La permanenza alternata e paritaria del minore presso ciascun genitore è sempre la soluzione preferibile?

Rosa Muscio
08 Novembre 2019

La pronunzia in esame, affronta la questione del c.d. collocamento alternato e paritario dei figli e del loro mantenimento diretto, disposti entrambi sulla base delle norme vigenti, perché entrambi rispondenti all'interesse del minore nella fattispecie concreta.
Massima

La soluzione della suddivisione paritetica dei tempi di permanenza non è sempre da preferire, ma solo laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto.

L'assegno perequativo a carico di uno dei due genitori può essere stabilito, ove necessario, per attuare il principio di proporzionalità, tenuto conto dei diversi parametri indicati dall'art. 337-ter comma 4 c.c, tra cui rilevano anche i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore.

Il caso

In un procedimento relativo a figlio nato fuori dal matrimonio la madre del minore chiedeva l'affidamento condiviso, il collocamento prevalente presso di sé, una regolamentazione del diritto di visita con il padre articolata in due pomeriggi alla settimana e in fine settimana alternati senza pernottamento, l'assegnazione a sé della casa familiare, di proprietà esclusiva dell'ex compagno e un contributo al mantenimento del figlio e il padre chiedeva l'affido condiviso, il collocamento alternato e paritario e avanzava proposte immobiliari per garantire allo stesso di continuare a godere della casa familiare di sua esclusiva proprietà e al figlio di disporre di un'abitazione dignitosa. Il Tribunale di Catanzaro, dopo una dettagliata ricostruzione dei principi e delle norme sovranazionali e nazionali che disciplinano l'affidamento e “la custodia fisica” dei figli, disponeva l'affidamento condiviso del minore, tempi paritetici di permanenza del minore con entrambi i genitori secondo un calendario in dettaglio stabilito dallo stesso Collegio e il mantenimento diretto sia ordinario sia straordinario del bambino da parte dei genitori. E ciò in ragione della ricostruzione della situazione in fatto che caratterizzava la famiglia disgregata che al Tribunale si era rivolta, sia in relazione alla decisione relativa al collocamento e ai tempi di permanenza del minore con il padre su cui le parti erano in disaccordo sia in relazione alla decisione relativa al mantenimento del minore.

Il Tribunale accertava in concreto che l'età del minore e le abitudini di vita di quella famiglia e di quel bambino ben potevano consentire una gestione paritetica dei tempi di permanenza del figlio con i genitori e che le condizioni reddituali e patrimoniali dei genitori e gli oneri economici cui entrambi dovevano far fronte, anche e proprio per il venir meno dell'unione familiare, rendevano pienamente conforme al principio di proporzionalità il mantenimento diretto del figlio da parte di entrambi i genitori sia per le spese cd. ordinarie sia per le spese c.d. straordinarie.

La questione

La pronunzia in esame affronta un tema che è di fatto ordinario per chi è chiamato a decidere in ordine all'esercizio della responsabilità genitoriale in caso di separazione, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e nei procedimenti dei figli nati fuori del matrimonio, ma che è di particolare attualità, come si legge anche nella motivazione del provvedimento in esame, in ragione dei progetti di riforma delle norme che disciplinano la materia (il c.d. disegno di legge Pillon).

In particolare, affronta la questione del c.d. collocamento alternato e paritario dei figli e del mantenimento diretto dei figli, disposti entrambi, facendo applicazione delle norme vigenti, perché entrambi rispondenti all'interesse del minore nella situazione concreta esaminata e ricostruita dal Tribunale stesso.

Le soluzioni giuridiche

Deve premettersi che le questioni affrontate dalla pronuncia in esame si pongono in tutte le situazioni in cui l'Autorità Giudiziaria è chiamata a disciplinare gli aspetti fondamentali della vita del minore al momento della disgregazione della sua famiglia, sia essa matrimoniale o di fatto, perché i genitori, nell'esercizio di quella responsabilità genitoriale di cui sono titolari, non riescono a trovare accordi che ben potrebbero, invece, raggiungere e di cui il Giudice dovrebbe limitarsi a prendere atto, se non contrari all'interesse del minore.

E la pronuncia in esame ha il pregio, secondo chi scrive, di dimostrare, dopo un articolato excursus sulle norme delle convenzioni internazionali e comunitarie che disciplinano i diritti del fanciullo e sulla letteratura scientifica in materia, in modo chiaro come l'attuale assetto normativo dettato dall'art. 337-ter c.c consenta al Giudice di adottare una decisione che dispone la permanenza del figlio per tempi paritetici con entrambi i genitori e il mantenimento diretto da parte di entrambi i genitori, perché quella è la decisione più rispondente all'interesse del minore nel caso concreto per come accertato in giudizio.

La suddivisione paritetica dei tempi di permanenza

È pacifico che l'art. 337-ter comma 1 c.c sancisce il diritto del figlio minore, nel caso di disgregazione della sua famiglia, di «mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi i genitori…..» .

Tale diritto in linea di principio si deve tradurre in una tendenziale situazione di equivalenza nella relazione di cura e di affetti e di tempo del figlio con entrambi i genitori, perché così viene garantito il percorso di equilibrata crescita del minore secondo gli studi scientifici di settore.

Ma tale diritto e le sue modalità concrete di esplicazione non possono prescindere in concreto dalla storia di quella famiglia e di quel minore, prima e dopo la disgregazione, storia che è compito del Giudice, cui le parti si rivolgono, accertare.

Ed in questo senso, infatti, l'art. 337-ter comma 2 c.c stabilisce che «per realizzare la finalità indicata dal primo comma, …. il Giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa»,disposizione che, a giudizio di chi scrive, può realmente garantire quella adeguatezza della decisione al caso concreto e, quindi, quella realizzazione del superiore interesse del minore che le norme internazionali ed interne ci impongono.

E in relazione all'oggetto specifico della pronuncia in commento stabilisce l'art. 337-ter comma 2 c.c che il Giudice «determina i tempi e le modalità della loro (cioè dei figli) permanenza presso ciascun genitore, fissando, altresì, la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli».

È evidente che, in ragione della finalità prioritaria sopra indicata, la soluzione preferibile dovrebbe essere quella di tempi tendenzialmente paritetici dei figli con entrambi i genitori, ma tale soluzione deve anche essere compatibile con le caratteristiche specifiche di quel nucleo familiare e di quel minore per potergli assicurare continuità nelle sue relazioni sociali e amicali e non imporgli sacrifici eccessivi e pregiudizievoli per la sua stabilità di vita. E cioè a dire che non si può prescindere dall'età del bambino e della volontà del minore capace di discernimento, da eventuali condizioni di patologia del minore e/o dei genitori, dalla distanza logistica delle abitazioni dei due genitori, dagli impegni lavorativi di entrambi i genitori, dalla stessa qualità della relazione tra i due genitori, che devono essere capaci di cogestire, anche dopo la fine della loro relazione affettiva, in modo sinergico gli aspetti della vita, anche quotidiana, del bambino, per fare in modo che l'assetto disposto dal Giudice sia effettivamente rispondente alle esigenze di cura e di crescita del minore e non al diritto dell'adulto, madre o padre che sia, a vedersi riconosciuto un primato nei compiti di cura dei figli.

Il diritto del minore ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori non può significare sempre e comunque che lo stesso debba trascorrere tempi paritetici con entrambi i genitori o che vi debba essere la previsione di un tempo minimo, ma deve significare, come scrive il Collegio nella pronuncia in esame, che «la soluzione della suddivisione paritetica dei tempi di permanenza sia preferibile, là dove ve ne siano le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto».

E del resto la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito quanto sopra esposto, là dove ha affermato in modo costante il seguente principio di diritto «In tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione» (Cass. civ. sez., VI-I, 23 settembre 2015, n. 18817; Cass. civ., sez. VI 3 agosto 2015, n. 16297; Cass. civ., sez. VI-I,ord., 9 luglio 2016, n. 14728).

Il mantenimento diretto

Analoghe considerazioni si possono svolgere con riguardo alla formula del c.d. mantenimento diretto da parte dei genitori che sarà applicabile, allorchè effettivamente realizza quel principio di proporzionalità che è il cardine della previsione dell'art. 337-ter comma 4 c.c che afferma «ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito», come anche di recente ribadito dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. VI-I ord. 1 marzo 2018).

Ma anche con riguardo a tale aspetto, come giustamente sottolinea la pronuncia in commento, le condizioni economico reddituali dei due genitori sono spesso sperequate in ragione di scelte familiari fatte in costanza di convivenza con la conseguenza che un assegno perequativo deve necessariamente essere posto a carico del genitore economicamente più solido proprio per realizzare quel principio di proporzionalità che la disposizione impone, tenuto conto poi di tutti i parametri indicati dalla seconda parte del comma 4 dell'art. 337-ter c.c.

E l'assegno perequativo può, quindi, essere previsto anche in caso di tempi paritetici di permanenza o addirittura in capo al genitore collocatario a favore del genitore non collocatario per realizzare le esigenze di crescita del minore e per garantire lo stesso diritto alla bigenitorialità.

Tale diritto sarebbe, infatti, gravemente pregiudicato in tutte quelle situazioni in cui le condizioni economiche dei genitori complessivamente considerate sono particolarmente sperequate e non fosse possibile la previsione di un contributo perequativo di mantenimento per garantire che il minore goda di analoghe condizioni di vita, sia con il padre che con la madre. E la disposizione di cui all'art. 337-ter comma 4 c.c consente appunto di porre a carico di un genitore (anche in caso di tempi equivalenti o se collocatario) l'obbligo di versare all'altro un emolumento economico da destinare a quelle esigenze essenziali del figlio che, altrimenti, il genitore debole non potrebbe garantire. Si deve trattare, certo, di esigenze specifiche e chiare. Sarebbe, infatti, anche lesivo del diritto alla bigenitorialità regolare i rapporti economici di modo che un bambino da un genitore possa godere di ogni utilità e benessere (alimentazione, abbigliamento, casa di particolari dimensioni, internet, tv privata, giochi, etc.) e dall'altro non possa nemmeno avere utilità minime (la garanzia della casa). Si tratta di una lesione della bigenitorialità perché in questo modo il bambino, tendenzialmente, sarebbe meno incoraggiato a frequentare il genitore debole e certamente identificherebbe il suo maggiore benessere allorché si trova con il genitore economicamente più forte (Trib. Milano sez. IX civ., 19 marzo 2014; Trib. Milano sez. IX civ., decr. 3 novembre 2014; Trib. Milano, sez. IX civ., ord., 11 maggio 2015; App. Milano, sez. min., dec. 8 - 11 agosto 2014).

E del resto anche la Suprema Corte di Cassazione si era in tal senso pronunciata, affermando che la disparità economica dei genitori giustifica un assegno cd. perequativo in favore del genitore presso cui non sono collocati i figli (Cass. civ. sez. I, 2 agosto 2013 n. 18538).

Osservazioni

Tutte le considerazioni sopra esposte consentono di formulare alcune osservazioni conclusive.

Ben si può cioè affermare che le disposizioni dettate dall'art. 337-ter comma 1 e 2 c.c consentono, nella loro chiara formulazione e sulla base della consolidata interpretazione offerta dalla Corte di Cassazione, di realizzare in concreto il superiore interesse del minore e il suo diritto a conservare un equilibrato e continuativo rapporto con entrambi i genitori proprio nella misura in cui garantiscono all'Autorità Giudiziaria, attraverso un attento e scrupoloso accertamento della situazione delle singole storie familiari, di stabilire nuovi assetti delle relazioni tra i genitori e i figli che siano “costruiti” sulle peculiari caratteristiche di quella famiglia e di quel minore nel pieno rispetto dei principi sanciti dalle Convenzioni internazionali e sovranazionali e dalla nostra Carta Costituzionale.

E analoghe considerazioni si pongono con riguardo alle modalità con cui i genitori devono provvedere al mantenimento dei figli. Non è possibile ipotizzare rigidi criteri di predeterminazione, come pure in alcuni contesti oggi a gran voce si suggerisce, invocando soluzioni adottate in altri paesi europei, atteso che, in un contesto economico-sociale quale quello italiano, solo una attenta e rigorosa applicazione dei criteri normativi previsti dalle disposizioni di legge vigenti, interpretati alla luce della consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, può consentire una seria e attendibile ricostruzione della complessiva capacità reddituale e patrimoniale delle parti del giudizio e, quindi, una giusta e sostenibile determinazione delle modalità e della misura in cui i genitori devono contribuire al mantenimento dei figli.