Dalla cenestesi lavorativa al lucro cessante: danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa specifica e regime della prova
05 Novembre 2019
Massima
Il danno patrimoniale futuro, derivante da lesioni personali, va valutato su base prognostica ed il danneggiato può avvalersi anche di presunzioni semplici, sicché, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, è possibile presumere, salvo prova contraria, che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura – non necessariamente in modo proporzionale – qualora la vittima già svolga un'attività lavorativa. Tale presunzione, peraltro, copre solo l”an” dell'esistenza del danno, mentre, ai fini della sua quantificazione, è onere del danneggiato dimostrare la contrazione dei suoi redditi dopo il sinistro, non potendo il giudice, in mancanza, esercitare il potere di cui all'art. 1226 c.c., perché esso riguarda solo la liquidazione del danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, situazione che, di norma, non ricorre quando la vittima continui a lavorare e produrre reddito e, dunque, può dimostrare di quanto quest'ultimo sia diminuito. Il caso
Donata M. operaia in un'impresa di pulizie, mentre attraversava a piedi la strada, veniva investita riportando gravi lesioni alla mano sinistra. L'infortunata citava in giudizio l'investitore, la società proprietaria del veicolo e la compagnia rivendicando il risarcimento sia dei danni alla salute che di quelli patrimoniali a suo dire conseguiti all'evento. La consulenza tecnica espletata nel corso del giudizio evidenziava in effetti l'esistenza di severi postumi permanenti, pari nella specie al 17%. L'ausiliario del giudice accertava tuttavia, nello stesso tempo, che la lesione avrebbe comunque consentito la conservazione dello stesso livello di reddito, imponendo all'infortunata soltanto un maggiore sforzo nell'espletamento delle proprie mansioni. Su tale ultimo punto la lavoratrice interponeva appello incidentale, confutando in particolare l'avviso del primo giudice secondo il quale il danno conseguente alla lesione subita poteva invece essere derubricato nella categoria del danno biologico, quantunque aggravato, in termini di maggiore usura lavorativa. Opinava invece l'appellante che la lesione subita avesse determinato qualcosa di più e segnatamente una riduzione effettiva dei guadagni, rilevante quale pregiudizio patrimoniale da lucro cessante e dunque meritevole di autonoma liquidazione. Anche i secondi giudici disattendevano però la tesi di Donata M., facendo proprie, a mezzo di una succinta motivazione, le argomentazioni sviluppate nella decisione di primo grado. La corte fiorentina, in analogia con il Tribunale, riteneva infatti del tutto sufficiente la valutazione emersa dall'istruttoria tecnica alla stregua della quale non si potesse configurare una contrazione di reddito dell'infortunata. Quest'ultima avrebbe infatti, stando alla CTU, potuto mantenere inalterato il proprio livello di reddito semplicemente lavorando con un maggiore sforzo. E di quest'ultima circostanza si era tenuto adeguato conto incrementando congruamente il valore base tabellare del risarcimento del danno biologico. Contro questa pronuncia la danneggiata proponeva ricorso di legittimità, affidandolo a due motivi. La questione
È necessario chiarire se la riduzione della capacità lavorativa specifica derivante da lesioni personali possa essere valutata su base prognostica - quale danno futuro - anche a mezzo di presunzioni semplici; se, in assenza di prova certa, l'ammontare del danno stesso possa anche essere raggiunto mediante una determinazione equitativa. Le soluzioni giuridiche
Ad avviso della lavoratrice la decisione di seconde cure avrebbe – intanto – violato le regole sull'accertamento del danno alla capacità lavorativa specifica. E ciò avrebbe fatto disattendendo un consolidato orientamento di legittimità secondo il quale in determinate condizioni, al fine di accertare il danno derivante dalla lesione fisica alla capacità di guadagno, è anche possibile il ricorso a presunzioni semplici. Presunzioni che, nella specie, troverebbero nella gravità della lesione (ricordiamo che a carico della ricorrente erano stati riscontrati postumi per il 17%) un fatto noto da cui ricavare il convincimento che la stessa lesione inciderà sui guadagni futuri della vittima. Analoga censura viene mossa anche sotto un altro profilo, declinato in questo caso a mente degli artt. 115 e 116 del codice di rito. Avrebbe infatti in questa prospettiva ulteriormente errato il giudice di appello non tenendo conto del fatto che l'effettivo decremento del guadagno poteva - ancora - ricavarsi per presunzioni. Ricordiamo come la consulenza del primo grado avesse di par suo escluso qualsivoglia incidenza della lesione sui guadagni futuri della lavoratrice. La stessa lavoratrice, secondo i giudici del merito, non contestando in modo esplicito tale deduzione tecnica, l'avrebbe infatti resa vincolante ai fini del decidere e avrebbe così mancato di assolvere all'onere della prova a suo carico. In realtà l'operaia, questa la tesi fatta valere, le conclusioni peritali le avrebbe implicitamente contestate e l'onere probatorio l'avrebbe invece compiutamente assolto. Fin dal primo grado Donata M. aveva invero versato in atti sia la propria dichiarazione dei redditi, che la busta paga: da questi si evinceva una riduzione dell'orario di servizio e di conseguenza, un'inevitabile contrazione della retribuzione. Tali elementi, in base al ragionamento seguito dalla ricorrente, avrebbero integrato, se non una prova piena e diretta, comunque un dato di fatto utile e sufficiente a costituire una presunzione. E dunque pervenire alla dimostrazione, che si voleva invece mancata, che la lesione avesse effettivamente inciso sui guadagni. I Supremi Giudici sono dunque chiamati a sciogliere il nodo interpretativo sotteso alla vicenda di Donata M., peraltro spesso emergente nella prassi. Il Supremo Collegio, dando peraltro continuità ad un proprio consolidato indirizzo, risponde affermativamente ad entrambi i quesiti, così recependo le censure della lavoratrice. Nel caso di specie, forse fuorviata da un'apparente acquiescenza dell'attrice agli esiti della CTU (che, ricordiamo, aveva escluso una contrazione del reddito), la corte d'appello toscana si era in effetti discostata dalle regole di giudizio da tempo delineate dalla giurisprudenza di legittimità. Alla stregua di queste, ribadite anche nella decisione in commento, il danno patrimoniale futuro derivante da lesioni personali va valutato su base evidentemente prognostica. Ma - per ciò che più conta - la relativa operazione può essere condotta, mancando prove dirette, anche con l'ausilio di presunzioni semplici. Fatta naturalmente salva la prova contraria. Sicché, una volta accertata l'esistenza di una lesione che comporti una invalidità del soggetto superiore al 10%, il danneggiato può compiutamente assolvere all'onere della prova a proprio carico anche soltanto allegando elementi di fatto “utili a costituire una presunzione”. Provando, ad esempio, il pregresso svolgimento di un'attività lavorativa e un'intervenuta diminuzione del proprio salario in epoca successiva all'evento lesivo. La semplice allegazione di tali circostanze, peraltro puntualmente dedotte dall'attrice fin dal primo grado del giudizio, sarebbe stata sufficiente a contrastare - sia pur implicitamente - le diverse conclusioni peritali, integrando allo stesso tempo la prova del nesso di derivazione eziologica tra lesione e perdita di guadagno. Nessuna acquiescenza vi è stata dunque nel caso in esame, e il giudice del merito una volta acquisite al processo le allegazioni della danneggiata, avrebbe dovuto tenerne conto conformando anche a tali emergenze la propria decisione, discostandosi dunque ove necessario dal diverso avviso del proprio consulente. Precisano i giudici di piazza Cavour, anche sotto questo profilo rimanendo nel solco tracciato da precedenti simili, che la presunzione semplice è idonea a coprire eminentemente l'esistenza teorica, l'”an”, del danno. Ai fini della sua quantificazione dovrà quindi il danneggiato fornire anche ulteriori elementi che valgano a dimostrare una effettiva diminuzione del guadagno. Solo in presenza di questi il giudice potrà quindi esercitare il potere di cui all'art. 1226 c.c. liquidando equitativamente, anche in assenza di una prova certa e diretta, il pregiudizio. La sentenza viene dunque cassata con rinvio perché la corte rivaluti la prova del nesso causale, includendo nel proprio vaglio gli elementi presuntivi addotti dalla ricorrente e non scrutinati nella prima fase del procedimento. Osservazioni
La decisione in commento ricalca, come detto, un indirizzo interpretativo già consolidato, invitando correttamente i giudici del merito ad uno scrutinio più attento anche degli “elementi presuntivi” intesi a dimostrare l'esistenza di una perdita di guadagno. Non può tuttavia, in relazione a casi analoghi a quello di Donata M., sottacersi anche la difficoltà spesso incontrata del giudicante ad operare un'adeguata mediazione intellettuale tra le risultanze tecniche del proprio ausiliario e il materiale presuntivo eventualmente acquisito. Un tale vaglio va infatti, senza dubbio, attuato con grande prudenza e il superamento del dato scientifico (ricordiamo ad esempio che nel caso in esame il CTU si era limitato a rilevare una mera cenestesi lavorativa) può essere effettuato solo nel rigoroso rispetto della regola di cui al 2729 c.c. Sicché le eventuali risultanze presuntive, soprattutto al cospetto di un giudizio tecnico negativo, dovranno essere particolarmente “gravi, precise e concordanti”, rischiandosi in caso contrario un ingiustificato eccesso risarcitorio. |