Il nuovo decalogo di “San Martino” 2019: la Suprema Corte detta le regole della responsabilità civile sanitaria
15 Novembre 2019
Introduzione
In data 11 novembre sono state depositate dieci sentenze della terza sezione civile della suprema Corte di Cassazione (nn. 28985-28994) in tema di responsabilità sanitaria. La notizia in sè non dovrebbe avere particolare risalto se si colloca l'evento nel novero delle decisioni prodotte annualmente dalla suprema corte, anche nello specifico settore della responsabilità civile da fatto sanitario. Tuttavia, alcune “coincidenze” hanno portato gli osservatori attenti e gli addetti ai lavori a considerare questo passaggio in una qualche misura uno snodo per la disciplina della materia, al pari di una decisione quadro di sistema come possono esserlo solo le sentenze rese a Sezioni Unite aventi valenza nomofilattica. Innanzitutto la data di deposito (l'11 novembre) evoca il passaggio altrettanto centrale delle note quattro sentenze di “San Martino” del 2008 (nn. 26972-26975) che ancora oggi costituiscono, nonostante tentativi di disancorarne il solido fondamento giuridico, il manifesto del meccanismo di protezione che l'ordinamento ha elaborato per la tutela del bene primario della salute e della persona. Inoltre, una sapiente opera di “marketing giudiziario” ha creato attorno a questo deposito una valenza primaria, attribuendogli un'aurea di attesa per la sua futura centralità di sistema. Ma soprattutto, ci pare, la stessa tecnica di approccio motivo adottata dalle dieci decisioni si dipana dal caso particolare sino ad elevarsi a regola generale, riassumendo i precedenti della stessa sezione per disattendere quelli non condivisi ed elevare a regola quelli prescelti. Sta di fatto che le dieci decisioni, delle quali si dà conto nel presente documento, appaiono come uno dei pilastri del sistema della responsabilità civile e del risarcimento del danno da colpa medica, al punto da percepirne la preminenza interpretativa per le future controversie. Le dieci sentenze, invero, talvolta risolvono contrasti in essere – prendendo posizione chiara e motivata – talaltra confermano orientamenti già consolidati in giurisprudenza (come per esempio quello sulla personalizzazione del danno non patrimoniale). Le materie trattate attengono a temi centrali del sistema della responsabilità sanitaria, come il consenso informato (sentenza n. 28985), la rivalsa o regresso della struttura verso il medico (n. 28987), il principio distributivo dell'onere probatorio nella responsabilità contrattuale sanitaria (nn. 28989, 28991, 28992 e, in parte, la 28994), i limiti alla applicazione retroattiva delle leggi “Balduzzi” e “Gelli-Bianco” (nn. 28990 e 28994), l'accertamento e la liquidazione del danno differenziale da aggravamento della patologia preesistente (n. 28986), la liquidazione del danno nel sistema tabellare (n. 28988) ed, infine, il danno da cd “perdita di chance” (n. 28993). Nella rassegna che segue, si è ritenuto di dare conto prima di una sorta di “massima estesa” delle singole sentenze, seguite da una nostra prima riflessione sui possibili riflessi delle stesse sui futuri conflitti. Resta la considerazione che la disciplina del danno alla persona e in particolare la materia della responsabilità sanitaria siano temi che non possano essere affrontati in modo parcellizzato ma in un'ottica di sistema che tenga conto delle esigenze di sostenibilità e di protezione che governano il settore. In questo senso, la legge “Gelli – Bianco”, dalla quale integrale attuazione oggi non si può più prescindere, disegna traiettorie convergenti in cui responsabilità, danno ed assicurazione compongono – od almeno dovrebbero comporre – un quadro unitario ed armonico. La “sanità”, come oggi strutturata sul piano normativo e disciplinare, volge sempre più lo sguardo verso specificità professionali di altissimo profilo che consentano di assolvere il primario onere imposto dall'art 1 della Legge n. 24 del 2017 (titolato “sicurezza delle cure in sanità”) e che si dipanano tra gestione del rischio sanitario e sua analisi attuariale, qualità del servizio di consulenza legale, comunicazione aperta alla trasparenza, e così via. Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28985
La nozione del c.d. consenso informato e la liquidazione del danno da c.d. consenso informato
MASSIME
«La violazione, da parte del medico, del dovere di informare ii paziente, può causare due diversi tipi di danni: a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente - sul quale grava il relativo onere probatorio - se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti); b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravita), diverso dalla lesione del diritto alla salute (ex multis Cass. civ., 2854/2015; Cass. civ., n. 24220/2015; Cass. civ., n. 24074/2017; Cass. civ., n. 16503/2017; Cass. civ., n. 7248/2018). Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omesso od insufficiente informazione: A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni "hic et nunc": in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale; B) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente; C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute -da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l'intervento non sarebbe stato eseguito- andrà valutata in relazione alla eventuale situazione "differenziale" tra il maggiore danno biologico conseguente all'intervento ed preesistente stato patologico invalidante del soggetto; D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto; E) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l'esistenza di test assai più attendibili, quali l'amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà risarcibile (giusta il già richiamato insegnamento del giudice delle leggi) qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente - salva possibilità di provata contestazione della controparte”. "II risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito "secundum legem artis", ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione -perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell'obbligo informativo preventivo- e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale. Il paziente che alleghi l'altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che: a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicchè la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. "vicinanza della prova"; c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell'intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all' "id quod plerumque accidit". Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell'operazione, non potendosi configurare, "ipso facto", un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l'impredicabilità di danni “in re ipsa” nell'attuale sistema della responsabilità civile”.
EFFETTI
Con questa decisione la Suprema Corte ha inteso (usiamo le parole dello stesso Supremo Collegio): “confermare e dare seguito, implementandola e perfezionandola, alla elaborazione giurisprudenziale che questa Corte di legittimità ha svolto, nell'ultimo decennio, nella materia del consenso informato relativo alla somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e della violazione della libertà di autodeterminazione del paziente”. In pratica sono state confermate, ma anche ampliate, le statuizioni di cui, in particolare, alla decisione Cass. civ., sez. III, 23 marzo 2018 n. 7248, sia in punto nozione consenso informato che in punto liquidazione di tale voce risarcitoria.
Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28986
Danno biologico: menomazioni concorrenti e coesistenti, accertamento e liquidazione
MASSIMA
«1) lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che da quella derivata; 2) la concausa di lesioni è giuridicamente irrilevante; 3) la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall'illecito; 4) saranno "coesistenti" le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno, invece, "concorrenti" le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi; 5) le menomazioni coesistenti sono di norma irrilevanti ai fini della liquidazione; né può valere in ambito di responsabilità civile la regola sorta nell'ambito dell'infortunistica sul lavoro, che abbassa il risarcimento sempre e comunque per i portatori di patologie pregresse; 6) le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione: a) stimando in punti percentuali l'invalidità complessiva dell'individuo (risultante, cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata dall'illecito), e convertendola in denaro; b) stimando in punti percentuali l'invalidità teoricamente preesistente all'illecito, e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale; c) sottraendo l'importo (b) dall'importo (a). 7) resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all'equità correttiva ove l'applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto»
EFFETTI
La Suprema Corte ha confermato una decisione della Corte d'Appello di Milano che aveva a sua volta confermato una decisione del Tribunale di Lecco con la quale era stato liquidato il c.d. danno non patrimoniale differenziale secondo il metodo più comune.
In particolare, nel caso deciso dalla Suprema Corte si trattava di un soggetto portatore di un danno biologico del 60% al momento del sinistro stradale che, in conseguenza del sinistro stradale aveva riportato un ulteriore 6,5% di postumi permanenti, per un totale di invalidità permanente al momento della CTU del 66,5%. Il calcolo ritenuto corretto dalla Corte è stato quindi dato dalla «la differenza tra il valore monetario del grado di invalidità permanente di cui la vittima era già portatrice prima dell'infortunio (60%), ed il grado di invalidità permanente complessivamente residuato all'infortunio (66,5%)» e quindi Euro 79.373,50. In pratica se la vittima è già portatrice di postumi invalidanti pregressi, "la sottrazione [ai fini del calcolo del danno deve] essere operata non già tra i diversi gradi di invalidità permanente, bensì tra i valori monetari previsti in corrispondenza degli stessi". Non è compito del medico-legale, del resto, secondo quanto affermano le Sezioni Unite, procedere ad una: “variazione del grado percentuale di invalidità permanente obiettivamente accertato in corpore” sulla scorta delle “invalidità preesistenti all'infortunio” (contrariamente a quanto sostenuto dalla dottrina medico-legale). Sarà il Giudice a doverne tenere conto: «La delimitazione del perimetro dei danni risarcibili, come si è già illustrato in precedenza, è questione di causalità giuridica, e l'accertamento della causalità giuridica è compito eminente del giudice. Nella stima del danno alla salute al medico-legale si demanda il prezioso compito di misurare l'incidenza della menomazione sulla vita della vittima, misurazione che come detto avviene, per risalente tradizione (oggi recepita dalla legge), in punti percentuali. Ma non va mai dimenticato che il grado percentuale di invalidità permanente non è che una unità di misura del danno, non la sua liquidazione. Quella misurazione non può dunque che avvenire al netto di qualsiasi valutazione giuridica circa l'area della risarcibilità, onde evitare che delle preesistenze si finisca per tenere conto due volte: dapprima dal medico-legale, quando determina il grado percentuale di invalidità permanente; e poi dal giudice, quando determina il criterio di monetizzazione dell'invalidità». In definitiva, la stima del danno alla salute patito da chi fosse portatore di patologie pregresse richiede: «innanzitutto che il medico legale fornisca al giudicante una doppia valutazione: - ) l'una, reale e concreta, indicativa dell'effettivo grado percentuale di invalidità permanente di cui la vittima sia complessivamente portatrice all'esito dell'infortunio, valutato sommando tutti i postumi riscontrati in vivo e non in vitro, di qualunque tipo e da qualunque causa provocati; - ) l'altra, astratta ed ipotetica, pari all'ideale grado di invalidità permanente di cui la vittima era portatrice prima dell'infortunio».
Una volta: “Una volta stabilito il grado di invalidità permanente effettivo patito della vittima, e quello presumibile se il sinistro non si fosse verificato, la liquidazione del danno non può certo avvenire sottraendo brutalmente il secondo dal primo, applicando (erroneamente) il criterio del frazionamento della causalità materiale.Il risarcimento del danno alla salute, infatti, sia quando è disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, avviene comunque con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi: ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi”.
Ne consegue che tale principio ne resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo al "delta", ovvero all'incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla condotta del responsabile. Sono infatti, le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non certo il grado di invalidità, che ne è solo la misura convenzionale: e poiché le suddette sofferenze progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell'invalidità, l'adozione del criterio sostenuto dalla società ricorrente condurrebbe ad una sottostima del danno, e dunque ad una violazione dell'art. 1223 c.c.. D'una persona invalida al 60%, che in conseguenza d'un fatto illecito divenga invalida al 70%, non si dirà che ha patito una invalidità del 10%, da liquidare con criteri più o meno modificati rispetto a quelli standard. Si dirà, al contrario, che, sul piano della causalità materiale, ha patito una invalidità del 70%, perché questa è la misura del suo stato attuale di salute, e tale invalidità occorrerà innanzitutto trasformare in denaro. Dopodiché, essendo una parte del suddetto pregiudizio slegata eziologicamente dall'evento illecito, per una stima del danno rispettosa dell'art. 1223 c.c. non dovrà farsi altro che trasformare in denaro il grado preesistente di invalidità, e sottrarlo dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata in corpore. Il diverso criterio invocato dalla società ricorrente, per contro, finirebbe per confondere il danno con la sua misura, perché lo identifica con la percentuale di invalidità permanente; e confonderebbe altresì la parte con il tutto, perché trascura di considerare che ogni individuo costituisce un unicum irripetibile, rispetto al quale le conseguenze dannose del fatto illecito vanno dapprima considerate e stimate nella loro globalità, e poi depurate della quota non causalmente riconducibile alla condotta del responsabile. Ma il danno alla salute consiste nelle rinunce forzose indotte dalla menomazione, non nel punteggio di invalidità permanente. Pertanto chi è invalido al 70% ha perduto - teoricamente - la possibilità di svolgere il 70% delle attività precedentemente svolte, e la stima di questo danno non può che avvenire ponendo a base del calcolo il valore monetario previsto per una invalidità del 70%.
Viene ribadito altresì il «potere-dovere del giudice di ricorrere all'equità correttiva ove l'applicazione rigida del calcolo» del danno differenziale conduca a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.
Cass. civ., 11 novembre 2019 n.28987
L'azione di rivalsa/regresso delle strutture nei confronti degli esercenti la professione sanitaria
MASSIMA
«In tema di danni da "malpractice" medica nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, nell'ipotesi di colpa esclusiva del medico la responsabilità dev'essere paritariamente ripartita tra struttura e sanitario, nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli eccezionali casi d'inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata»
EFFETTI
La Suprema Corte non solo si conforma all'orientamento che ha avuto origine nel Tribunale di Milano a proposito delle azioni di rivalsa/surroga delle strutture nei confronti degli esercenti la professione sanitaria, laddove è stata affermato l'onere probatorio della struttura di superare presunzione di responsabilità nella misura del 50%. al fine ridurre il proprio grado di responsabilità, nonché il c.d. rischio d'impresa delle strutture (vedi Trib. Milano – Sez. I Civile – Dott.ssa Miccicchè – sent. 20.09.2018 – rg 5321/2014; Trib. Milano – Sez. I Civile Dott.ssa Flamini 14 giugno 2018 – sentenza n. 6743; Trib. Milano – Sezione I civile Dott.ssa Boroni – r.g. n. 16679/2013 e Trib. Milano – Sez. I civile Dott.ssa Boroni 18.06.2019 – sentenza N. 5923/2019), nonché ai propri precedenti sul punto (vedi Cass. civ., 5 luglio 2017 n. 16488 e Cass. civ., ord. 27 settembre 2019 n. 24167) ma diventa, se possibile, ancora più severa nei confronti delle strutture sanitarie che agiscono in rivalsa/regresso. La Suprema Corte infatti afferma: «l'impredicabilità di un diritto di rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico, in quanto, diversamente opinando, l'assunzione del rischio d'impresa per la struttura si sostanzierebbe, in definitiva, nel solo rischio d'insolvibilità del medico così convenuto dalla stessa; tale soluzione deve incontrare un limite laddove si manifesti un evidente iato tra (grave e straordinaria) "malpractice" e (fisiologica) attività economica dell'impresa, che si risolva in vera e propria interruzione del nesso causale tra condotta del debitore (in parola) e danno lamentato dal paziente; per ritenere superata la presunzione di divisione paritaria "pro quota" dell'obbligazione solidale evincibile, quale principio generale, dagli artt. 1298 e 2055, cod. civ., non basta, pertanto, escludere la corresponsabilità della struttura sanitaria sulla base della considerazione che l'inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicché sarà onere del "solvens" dimostrare non soltanto la colpa esclusiva del medico ma la derivazione causale dell'evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un'ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni». Ed ancora: «in assenza di prova (il cui onere grava sulla struttura sanitaria adempiente) in ordine all'assorbente responsabilità del medico intesa come grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile "malpractice", dovrà, pertanto, farsi applicazione del principio presuntivo di cui sono speculare espressione l'art. 1298, secondo comma, c.c. e l'art. 2055, terzo comma, cod. civ.».
In definitiva, laddove le strutture non forniscano la prova in ordine all'assorbente responsabilità del medico intesa come “grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile "malpractice" i danni riconoscibili ai pazienti dovranno essere ripartiti al 50% (in misura paritaria). Il tema, ed il principio affermato dalla Corte, merita di essere esaminato anche in relazione alla disciplina dell'art. 9 della Legge n. 24/2017, di cui la sentenza afferma, comunque, la non retroattività (“la menzionata riforma del 2017 non prevede peraltro effetti retroattivi”). Il limite imposto dalla legge Gelli alle azioni di rivalsa nei confronti del medico strutturato – esperibili solo in caso di dolo o colpa grave e, in quest'ultimo caso, per un risarcimento non superiore al triplo della retribuzione – dovrà dunque misurarsi con la regola della ripartizione paritaria e presuntiva di responsabilità oggi affermato senza incertezze in base al principio del rischio di impresa della struttura. Vien dunque da chiedersi se l'accertamento della colpa grave elida, sempre e comunque, l'applicazione di quel principio di corresponsabilità solidale, rendendo integralmente esperibile la rivalsa, sia pur entro i nuovi limiti normativamente stabiliti. Il che vale anche per il comparto delle strutture sanitarie private, il cui diritto di rivalsa è stato introdotto proprio dalla legge 24/2017. Ed ancora, vi è da chiedersi in che termini l'esercente strutturato possa agire in regresso nei confronti della struttura, post legge Gelli, laddove sia stato aggredito in proprio da un paziente che intenda agire soltanto nei suoi confronti. Il principio della responsabilità solidale presunta dovrebbe invero consentirgli di “rivalersi”, nella normalità dei casi, nei limiti della quota del 50% della responsabilità attribuibile di default, e salva prova contraria alla struttura. Ma una tal conclusione porrebbe qualche problema di coerenza sistematica, privando potenzialmente l'esercente, per il solo fatto di esser stato percosso in proprio, dello statuto limitativo previsto dall'art. 9 della legge (colpa grave e triplo della retribuzione, quale condizione e limite della sua esposizione).
Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28988
Liquidazione del danno non patrimoniale da colpa sanitaria e personalizzazione
MASSIMA
In presenza di un danno permanente alla salute, conseguente ad una errata manovra durante il parto, subito dal feto nato con lesioni permanenti, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Va ribadito che la perduta possibilità di continuare a svolgere qualsiasi attività, in conseguenza d'una lesione della salute, o costituisce una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora sarà compensata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. “personalizzazione”).
EFFETTI
Viene chiarito e ribadito in questa decisione che – in caso di applicazione delle tabelle equitative del tribunale di Milano per compensare il danno alla salute – la personalizzazione è valorizzabile a favore del danneggiato solo in caso di comprovata eccezionalità delle conseguenze di danno. Infatti, le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secando l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento. Si osserva che, nel prendere posizione sulla questione della personalizzazione (di cui sopra), la Cassazione esordisce affermando che «in presenza di un danno permanente alla salute costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di danaro a titolo di risarcimento del danno biologico e l'attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali, e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico relazionale)». Tale enunciato potrebbe generare qualche dubbio perchè non è chiaro quale sia il rapporto tra danno “dinamico relazionale”, “personalizzazione” e “danno morale”, sul quale ultimo la pronuncia in esame “tace” (ne è possibile una liquidazione a parte? o sono la stessa cosa e partecipano della medesima natura?). Non sembra, tuttavia, che la Cassazione abbia con ciò inteso discostarsi dagli ultimi precedenti (in particolare dalla nota sentenza “decalogo” Cass. civ., n. 7513/2018 che valorizza l'autonoma risarcibilità della sofferenza morale): nella successiva Cass. civ., n. 28989/2019 (par. 24), infatti, gli Ermellini ripetono, alla lettera, il principio sopra riportato in corsivo, precisando subito dopo che «non costituisce invece duplicazione la congiunta attribuzione del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi (..)rappresentati dalla sofferenza interiore».
Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28989
Onere della prova nella responsabilità contrattuale della struttura sanitaria verso il paziente. Danno da perdita del rapporto parentale
MASSIMA
L'accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta l'assunzione di una prestazione strumentale e accessoria - rispetto a quella principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la patologia del ricoverato - avente ad oggetto la salvaguardia della sua incolumità fisica e patrimoniale. Una volta comprovata la riconducibilità causale del danno alla salute al fatto della struttura sanitaria che aveva accettato il ricovero del paziente, incombe su detta struttura l'onere di fornire la prova della riconducibilità dell'inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, in coerenza al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra I' insorgenza di una nuova malattia e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilita della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile. Quanto al danno da perdita del congiunto la Corte richiama espressamente l'insegnamento delle Sezioni Unite di S. Martino del 2008 e ribadisce il principio per cui «la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di risarcimento, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita (sul piano dinamico relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito sì integralmente, ma anche unitariamente».
EFFETTI
La sentenza ribadisce in modo chiaro il principio distributivo dell'onere della prova tra azienda sanitaria e paziente, basato sul regime della responsabilità contrattuale. Quanto alla perdita del rapporto parentale la Corte precisa che «in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell'esistenza, che e costituisce una componente intrinseca». Si osservi come l'affermazione della Corte - secondo la quale la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisca indebita duplicazione di risarcimento - sembri incrinare, e molto, la diversa impostazione e parcellizzazione che la Cassazione altrove sostine nell'affermare la possibilità, ed anzi la necessità, di separare chiaramente le componenti (morali e dinamico relazionali) del danno non patrimoniale da lesione fisica. Se è vero che «la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita (sul piano dinamico relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito sì integralmente, ma anche unitariamente» è faticoso comprendere i motivi per i quali un medesimo ragionamento e percorso, unificante ed allineato ai principi proclamati dalle Sezioni Unite del 2008, non possa esser condotto con riferimento al danno da lesione fisica. La Corte conferma poi il dictum delle SSUU 15350 /2015 sulla non risarcibilità del danno da perdita della vita e torna, infine, sul danno da “lucida agonia” ribadendo che «nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell'unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie ("danno morale terminale"), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di "lucidità agonica", in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l'imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta "manifestamente lucida» .
Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28990
Retroattività della Legge “Balduzzi” e della Legge “Gelli-Bianco” in tema di adozione delle tabelle di legge ex artt. 138 e 139 Cod.Ass., anche quando il danno si sia prodotto anteriormente alla entrata in vigore della legge e con il solo limite della formazione del giudicato.
MASSIMA
Non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della fattispecie legate della responsabilità civile (negando od impedendo il risarcimento di conseguenze-dannose già realizzatisi), l'art. 3, comma 3, del decreto legge 13 settembre 2012 n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012 n. 189 (cd. legge Balduzzi che dispone l'applicazione, nelle controversie concernenti la responsabilità - contrattuale od extracontrattuale - per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del cod. ass. - criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche dalla successiva legge 8 marzo 2017 n. 24 cd. Gelli-Bianco), trova diretta applicazione in tutti i casi in cui Giudice sia chiamato a fare applicazione, in pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul "quantum". Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa, ed il danno si sia prodotto, anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l'azione risarcitoria sia stata promossa prima dell'entrata in vigore del predetto decreto legge; ne può configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio e soltanto la definizione del giudizio - e la formazione del giudicato - preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario. Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al Giudice di merito, si colloca su un piano distinto e comunque al di fuori della fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha, infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla condotta illecita, nè ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie".
EFFETTI
La decisione chiarisce definitivamente le ragioni che comportano la applicabilità retroattiva a tutti i sinistri sanitari non ancora definiti del meccanismo liquidativo previsto dagli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private (ex art. 3, comma III della Legge Balduzzi e ora ex art. 7 comma IV della Legge “Gelli-Bianco”). L'adozione del criterio liquidativo normativo, infatti, non subentra, né sul piano sostanziale degli istituti di danno, né su quello delle entità risarcitorie, ad un precedente impianto normativo sostituito ed abrogato, bensì ai soli criteri empirici elaborati (in assenza di disposizioni attuative di cui all'art. 138 del Cod.Ass.) dai tribunali dello Stato (segnatamente le “tabelle milanesi”). Interessante osservare come la sentenza in esame condivida e rimarchi, sul piano della “ragionevolezza” e dell'ottica di “sistema”, la ratio sottesa alla “scelta” operata dal Legislatore (circa l' estensione dei criteri di liquidazione previsti per la RCA all'ambito della responsabilità sanitaria”), osservando che il Legislatore «è intervenuto ad introdurre una disciplina volta ad individuare un punto di equilibrio idoneo a garantire l'attuazione dei diversi interessi meritevoli di tutela coinvolti in tale materia e precipuamente l'interesse dei danneggiati ad ottenere un integrale ristoro del danno alla salute subito in relazione ad errori terapeutici imputabili al medico (art. 32 Cost., comma 1), e l'interesse della generalità degli utenti a ricevere - sia dalle strutture pubbliche che da quelle private - un adeguato trattamento sanitario, consentendo agli operatori del settore di continuare a praticare la professione - della quale beneficia e non può fare a meno la intera collettività - in funzione del perseguimento di elevati livelli di efficienza e risultati di cura delle persone, senza che l'impegno che la stessa richiede possa essere limitato o influenzato da considerazioni e comportamenti di "difesa preventiva" rispetto alla proliferazione che, negli ultimi tempi, si è verificata delle iniziative giudiziarie di risarcimento danni che, indipendentemente dalla fondatezza o meno, possono innescare - in considerazione del volume delle richieste risarcitorie - fenomeni di ritrazione dalla esecuzione di interventi terapeutici a maggior rischio di insuccesso, incidendo in modo gravemente negativo sulle modalità di erogazione del servizio sanitario». Insomma, la sentenza supera a piè pari le numerose critiche che una certa dottrina aveva sollevato in ordine alla non omogeneità della disciplina della assicurazione della rc auto e della rc non sanitaria ed alla opportunità di estendere al comparto sanitario le regole proprie (in qualche modo limitative) della disciplina automobilistica in materia di risarcimento del danno.
Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28991
Il nesso di causalità
MASSIMA
«Ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione».
EFFETTI
La Suprema Corte conferma integralmente i principi ormai affermati a far tempo dal 2017 in tema di nesso causale secondo cui incombe sul creditore l'onere di provare il nesso di causalità fra la condotta del sanitario e l'evento di danno quale fatto costitutivo della domanda risarcitoria, non solo nel caso di responsabilità da fatto illecito ma anche nel caso di responsabilità contrattuale (: Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392, cui sono conformi: Cass. civ., 26 febbraio 2019, n. 5487; 17 gennaio 2019, n. 1045; Cass. civ., 20 novembre 2018, n. 29853; : Cass. civ., 30 ottobre 2018; Cass. civ., nn. 27455, 27449, 27447, 27446; Cass. civ., 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. civ., 20 agosto 2018, n. 20812; Cass. civ., 13 settembre 2018, n. 22278; Cass. civ., 22 agosto 2018, n. 20905; : Cass. civ., 19 luglio 2018, n. 19204; Cass. civ., 19 luglio 2018, n. 19199; Cass. civ., 13 luglio 2018, n. 18549; Cass. civ., 13 luglio 2018, n. 18540; Cass. civ., 9 marzo 2018, n. 5641; Cass. civ., 15 febbraio 2018, nn. 3704 e 3698; Cass. civ., 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. civ., 14 novembre 2017, n. 26824; si vedano tuttavia già prima: Cass. civ., 24 maggio 2006, n. 12362; Cass. civ., 17 gennaio 2008, n. 867; Cass. civ., 16 gennaio 2009, n. 975; Cass. civ., 9 ottobre 2012, n. 17143; Cass. civ., 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. civ., 31 luglio 2013, n. 18341; Cass. civ., 12 settembre 2013, n. 20904; Cass. civ., 20 ottobre 2015, n. 21177; Cass. civ., 9 giugno 2016, n. 11789).
, Da ciò ne consegue che: «se resta ignota anche mediante l'utilizzo di presunzioni la causa dell'evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale, se invece resta ignota la causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero resta indimostrata l'imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze sfavorevoli ricadono sul debitore». Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28992
Principio distributivo dell'onere della prova nella rc sanitaria (causa ignota)
MASSIMA
Ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione.
EFFETTI
La sentenza ribadisce il principio distributivo dell'onere della prova in rc sanitaria, enucleando esattamente il contenuto delle singole incombenze delle parti nell'ordine processuale. Ciò anche con espresso riferimento alla indagine istruttoria sulla così detta “causa ignota”. Emerge cosi un duplice ciclo causale, uno relativo all'evento dannoso, a monte, e l'altro relativo all'impossibilita di adempiere, a valle. II nesso di causalità materiale che il creditore della prestazione professionale deve provare è quello fra intervento del sanitario e danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie. Di contro, il nesso eziologico che invece spetta al debitore di provare è quello fra causa esterna, imprevedibile ed inevitabile alla stregua dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1176 comma 1, ed impossibilita sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale (art. 1218). Se la prova della causa di esonero è stata raggiunta vuol dire che l' aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di una nuova patologia è sì eziologicamente riconducibile all'intervento sanitario, ma il rispetto delle leges artis è nella specie mancato per causa non imputabile al medico. Ne discende che, se resta ignota anche mediante l'utilizzo di presunzioni la causa dell'evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale; se invece resta ignota la causa di impossibilita sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero resta indimostrata l'imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze sfavorevoli ricadono sul debitore.
Cass. civ., 11 novembre 2019 n. 28993
Il danno da perdita di chance
MASSIMA
Nella responsabilità sanitaria, l'illecito da chance perduta si dipana secondo la tradizionale scansione della responsabilità civile. Pertanto, laddove la condotta del sanitario abbia avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto (le conclusioni della CTU risultino espresse cioè in termini di insanabile incertezza rispetto alla eventualità della maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo), tale possibilità – i.e. tale incertezza eventistica – sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta. Il danno da perdita di chance, dunque, sarà risarcibile ove provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici della relazione tra la condotta e l'evento incerto (la possibilità perduta), ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (quali ripercussioni nella sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza. La risarcibilità della perdita di chance non si pone in alcun modo come conseguenza di una insufficiente relazione causale con il danno (come erroneamente ipotizzato nella sentenza n. 21619 del 16 ottobre 2007 di questa stessa Corte), ma come incertezza eventistica conseguente al previo accertamento di quel nesso con la condotta omissiva.
EFFETTI
La sentenza delinea chiaramente il perimetro del danno in parola, come “diminutivo astratto” dell'illecito, inteso come sinonimo di possibilità priva di misura, ma non di contenuto, da risarcirsi equitativamente. La chance non è predicabile quando risulti provata la relazione causale tra condotta ed evento (nel qual caso si parla di danno diretto e immediato) ma nemmeno quando vi sia un elevato grado di incertezza in questa relazione sotto forma di possibilità generica ed ipotetica. I danno da perdita di chance (analogamente ad ogni altra ipotesi tradizionale di responsabilità civile) si dipana dunque secondo la seguente struttura: - Condotta colpevole dell'agente - Evento di danno (la lesione di un diritto) - Nesso di causalità tra condotta ed evento - Una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non - Nesso di causalità tra l'evento e le conseguenze dannose. La chance non può comunque rappresentare una entità concettualmente distinta dal risultato finale, poiché la condotta dell'agente è pur sempre destinata a rilevare sul piano della lesione di un diritto alla salute e/o di un diritto all'autodeterminazione. Il danno in parola dunque non è mai in re ipsa ma deve attenere ad un pregiudizio concreto accertato e determinato sul piano causale. Non potrà più il danno da perdita di chance essere richiesto e concesso quale pregiudizio “occultato in una sorta di effetto matrioska, nelle viscere del danno alla salute, dalle quali riemerga quando non si riesca a raggiungere la prova del nesso causale rispetto alla lesione di quest'ultimo”. Non potrà più il danno costituire una sorta di ripiego verso una risarcibilità comunque in caso di incertezza causale, ma la base dovrà sempre essere quella dell'accertamento dell'illecito e della prova tra condotta e danno risarcibile, classificabile come lesione del bene salute seppure in termini di incertezza eventistica. In una parola, la perdita di chance risponde alle stesse regole della responsabilità civile e non costituisce più una “zona franca” di ripiego in caso di assenza di prova tra condotta e sue conseguenze.
Cass. civ., 11 novembre 2019 n.28994
Non retroattività delle norme sostanziali contenute nella Legge n. 189/2012 (art. 3, comma 1) e nella Legge n.24/2017 (art. 7)
Le norme sostanziali contenute nella legge n. 189/2012, al pari di quelle di cui alla legge n. 24/2017, non hanno portata retroattiva, e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca precedente alla loro entrata in vigore, a differenza di quelle che, richiamando gli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private in punto di liquidazione del danno, sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi.
EFFETTI La Corte prende posizione sulla questione allineandosi a quella parte di giurisprudenza (Tribu. Avellino, n. 1806 del 2017 e Trib. Roma, n. 18685 del 2017 – contra Trib. Milano, n. 12472 del 2018) che ritiene non retroattivi gli effetti delle leggi “Balduzzi” e “Gelli- Bianco” nella parte (sostanziale) in cui regolano il rapporto tra medico e paziente nell'alveo della responsabilità contrattuale.
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