Il giudice tributario tra l'interpretazione del diritto dell'Unione europea e i rimedi nazionali
28 Novembre 2019
Premessa
In tema di applicazione dei diritti dei contribuenti, anche in ambito tributario si assiste ad un'attività, invero in continuo fermento, tesa all'applicazione da parte del giudice, ex officio o su sollecitazione della parte interessata, delle norme di diritto europeo (intese in senso lato).
Da parte del giudice, ma anche del difensore tributario, la conseguenza di tale attività è il ricorso, da un lato, alla preventiva interpretazione della norma nazionale e di quella del diritto europeo da porre a base della decisione da adottare. Dall'altro lato, all'applicazione di regole dettate per definire il rapporto, se confliggente, tra norme nazionali e di diritto europeo.
L'interpretazione e il rapporto di regolazione tra norme nazionali ed europee costituiscono il frutto dell'attività dei giudici dell'Unione europea (in seguito, per brevità UE) e delle Corti nazionali volto a garantire la corretta applicazione delle tutele previste dal diritto dell'UE e dal diritto degli Stati membri che risultino, entrambi, applicabili alla fattispecie concreta. Tali attività comportano la conoscenza sia delle tecniche interpretative della norma europea da applicare al caso concreto, sia delle tecniche di interrelazione delle norme nazionali ed europee che impattano nel giudizio. Nel prosieguo si vuole fornire una breve analisi dei principi e dei rimedi possibili che regolano il concorso tra norme diverse.
Tra gli Stati membri dell'UE vige il principio c.d. “di leale collaborazione” che si sostanzia nell'obbligo di dare concreta attuazione al diritto europeo attraverso la sua applicazione anche con riguardo alle norme di diritto interno (v. Trattato unione europea, art. 4, n. 3, in giurisprudenza, tra le tante, Corte UE, 6.12.1990, c-2/88).
In ambito nazionale, tale principio trova sostegno nella norma costituzionale tesa a legittimare la limitazione della sovranità nazionale necessaria all'attuazione di un ordinamento comune che assicuri la pace e la giustizia tra Nazioni diverse e che promuova e favorisca organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo (v. art. 11 Cost. e Corte Cost. 26 gennaio 2017, n. 24). Segue la previsione secondo cui la potestà legislativa deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario nonché dagli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano (v. art. 117, c. 1, Cost.). Così delineato il sistema generale, con riferimento al rapporto gerarchico che intercorre tra il diritto dell'UE e quello interno degli Stati membri, la Corte di giustizia UE ha affermato la supremazia del primo, secondo una visione prettamente monistica. In forza di tale orientamento, le norme nazionali non possono ostacolare l'applicazione del diritto UE, avente un effetto diretto, con la conseguenza che in caso di contrasto insanabile tra una norma dell'Unione ed una interna incompatibile deve prevalere la prima (v, tra le tante, Corte di giustizia UE, 9 marzo 1978, c-106/77; Corte Cost. 18 luglio 2013, n. 207; sul principio del primato del diritto UE, v. “Dichiarazione n. 17” allegata al Trattato di Lisbona).
Nell'esercizio della giurisdizione, quindi, per il giudice è fondamentale individuare quali siano le fonti del diritto UE che impattino sul giudizio e distinguere, tra esse, quelle dotate di un effetto diretto (per l'approfondimento, v. L. DANIELE, “Diritto dell'Unione europea”, Giuffré Francis Lefebvre, 2018, 266). In via generale, per effetto diretto (o efficacia diretta) si intende la capacità della norma stessa di creare diritti ed obblighi direttamente e utilmente invocabili, a propria tutela, dai soggetti appartenenti allo Stato membro. Per la dottrina è utile distinguere tra “diretta applicabilità” ed “effetto diretto” degli atti normativi UE. In particolare: “diretta applicabilità significa che una norma entra a far parte direttamente dell'ordinamento nazionale, ma è solo potenzialmente e in principio in grado di produrre effetti concreti, cioè invocabile da un singolo dinanzi ad un'autorità nazionale e da questa applicata nel caso di specie. Se lo è anche in atto, oltre ad essere direttamente applicabile, sarà pure direttamente efficace… Un conto è la diretta applicabilità, che è collegata alla natura della fonte giuridica, dello strumento normativo; un altro è la diretta efficacia, che pertiene alla natura della norma ricompresa in quella fonte del diritto” (D. GALLO, “Efficacia diretta del diritto dell'Unione Europea negli ordinamenti nazionali”, Giuffré Francis Lefebvre, 2018, 121).
Sul piano normativo, deve segnalarsi che per definizione costituiscono fonti ad efficacia diretta i Regolamenti (v. art. 288 TFUE) e le disposizioni dei Trattati che attribuiscono diritti soggettivi ai singoli, quali, ad esempio, l'art. 30 TFUE sul divieto di dazi doganali, l'art. 45 sulla libertà di circolazione dei lavoratori; l'art. 49 sulla libertà di stabilimento, l'art. 157 sulla parità di retribuzione tra i sessi.
Sempre per definizione, costituiscono fonti prive di efficacia diretta gli atti non vincolanti, quali le Raccomandazioni ed i Pareri o gli altri atti atipici emanati dalle istituzioni comunitarie, e le Direttive che vincolano, ponendo un obbligo di risultato, solo lo Stato membro che è tenuto a darvi attuazione. Le altre norme di diritto UE contenute in fonti diverse non si autoqualificano in termini positivi di effetto diretto, il quale discende dall'interpretazione che il giudice nazionale trae dalla norma, direttamente oppure attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE (v. art. 267 TFUE). Dall'analisi della giurisprudenza europea emerge che l'effetto diretto deriva dalle caratteristiche di sufficiente precisione e incondizionatezza della norma (v. L. DANIELE, “Diritto dell'Unione europea”, cit., con ampi richiami alla giurisprudenza eurounitaria) nonché dalla sua applicazione ai cd. rapporti verticali, ovverosia ai diritti del soggetto privato invocati non verso altri soggetti privati, ma verso lo Stato inadempiente.
In particolare, la norma UE è ritenuta sufficientemente precisa quando specifichi con chiarezza: a) il soggetto titolare dell'obbligo; b) il soggetto titolare del diritto; c) il contenuto del diritto e dell'obbligo creato dalla norma. La norma stessa è ritenuta, altresì, incondizionata laddove difetti:
In seno alle fonti del diritto UE, una particolare attenzione deve porsi verso le Direttive perché di interesse specifico in ambito tributario. In sintesi, le Direttive UE hanno effetto diretto quando: a) impongono agli Stati membri obblighi sufficientemente chiari, precisi e tali da poterli vincolare anche in difetto di una disciplina di attuazione, b) chiariscono obblighi già previsti dal trattato, c) impongono obblighi di non facere, a condizione che sia scaduto il termine per il recepimento e lo Stato o non vi abbia dato attuazione o vi ha dato un'attuazione non corretta (le Direttive aventi effetti diretti sono definite self- executing o dettagliate).
In tale ambito, è utile segnalare che le Direttive che regolano l'IVA e le accise sono qualificate self-executing dalla giurisprudenza europea (per un caso concreto, v. Ag. Entr. Circ. 31.12.2009, n. 58/E). Quanto ai tributi “non armonizzati” deve osservarsi che la loro mancata armonizzazione non preclude l'applicazione di direttive self-executing quali, ad esempio, la c.d. Direttiva madre-figlia 2011/96/UE sulla tassazione dei dividendi distribuiti tra società di diversi Stati membri; la Direttiva 2009/133/CE sulla neutralità fiscale di fusioni, scissioni ed altre operazioni societarie straordinarie; la Direttiva 69/355/CEE sulla tassazione indiretta sulla raccolta di capitali.
I principi generali sono fonti del diritto UE che per la giurisprudenza della Corte di Giustizia godono di una posizione privilegiata. Essi, per una parte, sono contenuti nei Trattati e, per l'altra, rinvengono dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che li trae dalle tradizioni comuni degli Stati membri sicché, questi ultimi, non rappresentano un numero chiuso di principi, ma una categoria in continua evoluzione (per l'approfondimento, v. L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Giuffré Editore, 2010, Cap. I). Nel procedimento interpretativo, il ruolo dei principi generali è di fornire un indirizzo all'interprete, infatti, spesso, dopo aver risolto il caso, nelle argomentazioni di diritto a sostegno della decisione assunta la Corte di giustizia rinvia proprio ai principi generali. Per contro, deve segnalarsi che la contemporanea presenza di più principi generali applicabili al caso concreto rende più complessa la decisione del giudice, a causa della necessità di operare un bilanciamento di interessi contrapposti in caso di principi in conflitto tra loro. Nella materia tributaria tra i principi generali rientrano, ad esempio, il divieto di non discriminazione e restrizione delle libertà economiche fondamentali; di libertà di stabilimento, di circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi; di tutela della concorrenza; di tutela giurisdizionale effettiva.
I principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri non sono previsti nel diritto UE, ma rinvengono dall'esame degli ordinamenti giuridici di questi ultimi. In seno ai Trattati istitutivi il loro rilievo discende dalla necessità di valutare la legittimità del comportamento dello Stato membro rispetto ai diritti dei singoli. In particolare, anche in materia tributaria, in tale categoria rientrano i principi di legalità, certezza del diritto, legittimo affidamento, contraddittorio preventivo, proporzionalità. Si ricordano, poi, la disciplina sugli aiuti (anche fiscali) dell'abuso del diritto.
La Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea (nel prosieguo: CDF) è stata proclamata a Strasburgo il 12.12.2007 ed è stata inserita nell'art. 6, par. 1, c.1, del TUE, a seguito delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona del 13.12.2007, ratificato e reso esecutivo con L. 2 agosto 2008, n. 130. La CDF ha lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi dell'UE (v. Cass. Civ., SS.UU 18 settembre 2014, n. 19667). La CDF consta di norme tese alla tutela dei diritti individuali delle persone. Dette norme godono di un effetto diretto che comporta la possibilità di invocarle a difesa, nei rapporti verticali, in caso di comportamenti assunti dai poteri pubblici ritenuti lesivi degli interessi dei privati (Corte UE, 21 dicembre 2011, cause riunite C-411/10 e C-492/10).
Deve evidenziarsi, tuttavia, che anche in materia tributaria l'ambito di applicazione della CDF è circoscritto all'attuazione del diritto dell'UE, nel senso che i diritti della CDF devono essere rispettati quando una normativa nazionale rientra nell'ambito di applicazione dell'Unione (Corte UE, 26 febbraio 2013, C-617/10, Cass. Civ., SS.UU. 9 dicembre 2015, n. 24823). Quanto alla nozione di “attuazione del diritto UE” essa esige l'esistenza di un collegamento di una certa consistenza tra materie che vada al di là della semplice affinità (Corte UE, 6 marzo 2014, C-265/13).
La Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (in seguito, CEDU), firmata a Roma il 4.11.1950 è stata ratificata con Legge 4 agosto 1955 n. 848. L'UE ha aderito alla CEDU sicché i diritti fondamentali da questa garantiti partecipano al diritto dell'UE. In particolare, in attesa che le procedure di adesione si perfezionino, per la UE la CEDU costituisce una fonte indiretta di vincolo, attraverso la CDF e i principi generali (in tema di applicazione della CEDU al diritto tributario italiano, v. F. GIULIANI – G. CHIARIZIA “Diritto tributario, CEDU e diritti fondamentali dell'UE.” Giuffré Editore, 2017).
Tra i diritti fondamentali della CEDU che impattano sul diritto tributario italiano si annoverano: il pacifico godimento dei propri beni (art. 1, Primo Protocollo addizionale); il processo equo (art. 6); nulla poena sine lege (art. 7); ne bis in idem (art. 4, Settimo Protocollo addizionale).
Da quanto sin qui riportato emerge che il primo compito del giudice nazionale è verificare d'ufficio se la norma europea applicabile alla fattispecie concreta sia rilevante per la decisione atteso che, pacificamente, il diritto UE rientra nel principio iura novit curia (Cass. 17 luglio 2019, n. 19293). Nel procedere nell'interpretazione della norma UE, il giudice deve considerare che l'interpretazione stessa deve basarsi non sui canoni ermeneutici dell'ordinamento nazionale, ma sui canoni vigenti nell'ordinamento di provenienza. La norma UE, infatti, deve rimanere “europea” a prescindere dalla nazionalità del giudice dello Stato membro che è chiamato ad interpretarla. Se così non fosse, la norma stessa potrebbe avere interpretazioni diverse a seconda dei criteri ermeneutici vigenti nei singoli Stati. Per individuare l'esatta interpretazione della norma UE per il giudice nazionale è utile la ricerca della giurisprudenza della Corte di giustizia UE, cui è devoluta la relativa nomofilachia. In tal modo, infatti, il giudice limiterebbe il rischio di un'applicazione non corretta del diritto UE e della CEDU e, con riguardo al primo, risolverebbe eventuali dubbi interpretativi senza ricorrere al rinvio pregiudiziale, con effetti positivi sui tempi della decisione. Considerata, quindi, l'importanza dell'interpretazione del diritto UE secondo i canoni vigenti nell'ordinamento di provenienza, è opportuna una breve precisazione dei relativi criteri.
Riguardo al diritto dell'UE, in difetto di una previsione normativa di canoni di interpretazione,deve segnalarsi cheanche nella materia tributariala Corte di giustizia non assegna un grande rilievo al dato testuale della norma da interpretare. All'uopo, deve tenersi conto del problema relativo al plurilinguismo del diritto UE e di quanto affermato dagli studiosi di ermeneutica, secondo cui la traduzione di un testo di legge da una lingua ad un'altra comporta una forma di interpretazione cui potrebbe conseguire il rischio di ambiguità e sfumature di significato nella traduzione dei termini.
Nel diritto Ue, quindi, pur non ignorando – ovviamente - il dato testuale della norma, per ragioni pratiche la Corte di giustizia valorizza criteri interpretativi di tipo contestuale e teleologico (v. L. DANIELE, “Diritto dell'Unione europea”, cit., pag. 167 e ss.gg.), anche perché in tal senso agevolata dalla peculiarità della norma UE caratterizzata dalla presenza del c.d. “considerando”. Quest'ultimo, infatti, costituisce una sorta di motivazione dell'atto normativo stesso che favorisce l'attività interpretativo-funzionale da parte del giudice. Sempre nell'ottica dell'interpretazione funzionale, un rilievo assume il criterio c.d. dell'effetto utile della norma(v. Corte UE, 10 giugno 1999, C-346/97) che si sostanzia nella prassi della Corte di giustizia attraverso cui, innanzi a più interpretazioni possibili, essa applica quella che ampia l'operatività della norma, al fine di privilegiarne lo scopo nel modo più vasto e compiuto possibile.
Come già evidenziato, la CDF si applica al caso pendente quando la parte lamenti la violazione di una norma del diritto dell'UE, diversa dalla norma rilevante della CDF di cui chiede l'applicazione. Ne segue che il giudice deve prima valutare la portata della norma dell'UE violata (v. interpretazione teleologica ed effetto utile) e poi procedere con quella della CDF. Riguardo a quest'ultima, la CDF è dotata di una specifica disciplinadi interpretazione delle proprie norme (v. art. 52) che tiene conto delle Spiegazioni della Carta stessa e della giurisprudenza della Corte di giustizia UE.
In particolare, le regole di interpretazioni variano a seconda che il diritto della CDF: a) ricalchi una norma del Trattato (par. 2); b) corrisponda ad un diritto garantito dalla CEDU (par. 3); c) corrisponda ad una tradizione costituzionale comune agli Stati membri (par. 4).
La disciplina normativa in questione non riporta delle semplici direttive, ma disposizioni obbligatorie che l'interprete è chiamato ad applicare. Una particolare attenzione deve porsi al par. 3 dell'art. 52, il quale attiene all'interpretazione dei diritti della CDF cui corrispondono medesimi diritti garantiti dalla CEDU. In tal caso, il significato e la portata del diritto CDF sono uguali a quelli del diritto CEDU corrispondente. Tale regola, tuttavia, non preclude che il diritto dell'UE conceda una protezione più estesa e che, in tale ipotesi, debba prevalere in giudizio rispetto al diritto CEDU.
Da tali premesse, discende che il giudice deve: a) appurare che vi sia corrispondenza tra un diritto della CDF e della CEDU; b) riconoscere alla norma della CDF il significato della norma CEDU come attribuito dalla Corte EDU; c) riconoscere alla norma della CDF il significato ad essa attribuito dalla Corte UE se garantisce una tutela più estesa in termini di significato e portata del diritto, rispetto a quella riconosciuta dalla CEDU.
Per assistere i giudici nazionali in tali operazioni, le spiegazioni all'art. 52 allegate alla CDF forniscono l'elenco dei diritti che hanno lo stesso significato e la stessa portata dei corrispondenti diritti CEDU, nonché l'elenco dei diritti che hanno lo stesso significato dei corrispondenti diritti CEDU, ma portata più ampia. Proseguendo nell'analisi, il giudice potrebbe essere chiamato a risolvere il dubbio di compatibilità della norma nazionale, rispetto a quella dell'UE, che introduca una limitazione ad un diritto previsto dalla CDF (si considerino, ad esempio, l'art. 97 della Direttiva 2006/112/CE in tema di IVA che prevede l'aliquota ordinaria nella misura minima del 15%, senza previsione di un'aliquota massima, oppure le norme della stessa Direttiva che autorizzano a deroghe al normale meccanismo dell'IVA attraverso procedimenti di autorizzazione come quelli che disciplinano il reverse charge e lo split payment). La soluzione segue l'applicazione del test di proporzionalità dettato dalla CDF (v. art. 52, par. 1). In sintesi, il test può ritenersi superato se la norma nazionale persegue un interesse generale comunque riconosciuto dall'UE e raggiunge tale interesse con il minore sacrificio del diritto UE limitato. Nell'ipotesi contraria, fallito il tentativo di un'interpretazione conforme, il giudice deve non applicare la norma italiana se il contrasto è con una norma UE ad effetto diretto, ovvero sollevare l'incidente di costituzionalità in caso di norma con effetto indiretto.
Deve preliminarmente osservarsi che, allo stato, le norme CEDU sono norme pattizie che pongono obblighi a carico degli Stati firmatari diversi da quelli di fonti UE. Ne segue che, a differenza delle norme del diritto UE, le norme della CEDU sono prive di un effetto diretto che comporti l'obbligo di non applicazione della norma interna contrastante. Nei confronti della CEDU, la Corte Cost. esclude la copertura degli artt. 10 e 11 Cost., ma afferma che il contrasto con la norma nazionale integra la violazione dell'art. 117, c.1, Cost.
Ciò posto, deve ora osservarsi che per la dottrina, in molti casi, i diritti garantiti dalla CEDU hanno un carattere vago, sicché per la loro corretta applicazione si rende necessario il ricorso alle precisazioni fornite dalla giurisprudenza della Corte EDU. Tale giurisprudenza, peraltro, è meramente casistica e modellata sul precedente tipico dei sistemi di common law (“è nell'interesse della sicurezza giuridica, della prevedibilità e dell'uguaglianza davanti alla legge ch'essa non si discosti senza un valido motivo dai propri precedenti”, così Corte EDU, sent. 18.01.2001, Chapman c. Regno Unito). Ne segue che l'applicazione della CEDU non può che essere generalizzata nei sistemi improntati a regole giurisprudenziali opposte al valore del precedente. Il giudice italiano, quindi, è tenuto a ricavare dal caso risolto dalla Corte EDU un principio di diritto di portata solo generale, da applicare con la dovuta attenzione al caso concreto sottoposto al suo esame. (F. BUFFA, “I rapporti tra sistema tributario domestico e CEDU”, Relazione del 18.05.2017 alla Corte Cost.). La stessa dottrina osserva, infine, che il giudice nazionale deve considerare che la Corte EDU decide in relazione all'applicazione della CEDU con riferimento ad ordinamenti statali diversi, sicché una data sentenza della Corte EDU potrebbe essere stata resa in relazione ad un caso specifico di un ordinamento diverso da quello italiano. Logica conseguenza è un'applicazione non sempre agevole della CEDU e la difficoltà nel trarre indicazioni univoche dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Occorre ora verificare l'iter interpretativo da porre in essere nel caso in cui la norma nazionale concorra non con il diritto dell'UE, ma esclusivamente con un diritto della CEDU o di un suo Protocollo (a differenza della CDF, l'applicazione della CEDU non richiede la violazione di una norma UE). Considerata la giurisprudenza della Corte EDU, il giudice applica la norma nazionale se la ritiene compatibile con quella CEDU. Se la norma nazionale dovesse risultare compatibile, ma contenere una limitazione del diritto rispetto alla CEDU, il giudice nazionale deve verificare se quest'ultima preveda una possibile limitazione del diritto interno e se la limitazione stessa non ecceda quanto stabilito. Il giudice deve verificare, quindi, se la restrizione nazionale: a) sia prevista dalla legge italiana, intesa in senso convenzionale; b) persegua un obiettivo legittimo; c) sia giustificata da un'esigenza sociale pressante; d) risulti proporzionata al sacrificio imposto.
Riguardo al perseguimento di un obiettivo legittimo deve rilevarsi che, al pari della CDF, la CEDU ammette limitazioni ai diritti fondamentali ma, a differenza della CDF, si cura di precisare in via esaustiva gli obiettivi che possono considerarsi legittimi. Il rispetto della proporzionalità, a sua volta, impone che la misura sia appropriata all'obiettivo che la norma si propone di raggiungere e che non esista una misura diversa che consenta di raggiungere l'obiettivo con un minore sacrificio del diritto fondamentale. A tale proposito, la CEDU, a volte, lascia agli Stati membri un margine di apprezzamento per bilanciare un diritto fondamentale ed un obiettivo di interesse generale o un altro diritto fondamentale, con una misura che potrebbe variare da Stato a Stato. I rimedi al contrasto tra diritti multilivello
In tema di soluzione del contrasto tra il diritto nazionale e quello dell'UE, nella sostanza, si tratta di individuare, tra i vari mezzi offerti dall'ordinamento interno, l'interpretazione della norma nazionale che meglio si presta a tutelare i diritti attribuiti agli individui dal diritto UE (per un'analisi compiuta del percorso interpretativo, anche con riferimento alla CDF ed alla CEDU, v. “Cooperazione giudiziaria europea e diritti fondamentali: Linee guida operative”, a cura della European University Institute, Centre for judicial cooperatione, reperibile sul sito www.eui.ue). Se il contrasto attiene ad una norma ad effetto sia diretto sia indiretto del diritto dell'UE, considerato il principio di leale collaborazione tra gli Stati membri da cui discende, nella gerarchia delle fonti, il primato del diritto UE su quello degli Stati membri, il giudice deve procedere con una interpretazione della norma nazionale in senso conforme alla seconda (v. Corte UE, 4 dicembre 2004, c-397/01). Nel caso in cui ilgiudice versi nell'impossibilità di ricomporre il contrasto attraverso una interpretazione conforme a causa di una divergenza interpretativa insanabile, occorre distinguere tra norma UE ad effetto diretto o indiretto. Il contrasto tra la norma nazionale e la norma UE ad effetto diretto deve essere risolta dal giudice attraverso la non applicazione della norma interna a favore di quella europea, non necessitando di un intervento del legislatore o della Corte Cost. per chiederne l'effettiva rimozione dall'ordinamento giuridico nazionale. L'obbligo di garantire la tutela dei diritti soggettivi derivanti dalla applicazione di norme di diritto europeo, infatti, non ammette ritardi che possano derivare da disposizioni di legge interne (Corte GUE, 26 febbraio 2013, C-617/10).
Il procedimento della diretta non applicazione della norma interna si sostanzia in due tecniche diverse: a) la sostituzione della regola europea alla norma interna incompatibile, con un diretto utilizzo da parte del giudice del parametro normativo europeo nella soluzione del caso concreto, che può essere utilizzato anche laddove l'incompatibilità sia data da una omessa previsione di adeguamento alla norma comunitaria; b) l'esclusione della norma interna contrastante con la fonte UE ed il ricorso da parte del giudice ad altri istituti, comunque presenti nell'ordinamento nazionale, che garantiscono la compatibilità eurounitaria ed il raggiungimento delle stesse finalità (da preferire nell'applicare i principi generali dell'Unione).
Deve evidenziarsi, infine, che da parte del giudice l'obbligo di non applicazione della norma nazionale costituisce un dovere la cui violazione implica un illecito internazionale dello Stato membro, cui segue l'obbligo del risarcimento del danno (v. Corte UE, 13.6.2006, c-173/03).
Nella diversa ipotesi in cui il contrasto insanabile riguardi una norma nazionale ed un'altra europea di “efficacia indiretta”, nel cui novero, si ricorda, in attesa del perfezionamento delle procedure di adesione rientra la CEDU, la difesa del contribuente non resta priva di tutela. Al giudice nazionale, infatti, compete di sollevare innanzi alla Corte Cost. l'eccezione di incostituzionalità della norma nazionale per la valutazione, ai sensi degli articoli 11 e 117 Cost., rispetto al parametro interposto costituito dalla disposizione della UE violata (v. Corte Cost. sent. n. 170/1984, n. 284/2007 e n. 227/2010). In tal caso, l'applicazione della norma europea non è immediata, ma segue la sentenza di incostituzionalità della norma nazionale. Sotto tale profilo, deve osservarsi che il tentativo, ex ante, di un'interpretazione conforme della norma interna a quella europea o convenzionale è, ove possibile, doverosa perché, in difetto, il giudice a quo non potrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale. In altri termini, per il giudice l'impossibilità di interpretazione conforme costituisce un requisito necessario per l'emanazione dell'ordinanza di rimessione alla Corte Cost. Sotto tale profilo, l'approdo cui è giunta la Corte Cost. è di un rapporto sostanzialmente dualistico, nel senso che:
Sul punto è utile segnalare che, in un suo recente intervento, la Corte Cost. ha precisato che in caso di contrasto insanabile tra norma nazionale e norma della CDF compete al giudice sollevare l'eccezione di incostituzionalità della prima e non applicare direttamente la norma europea (v. Corte Cost. n. 269/2017). In tal modo, i diritti fondamentali della CDF e della CEDU vengono a porsi sullo stesso piano.
In conclusione
Proseguendo nell'analisi, deve osservarsi che sul piano della gerarchia delle fonti, le norme UE ad efficacia indiretta si pongono in una posizione intermedia tra le norme nazionali ordinarie e quelle costituzionali. Attraverso il ricorso al rinvio pregiudiziale, quindi, la Corte Cost. si pone nella condizione di opporre al primato della norma europea il c.d. “controlimite” della Costituzione Italiana. Si tratta, in sintesi, nel sistema multilivello che ci occupa, di una progressione ordinata secondo l'art. 11 Cost. di fonti normative e che prevede l'applicazione, nell'ordine, prima dei principi inalienabili e fondamentali della Costituzione assumibili come controlimiti, dopo i diritti derivanti dai Trattati e dal diritto derivato dell'UE e, infine, le altre norme della Costituzione italiana (v. F. GALLO, Ordinamento comunitario e principi fondamentali tributari, Napoli, 2006, 14). Al termine di un lungo percorso giurisprudenziale, infatti, allo stato, con la teoria del “controlimite” la Corte Cost. afferma che la supremazia delle norme UE ed i conseguenti vincoli imposti allo Stato Italiano in tema di non applicazione della norma interna che si ponga in contrasto, incontra il limite dell'intangibilità dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione Italiana, i quali devono ritenersi sindacabili solo dalla Corte Cost.
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