Sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno e autorizzazione al lavoro fuori dal Comune

03 Dicembre 2019

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha affermato che la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno non consente di autorizzare il lavoro fuori Comune neanche per indigenza della famiglia. In particolare, è stato respinto il ricorso per cassazione con cui veniva dedotta la violazione di legge...
Il dictum

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha affermato che la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno non consente di autorizzare il lavoro fuori Comune neanche per indigenza della famiglia.

In particolare, è stato respinto il ricorso per cassazione con cui veniva dedotta la violazione di legge e vizi di motivazione, essendo stata negata la possibilità di svolgere attività lavorativa nella propria azienda agricola, così da non dovere ricorrere all'aiuto necessario della Caritas. Ciò in contrasto con quanto affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui il giudice non può negare il permesso di lavoro a chi sta scontando la misura cautelare degli arresti domiciliari, se la famiglia è indigente e non ha altri mezzi di sostentamento (Cass. pen, n. 1480/2013).

L'evoluzione della disciplina

Va premesso che la materia dei permessi era disciplinata, prima della novella del 2011, dall'art. 7-bis della legge n. 1423/1956, introdotto dall'art. 11 della legge n. 646 del 1982, regolante ex novo la materia delle autorizzazioni ad allontanarsi dal luogo del soggiorno obbligato al fine di meglio realizzare le finalità di isolamento in cui il soggiornante obbligato era tenuto a vivere.

La prima riforma del 1982 si era resa necessaria in quanto in precedenza, nel silenzio della legge del 1956, sull'ammissibilità stessa dei permessi e sulla competenza a concederli si era ecceduto, accordando spesso l'autorizzazione a tornare nel luogo di origine e con ciò vanificando gli scopi della misura e, in qualche caso, persino facilitando la diffusione del fenomeno mafioso (M. Di Raimondo, Lineamenti delle misure di prevenzione, Padova, 1983, 114).

Presupposto per la concessione del permesso, legata a esigenze di necessità e umanità, erano quindi - alla stregua del previgente articolo 7-bis - solo i gravi e comprovati motivi di salute, per cui l'autorizzazione ad allontanarsi dal comune del soggiorno obbligato era finalizzata esclusivamente agli accertamenti sanitari e alle cure indispensabili.

La norma era riconducibile ai valori etico-sociali tutelati dall'art. 32 Cost., che qualifica la salute non soltanto come fondamentale diritto dell'individuo, ma anche quale interesse della società; così sottolineava la Corte costituzionale nella sentenza del 24 giugno 1997, n. 193, con la quale dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7-bisdella legge 27 dicembre 1956, n. 1423 nella parte in cui, secondo quanto sollevato dal tribunale remittente, non prevedeva che la medesima autorizzazione potesse valere anche per consentire l'esercizio di un'attività lavorativa, mancata previsione che era stata ritenuta dal giudice a quo in contrasto con gli artt. 3 e 4 della Costituzione (in senso favorevole alla posizione della Consulta, M. RUOTOLO, Obbligo di soggiorno e diritto al lavoro: una questione ben risolta, nota a Corte cost. 193/97 in Giur. Cos. 1997, 1898; in argomento, C. FORTE, Sub art. 12, in A. CAIRO, C. FORTE, Codice delle misure di prevenzione, Roma, 2018, 299 ss.).

Nell'ambito del sistema delle misure di prevenzione, il soggiorno obbligato in un luogo diverso da quello di dimora abituale, reintrodotto dall'art. 20, d.l. 152/1991, conv. con modif., nella l. 203/1991, ha al pari del divieto di soggiorno la precipua funzione di recidere, per quanto possibile, i legami del sottoposto con l'ambiente in cui la sua pericolosità sociale ha avuto modo di manifestarsi e che, proprio per questo, la sua adozione s'impone quando siffatta pericolosità è caratterizzata da un'intima relazione eziologica con detto ambiente, che la condiziona favorendola e/o potenziandola (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

È evidentemente questo il motivo per il quale l'autorizzazione derogatoria all'allontanamento dal luogo di soggiorno obbligato, prevista in origine dall'art.7-bisl. 1423/1956 per i soli soggiornanti obbligati e limitatamente all'ipotesi in cui ricorressero gravi e comprovati motivi di salute, è stata per lungo tempo configurata dalla giurisprudenza (cfr. Cass. pen., Sez. I, 29 marzo 1984, Amato, in Mass. uff., 1984, n. 163962) come un rimedio eccezionale, non estensibile in via analogica oltre i casi dal medesimo art. 7-bis espressamente previsti.

Dunque, la giurisprudenza negava, da una parte, che il soggiornante obbligato potesse essere autorizzato ad allontanarsi dal luogo di soggiorno coatto per ragioni diverse dai “gravi e comprovati motivi di salute” e, d'altra parte, che la disciplina dettata dall'art. 7-bis cit. potesse estendersi ai soggetti sottoposti al divieto di soggiorno (C. Forte, Sub art.12, cit., 299 ss.; P.V. MOLINARI - U. PAPADIA, Le misure di prevenzione, Padova, 2002, 303).

La dottrina, pressoché unanimemente, escludeva la possibilità di un'interpretazione estensiva della norma (E. Gallo, Misure di prevenzione, in Enc. Giur. Treccani, Roma 1990, vol. XX; F. BRICOLA, Commenti articolo per articolo, l. 13.9.1982, n. 646, in Leg. Pen., 1983, 253).

Anche la Corte costituzionale aveva riconosciuto, dal suo punto di vista, la correttezza di tali conclusioni, dichiarando manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità della norma in questione, sollevata proprio sul rilievo della disparità di trattamento tra i soggiornanti obbligati e i detenuti e gli internati per i quali, invece, l'art.30 della l. 354/75 prevede la possibilità della concessione di un permesso anche per ragioni familiari “di particolare gravità” (Corte Cost., 23 giugno 1988, n.722).

In seguito la Consulta era stata sollecitata a valutare la compatibilità dell'art. 7-bis in relazione all'art. 19 della Costituzione, che garantisce a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, e di esercitarne il culto in privato e in pubblico, proprio nella parte in cui prevedeva la possibilità di autorizzazione ad allontanarsi dal comune di soggiorno obbligato esclusivamente per ragioni di salute e non anche per la professione in forma associata della propria fede (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

La questione fu però dichiarata infondata, in primo luogo perché le misure che la legge, nel rispetto dell'art. 13 della Costituzione, autorizza a prendere per garantire il compito statuale di assicurare la protezione del bene primario della sicurezza pubblica possono comportare limitazioni direttamente sulla libertà personale e, come nel caso in esame, anche sulla libertà di circolazione e soggiorno del soggetto considerato socialmente pericoloso, ripercuotendosi inevitabilmente su altri diritti del cui esercizio esse costituiscono il presupposto (C. Forte, Sub art. 12, cit., 299 ss.).

Sotto altro aspetto, si osservò che la misura di prevenzione in questione non incideva di per sé direttamente - ma solo indirettamente ed eventualmente - sull'esercizio del diritto di professare la propria religione quando, per ragioni indipendenti dalla legge e derivanti soltanto dalla diffusione sul territorio di una determinata confessione religiosa, nel comune del soggiorno obbligato non esista una comunità organizzata di fedeli, alle cui attività il prevenuto possa partecipare. Per questo profilo, concluse la Corte, la possibile limitazione all'esercizio della libertà religiosa in forma organizzata non si differenzia da tutte le altre “normali conseguenze” (Corte cost. n. 75 del 1966) che possono discendere dall'imposizione di limiti alla libertà personale e alla libertà di circolazione e soggiorno e che possono riguardare non solo il diritto previsto dall'art. 19 della Costituzione, ma anche, ad esempio, quelli previsti nell'art. 4, nell'art. 32 e nell'art. 33 della Costituzione (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Il sistema di contemperamento, previsto specificamente per permettere di usufruire di cure mediche necessarie in casi eccezionali, non potrebbe quindi secondo i giudici essere esteso al caso del diritto di libertà di culto in forma associata; decisivo è, sul punto, osservare che la sospensione degli obblighi del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno per consentire la partecipazione periodica e continuativa a cerimonie religiose sarebbe in insuperabile contraddizione con le esigenze in vista delle quali la misura di prevenzione è stata adottata, come risulta evidente sia dalla circostanza che l'autorizzazione dovrebbe valere in generale per tutta la durata della misura, sia dall'ovvia impossibilità di assicurare idonee misure di pubblica sicurezza nei luoghi di culto e durante la celebrazione di cerimonie religiose (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Da ciò risulta che l'ipotizzata estensione dell'art. 7-bisdella legge n. 1423 del 1956 dal campo del diritto alla salute a quello del diritto di culto non rappresenterebbe un contemperamento idoneo tra esigenze costituzionali da armonizzare, ma semplicemente la vanificazione dell'una a favore dell'altra.

Più recentemente, tuttavia, si è venuto affermando nella giurisprudenza della Suprema Corte un diverso orientamento, secondo cui l'art.7-bisl. 1423/1956 sarebbe stato estensibile in via analogica anche ai casi in cui l'allontanamento dal luogo di soggiorno obbligato fosse reso necessario da gravi e comprovati motivi di famiglia o di lavoro e anche, mutatis mutandis, alle persone sottoposte al divieto di soggiorno (cfr. Cass. pen., Sez. XI, 7 marzo 1989, Paese, in Cass. pen., 1990, 941, m. 808; 24 aprile 1989, Pagano, ivi 1990, 1987, m.1608; 24 aprile 1989, Cirillo, ivi, 1987, m.1609; n. 44152/2003, 46935/2003, emesse dopo la sentenza n. 309/2003 della Corte costituzionale).

La giurisprudenza di merito aveva aderito, in massima parte, a questa seconda prospettazione, sostenendo che se è vero che una norma può dirsi eccezionale quando regola una data fattispecie in maniera antitetica rispetto alla disciplina generale, lo è altrettanto che un rapporto regola-eccezione ha un senso solo se si delineano i confini dell'insieme da considerare e che per esempio, se si prende come ambito di riferimento l'insieme normativo penale, si ricaverà che le norme che prevedono le cc.dd. scriminanti - in quanto rendono lecite o, comunque, non punibili condotte generalmente punibili - sono norme eccezionali, laddove ognuna di esse singolarmente considerata è una norma regolare, espressione di un principio generale dell'ordinamento (qui iure suo utitur neminem laedit, vim vi repellere licet, ecc.) (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Lo stesso deve dirsi in relazione alla norma di cui al cit. art. 7-bis la quale, se raffrontata al sistema delle misure di prevenzione, non può che considerarsi eccezionale, ma che, a ben vedere, è essa stessa espressione di un principio generale, addirittura di rango costituzionale (vd. artt. 13, comma 2, 27, comma 3, 32, comma 2, Cost.): quello secondo cui le misure comunque restrittive della libertà personale non possono in nessun caso essere contrarie al senso di umanità (C. FORTE, Sub art. 12, cit., 299 ss.).

Orbene, se tale approccio al problema poteva dirsi corretto, si sosteneva che non vi fosse dubbio che proprio la soddisfazione di siffatto ultimo principio generale caratterizzasse, dal punto di vista teleologico, la norma in questione; ne conseguiva che non si vedeva perché non potesse essere estesa analogicamente, oltre il limite della massima portata semantica delle espressioni linguistiche utilizzate dal legislatore, anche ai casi simili.

Poteva, quindi, concludersi che il soggiornante obbligato potesse essere autorizzato ad allontanarsi dal luogo di soggiorno coatto, così come la persona sottoposta al divieto di soggiorno può essere autorizzata a recarsi nei luoghi in cui gli è interdetto il soggiorno, non solo quando ricorrano gravi e comprovati motivi di salute, ma altresì quando ricorrano gravi e comprovati motivi di famiglia o lato sensu affettivi (ad. es. decesso di uno stretto congiunto o suo imminente pericolo di morte) ovvero di lavoro, salva la valutazione del giudice se i motivi addotti siano effettivamente, oltre che comprovati, anche gravi, come sarebbe ipotizzabile in astratto nel caso di specie per evitare situazioni di indigenza per la famiglia; se, cioè, le esigenze prospettate non possano essere soddisfatte se non concedendo l'autorizzazione in questione, e, in caso positivo, se sia necessario adottare opportune cautele (ad es. mediante l'imposizione di specifiche prescrizioni) (C. Forte, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Sembra doversi, infine, ritenere che l'autorizzazione possa essere rinnovata alla luce di un'analisi sistematica dell'art. 12 che, a differenza dell'omonimo istituto previsto per i condannati dall'art. 30 della legge n. 354/1975, non fa alcun riferimento all'“eccezionalità” dello strumento (così, F. INSOM, L'esecuzione delle misure, in Misure di prevenzione, AAVV, Torino, 2013, 285).

Le innovazioni del decreto n. 159/2011

Proprio tenendo conto della richiamata elaborazione giurisprudenziale il codice antimafia, innovando sul punto l'articolo 7-bis citato, ha inserito l'inciso secondo il quale l'autorizzazione può essere concessa anche qualora ricorrano gravi o comprovati motivi di famiglia che rendano assolutamente necessario e urgente l'allontanamento dal luogo di soggiorno coatto (C. Forte, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Le motivazioni dovranno essere gravi, ovvero di natura particolarmente intensa, non tutelabili se non con l'allontanamento dal luogo di soggiorno obbligato, e comprovate, vale a dire adeguatamente motivati; nella seconda ipotesi, esse inoltre dovranno essere tali da rendere assolutamente necessario e urgente l'allontanamento.

Peraltro, la giurisprudenza di merito ritiene sussistente la ragione di necessità sottesa alla concessione del permesso anche per ragioni di giustizia e in particolare allorché il sottoposto debba allontanarsi dal comune per presenziare a un processo, rendere dichiarazioni o deposizioni, specificando che in tal caso la facoltà di chiedere la predetta autorizzazione spetta anche all'A.G. cui la legge riconosce un interesse a quella partecipazione (Cass. pen., Sez. I, 4 giugno 2002, n. 24218). Specificando tale principio si è ritenuto (Cass. pen., Sez. VI. n. 47588/2014 e Cass. pen., Sez. VI,n. 15163/2014) che alla persona sottopostaalla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune può essere concessa l'autorizzazione ad allontanarsene quando ricorrono gravi e comprovati motivi di salute o di famiglia, ma non anche al fine di soddisfare esigenze correlate all'esercizio del diritto di difesa e suscettibili di essere tutelate in forme alternative compatibili con i limiti imposti dal provvedimento in corso di esecuzione (in applicazione del principio, la Corte ha annullato il provvedimento con cui il tribunale aveva autorizzato il sottoposto a recarsi nel comune capoluogo di regione per un colloquio con il proprio difensore) (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

La Suprema Corte già aveva chiarito (cfr. Cass. pen., Sez. I, 23 giugno 2010 n. 27576), Landonio, rv. 247675), da un lato, che il rigoroso limite normativo posto (prima del d.lgs. n. 159 del 2011) alla natura meramente "sanitaria" delle ragioni legittimanti il permesso di allontanamento momentaneo si coniugasse ad esigenze di integrità sanitaria dell'individuo correlate anche a irrinunciabili aspetti della sua salute psicofisica, donde il loro possibile correlarsi anche a contingenti e gravi ragioni familiari, quali corollario delle primarie esigenze di integrità fisica e psichica dell'interessato. Ma la stessa decisione, d'altro canto, ha del pari precisato - anche con il conforto di pronunce del giudice delle leggi (Corte Cost. nn. 722/1988, 309/2003) - che la limitazione di diritti di rango costituzionale diversi da quello alla salute (e alla contingente tutela di strette relazioni familiari) non è irragionevole, costituendo “una scelta del legislatore esercitata nell'ambito di opzioni riservate alla sua discrezionalità e non ingiustificata”, a fronte della prevalenza riconosciuta alle ragioni costituzionali di segno collettivo rappresentate dalla prevenzione di attività criminose sottese alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno (C. Forte, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Non è, quindi, condivisibile l'interpretazione analogica, avallata da taluna giurisprudenza di merito, che finisce per ammettere l'autorizzazioneall'allontanamento anche per soddisfare esigenze correlate al diritto di difesa (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Ancor più rigoroso l'indirizzo (così Cass. pen., Sez. I, n. 27576/2010) secondo il quale alla persona sottoposta alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune può essere concessa l'autorizzazione ad allontanarsene per soddisfare esigenze di salute gravi e temporanee o per fronteggiare gravi e contingenti ragioni familiari, ma non anche per soddisfare generiche esigenze correlate al desiderio di mantenere rapporti visivi e personali con i propri parenti (applicando tale principio al caso di specie, è stata negata l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo del soggiorno obbligato per recarsi ad effettuare un colloquio con il padre detenuto) (C. Forte, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Recentemente la Suprema Corte (Cass. pen., Sez. II, 28 aprile 2017, n. 38825, Rv. 271299, ha sostenuto che alla persona sottoposta alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune può essere concessa l' autorizzazione ad allontanarsene solo quando ricorrono gravi e comprovati motivi di salute o di famiglia (in applicazione del principio, la Corte ha annullato il provvedimento con cui il tribunale aveva autorizzato il sottoposto ad abbandonare il luogo di soggiorno obbligato per ragioni di cura e di lavoro, rilevando da un lato la carenza di una specifica motivazione in ordine alla gravità della situazione sanitaria, dall'altro l'assenza nel parametro normativo della possibilità di autorizzare l'allontanamento dal domicilio coatto per motivi di lavoro) (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

È poi utile bene precisare che l'elemento distintivo tra l'autorizzazione di cui all'art. 12 e la modifica di cui all'art. 11 va individuato nel tipo di giudizio che il collegio è chiamato a formulare, atteso che solo la seconda implica e richiede un giudizio di diminuita pericolosità sociale del sottoposto; ancora, mentre la domanda tesa a sodisfare esigenze di carattere temporaneo va inquadrata nell'ambito dell'art. 12, invece una richiesta che implichi una valutazione circa la persistenza della pericolosità dell'interessato deve essere qualificata come richiesta di modifica delle prescrizioni originarie e quindi vincolata al rispetto delle regole processuali di cui all'art. 11, comma 2 (così Cass. pen., Sez. I, 8 marzo 2001, n. 9590).

Per accentuare il sistema di controllo, l'ultimo comma dell'art. 7-bis della legge del 1956, ripreso dall'articolo 12 del Codice Antimafia, prevede che il decreto con cui si concede il permesso venga comunicato all'autorità di pubblica sicurezza che esercita la vigilanza sul soggiornante obbligato, la quale provvede a informare quella del luogo dove l'interessato deve recarsi e a disporre le modalità e l'itinerario del viaggio (C. FORTE, Sub art. 12, cit., 299 ss.).

L'autorità di P.S. impartisce le prescrizioni in un atto scritto che l'interessato è tenuto a portare con sé unitamente alla carta di permanenza, di cui all'art. 5 della legge n. 1423/1956. Le prescrizioni riguardano: il mezzo di trasporto da utilizzare per il viaggio di andata e ritorno, gli itinerari, le date, se è possibile, gli orari di arrivo e di partenza (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

Il decreto emesso dal tribunale e il decreto presidenziale sono ricorribili in Cassazione; il ricorso può essere presentato dall'interessato, dal pubblico ministero e, secondo parte della dottrina, anche al difensore del sottoposto, cui spetta la notifica del provvedimento (così E. ZAPPALÀ, Commenti articolo per articolo l. 13/9/82, n. 646, in Leg. Pen., 1983, 285 e ss.).

L'opinione prevalente è consolidata nel senso che il periodo fruito in regime di autorizzazione sia computabile ai fini della decorrenza del periodo di sottoposizione, considerando che il tempo del permesso non è libero, ma connotato dall'esistenza di vincoli che il sottoposto è comunque tenuto a rispettare, di talché la misura non risulta in alcun modo sospesa o interrotta (C. FORTE, Sub art.12, cit., 299 ss.).

In conclusione

Come visto con la sentenza in commento la Suprema Corte ha ribadito che alla persona, sottoposta alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune, può essere concessa l'autorizzazione ad allontanarsene solo quando ricorrono gravi e comprovati motivi di salute o di famiglia, escludendo da quest'ultima ipotesi il caso di autorizzazione al lavoro finalizzato a evitare uno stato di povertà della famiglia.

Orbene, è pur vero che il dictum è fedele ad una interpretazione letterale del dato normativo, ma è altrettanto vero che se si considera che il lavoro nella sua dimensione costituzionale ha una funzione sociale e di sviluppo della personalità, lo stesso può essere collegato a esigenze di sopravvivenza economica della famiglia, e dunque a motivi di famiglia lato sensu gravi, che consentono, in casi specifici, una interpretazione evolutiva della fattispecie autorizzatoria.

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