parte del cane randagio sia direttamente evitabile soltanto adempiendo l'obbligo di cattura e di custodia, non anche ad esempio qualora l'obbligo imposto sia quello di istituire l'anagrafe canina o gestire i canili municipali, per cui non sarà in capo al titolare di questi doveri che ricadrà la responsabilità civile qui in discorso. Sul punto, di particolare chiarezza risulta la decisione di Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2018, n. 17060, nella quale si rileva che dall'esame della normativa regionale “risulta evidente che funzione tipica dell'obbligo giuridico di recupero dei cani randagi a carico dei Servizi veterinari delle ASL è quella di prevenire eventi dannosi quale quello per cui è causa”, mentre lo stesso non può sostenersi per gli obblighi gravanti sul Comune. Nel caso ivi esaminato, infatti, si ritiene che “l'obbligo giuridico di costruzione e gestione di canili sanitari per l'accoglienza di cani vaganti […] resta estraneo alla funzione tipica della prevenzione dei rischi derivanti dal randagismo, di cui è espressione l'evento dannoso per cui è causa, in quanto non comporta l'obbligo dell'attività di recupero, ma solo quello di accoglienza dei cani randagi”. Nello stesso senso si richiamano le pronunce Cass. civ., sez. III, 20 giugno 2017 n. 15167 e Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2017, n.12495, in particolare, quest'ultima ha sottolineato chiaramente che “la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetti esclusivamente all'ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281/1991) il compito di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione connesso al randagismo, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi”. Ancora, in quest'ultima statuizione si è evidenziato che “non può invece ritenersi sufficiente, a tal fine, l'attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo e a maggior ragione di semplici compiti di controllo delle nascite della popolazione canina e felina. Tali ultimi competenze, in particolare, non possono ritenersi direttamente riferibili alla prevenzione dello specifico rischio per l'incolumità della popolazione derivante dalla eventuale pericolosità degli animali randagi”.
Alla luce di quanto descritto, l'altro filone interpretativo, che ammette la responsabilità solidale di tutti gli Enti coinvolti nella prevenzione del randagismo, tuttavia, non sembrerebbe doversi considerare assolutamente recessivo. Le pronunce a sostegno di tale tesi, invero, potrebbero avere una loro coerenza con le più recenti statuizioni sul tema qualora ricondotte ad un'interpretazione generale del problema della responsabilità civile omissiva della pubblica amministrazione. Le stesse, infatti, non si discostano dall'individuazione di un obbligo di attivarsi in capo al soggetto pubblico. Viene riconosciuto, innanzitutto, che l'azione amministrativa incontra il limite inderogabile del neminem laedere “la P.A. è responsabile per i danni causalmente riconducibili alla violazione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono limiti esterni alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem laedere” (cfr. Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2011, n.17528). Al contempo, l'obbligo di impedire la lesione degli interessi tutelati rimane ancorato alla stessa attribuzione della relativa funzione amministrativa. L'imputazione dell'Ente pubblico, infatti, si riconosce in quanto “provoca o non impedisce la lesione di quei diritti ed interessi la cui tutela è propriamente rimessa al corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti per l'assolvimento della funzione” (così Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2011, n.17528, richiamata nelle successive) e il fatto lesivo verificatosi deve consistere nella “concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire” (cfr. Cass. civ., sez. III, 23 agosto 2011, n.17528). Questa diversa lettura delle sentenze, che segnano la dicotomia ermeneutica riferita, sarebbe d'altronde sostenuta anche dalla citata Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2018, n. 17060, la quale sostiene appunto che la decisione di Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n.2741 “pur resa con riferimento ad una vicenda relativa all'applicazione della legge della Regione Puglia, ha in realtà portata generale e risulta richiamata in altre fattispecie relative a diversi contesti regionali”. Le decisioni degli ultimi due anni, peraltro, sembrano aderire a tale prospettiva. Nel delineare la responsabilità o meno del Comune, infatti, si richiede quale condizione necessaria, sebbene non sufficiente, che il danneggiato “individui nel Comune il soggetto (o meglio: uno dei soggetti) avente(i) il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi” (così in motivazione Cass.civ., sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31957, ma con le stesse parole già Cass.,civ., sez. III, 31 luglio 2017, n.18954, Cass. civ., Sez. VI, 14 maggio2018, n. 11591 e da ultimo anche l'ordinanza in commento). Nei suoi distinti arresti, cioè, la Suprema Corte sembra addivenire alla conclusione per cui ai fini dell'individuazione della cd. posizione di garanzia, in prima istanza, deve verificarsi su quale soggetto pubblico ricorre l'obbligo di cattura dell'animale e soltanto in assenza di questo fare riferimento al dovere di controllo del fenomeno. Questa asserzione appare suggerita dalla stessa lettura delle pronunce che, pur richiamando doveri tanto generali quanto specifici di prevenzione del fenomeno del randagismo, nei casi concreti individuano sempre l'obbligo di cattura come posizione dirimente. Infatti, per quanto concerne la decisione in esame, il risultato è il rigetto in parte qua del ricorso dell'ASL, rilevando come su quest'ultima ricada effettivamente l'obbligo specifico di cattura. Mentre nella citata Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31957, per motivare l'insufficienza di un comportamento non iure, è paradigmatico che venga puntualizzata “l'individuazione dell'ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi”. Peraltro, in questa fattispecie soltanto il Comune era stato chiamato in giudizio e risulta dalla lettura della normativa regionale che proprio su tale Ente ricadeva l'obbligo di cattura. |