La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. quale sanzione all'abuso del processo

Maria Francesca Ghirga
23 Dicembre 2019

Di fronte all'esercizio del diritto d'impugnazione, nel caso di specie rappresentato dalla proposizione del ricorso in cassazione, si pone la questione di stabilire quando esso possa configurare un'ipotesi di abuso del processo.
Massima

La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma e indipendente dalla responsabilità aggravata e con questa cumulabile. Essa richiede una condotta oggettivamente valutabile in termini di abuso del processo. Tale si configura l'aver agito o resistito pretestuosamente, ovvero nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione.

Configura l'abuso del diritto d'impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza, oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione del merito della controversia.

Nel vigente ordinamento è assegnato alla responsabilità civile non solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, ma anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria di cui ne è espressione l'art. 96, comma 3, c.p.c.

La determinazione equitativa della somma di cui alla condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. va effettuata in termini di proporzionalità.

Il caso

Tizio ha impugnato con ricorso in cassazione la sentenza della Corte d'Appello dell'Aquila che, confermando la pronuncia del Tribunale di Pescara, ha respinto la domanda di risarcimento per i danni pretesi a causa della pubblicazione su di un quotidiano di notizie non corrispondenti al vero concretante la fattispecie di diffamazione a mezzo stampa.

Il ricorrente ha formulato avverso la sentenza impugnata tre motivi: con il primo ha lamentato la violazione degli artt. 91 e 92, 99, 100, 101, 112 e 113, 115 e 116; 347, 166, 167, 345, 346, 329 c.p.c.; la censura è stata giudicata inammissibile per mancanza di specificità, e perché con essa sono stati riproposti fatti già esaminati in sede penale e civile, così “mascherando” la richiesta di un terzo grado di merito, non consentito; con il secondo motivo il ricorrente ha lamentato il difetto di motivazione della sentenza, non più censurabile nella nuova formulazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c.; il motivo è stato comunque giudicato inammissibile per assenza di specificità ed indicazione del fatto storico di cui sarebbe stato omesso l'esame; con la terza censura mossa dal ricorrente viene dedotta la manifesta nullità delle “sentenze di merito impugnate” ex artt. 347, 166, 167, 345, 346 e 329 c.p.c. e 99, 100, 101, 112, 113, 115 e 116 c.p.c.; essa disvela, nella sua inammissibilità per totale assenza di specificità e per l'incomprensibile prospettazione delle argomentazioni, l'intento di ottenere, come già rilevato, una rivisitazione nel merito della controversia non previsto dall'ordinamento.

La questione

Di fronte all'esercizio del diritto d'impugnazione, nel caso di specie rappresentato dalla proposizione del ricorso in cassazione, si pone la questione di stabilire quando esso possa configurare un'ipotesi di abuso del processo.

Occorre, poi, chiedersi quale sia la natura della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., quali i suoi elementi costitutivi e se possa essere utilizzata come sanzione per le fattispecie di abuso processuale.

Risolta positivamente la questione, occorre stabilire come debba essere quantificata la somma equitativamente disposta dal giudice nel provvedimento di condanna assunto d'ufficio ex art. 96, comma 3, c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

La possibilità di configurare fattispecie di abuso processuale è un dato acquisito del diritto vivente. La Cassazione, nella pronuncia in commento, richiama il precedente offerto da Cass. civ, sez. II, 21 novembre 2017, n. 27623, provvedimento nel quale si trova affermato che il cd. abuso del processo ricorre quando lo strumento processuale viene piegato a finalità devianti rispetto alla «tutela dei diritti e degli interessi legittimi per i quali l'art. 24, comma 1, Cost., garantisce il ricorso al giudice».

Nella sentenza in esame il Supremo collegio ribadisce che può costituire abuso del diritto di impugnazione la proposizione di un ricorso in cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza, oppure consistente in una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia.

Come nel caso di specie, in cui le censure contenute nel ricorso sono tutte inammissibili, in parte a causa della violazione del principio di autosufficienza, in parte perché, ed al di là del motivo di ricorso dedotto, si è chiesto un riesame nel merito dell'intera vicenda, non consentito in sede di legittimità.

La Cassazione afferma al riguardo di voler valorizzare la sanzionabilità dell'abuso dello strumento giudiziale proprio per garantire l'accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati.

Il rimedio è allora offerto dall'art. 96, comma 3, c.p.c. che, come affermato da Cass. civ., sez. II, 21 novembre 2017, n. 27623, sopra ricordata e richiamata nella sentenza in commento, «configura una sanzione di ordine pubblico, dettata, con finalità di deflazione del contenzioso, nell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso del processo e di quelle condotte processuali che determinano una violazione delle regole del giusto processo e della sua ragionevole durata». Ed infatti, come si legge ancora nel provvedimento richiamato: «con l'istituto previsto nell'art. 96, comma 3, c.p.c., il legislatore ha inteso affidare al giudice uno strumento per reprimere, nell'interesse generale della collettività, il cd. abuso del processo».

Il rafforzamento della repressione dell'abuso del processo si sarebbe manifestato per la Cassazione nella scelta legislativa di sopprimere, nel descrivere la fattispecie, l'elemento soggettivo.

Il giudice deve quindi limitarsi a valutare oggettivamente la sussistenza di un abuso processuale quale emergente dagli atti e dal loro contenuto.

Nel provvedimento in commento si afferma di conseguenza che l'applicazione dell'art. 96 comma 3 c.p.c. non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile come abuso del processo, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente, e quindi «nell'evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione».

Questa visione dell'istituto sarebbe stata confermata dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 152 del 2016, - in occasione del rigetto della questione di legittimità della norma laddove prevede il pagamento di una somma a favore della controparte e non dell'Erario, come osservato dalla Cassazione nel precedente invocato. Peraltro, e secondo il provvedimento in commento, essa risulterebbe, inoltre, confermata dalla giurisprudenza sui danni punitivi (Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601) che avrebbe riconosciuto alla responsabilità civile anche una funzione di deterrenza, come dimostrato dalla presenza nel nostro sistema di norme quali appunto l'art. 96, comma 3, c.p.c.

Resta da dire in merito alla quantificazione della somma dovuta, che deve essere equitativamente determinata dal giudice «in termini di proporzionalità alla metà dei compensi liquidati in relazione al valore della causa».

Sul punto merita di essere ricordata la successiva sentenza della Corte Costituzionale 12 giugno 2019, n. 139, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c., per contrasto con gli artt. 23 e 25, comma 2, della Costituzione, nella parte in cui non prevede l'entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna.

Nel ritenere inammissibile la questione posta con riferimento all'art. 25 Cost. e quindi al principio di legalità, la Corte osserva che esso si applica alle sanzioni penali e a quelle amministrative di natura sostanzialmente punitiva, non a prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge. Essa aggiunge che l'obbligazione di corrispondere la somma prevista dalla disposizione censurata, pur perseguendo una finalità punitiva, costituisce un peculiare strumento sanzionatorio con una concorrente finalità indennitaria, poiché la somma è riconosciuta in favore della parte vittoriosa e non dell'Erario; essa dunque non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio e ricade, quindi, nell'ambito di operatività dell'art. 23 Cost.

Ed infatti nell'art. 96, comma 3, c.p.c., «l'equità costituisce criterio integrativo di una fattispecie legale consistente (…) in una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge», venendo quindi in gioco la riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost.

Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall'art. 23 Cost., richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina. L'art. 96, comma 3, c.p.c., attribuisce al giudice il compito di quantificare la somma sulla base di un criterio equitativo.

Il legislatore, secondo la Corte, avrebbe così inteso affidarsi alla giurisprudenza, che nell'attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione, può specificare il precetto legale.

E' quello che ha fatto sul punto la Cassazione con la pronuncia in esame, laddove ha precisato che il comma 3 dell'art. 96, rinviando all'equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma va rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa»: così Cass. civ., sez. civ. III, 11 ottobre 2018, nn. 25177 e 25176 (ord.)

Del resto Cass. civ., sez. III, 4 luglio 2019, n. 17902, ha affermato che «la determinazione giudiziale deve osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l'unico limite della ragionevolezza».

Per i giudici della Consulta si tratta di un criterio ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, ma che risulta coerente ed omogeneo con quanto previsto dall'art. 385, comma 4, c.p.c., ora abrogato, ma confluito nella sostanza nella norma in esame, e con quanto disposto nell'art. 26 del c.p.a., che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali.

Se nella ricostruzione della norma in questione sembra sia stato raggiunto un certo grado di certezza sistematica, resta aperto un dubbio, oltre a quanto si osserverà poi più in generale.

Esso riguarda la presenza o meno nella fattispecie dell'elemento soggettivo. Per la pronuncia in commento esso non è richiesto, essendo sufficiente il riscontro di una condotta oggettivamente valutabile come abuso del processo. Nello stesso senso si è espressa Cass. civ., sez. III, 11 ottobre 2018, n. 25176 (ord.); Cass. civ., sez. VI, 10 settembre 2018, n. 21943; Cass. civ., sez. II, 21 novembre 2017, n. 27623.

Tuttavia, non sono mancate pronunce della Cassazione, anche a Sezioni Unite, che sono di diverso avviso.

E così Cass. civ., Sez. Un. 13 settembre 2018, n. 22405, dovendosi pronunciare sulla giurisdizione, ha altresì affermato con riferimento al comma 3 dell'art. 96 c.p.c., che «è necessario l'accertamento in capo alla parte soccombente della mala fede (consapevolezza dell'infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame, ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione. Nello stesso senso si era espressa Cass. civ., Sez. Un., 20 aprile 2018, n. 9915. Richiama la prima pronuncia delle Sezioni Unite Cass. civ., sez. II, 3 settembre 2019, n. 22042; la seconda Cass. civ., sez. II, 18 settembre 2019, n. 23319.

Dal canto suo la Corte Costituzionale, nella recente sentenza del giugno 2019, nell'interpretare l'espressione «in ogni caso», ovvero l'incipit del comma 3 dell'art. 96, afferma che si tratta del richiamo a tutti i casi di responsabilità aggravata di cui alla rubrica della norma, e che quindi devono intendersi evocati i presupposti del primo comma: avere la parte soccombente agito o resistito con mala fede o colpa grave.

Osservazioni

Le critiche mosse dai processual-civilisti alla configurazione dell'abuso processuale vanno incontro alla facile obiezione che si tratta di diritto vivente, come dimostrato dalla giurisprudenza non solo della Cassazione, ma altresì della Corte Costituzionale, sopra citata.

L'art. 96, comma 3, c.p.c., rappresenta uno degli strumenti messi in campo dal legislatore per sanzionare l'abuso del processo. In quanto tale esso merita la massima applicazione possibile ed in questo senso fondamentale è l'opera della giurisprudenza.

In un momento storico come quello attuale, ad alto tasso di democraticità, non si deve temere il richiamo ad un uso consapevole del diritto di azione, in tutti i gradi in cui esso si esercita e quindi anche nelle impugnazioni. La sentenza in esame contiene un'affermazione al riguardo degna di nota: nella giustizia civile il primo filtro valutativo è affidato alla prudenza del ceto forense, coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

La Corte non richiama la diligenza, che può rimandare all'idea che, per la fattispecie di cui si discute, sia necessario l'elemento soggettivo.

Ma, nel processo l'elemento volontaristico ha scarsa rilevanza, in quanto assorbito nei requisiti di forma contenuto degli atti processuali. Sono comunque gli atti del processo, nel loro contenuto, a disvelare una condotta difensiva che deve essere sanzionata attraverso l'applicazione dell'art. 96 comma 3 c.p.c., come del resto accaduto nella fattispecie presa in esame ed in quelle dalla stessa richiamate.

Continuo quindi a ritenere che, volendo valorizzare gli strumenti offerti dal sistema per sanzionare l'abusivo utilizzo del processo, sia preferibile enfatizzare quegli elementi che consentano di dire che saremmo di fronte ad una fattispecie autonoma dalla lite temeraria, per la quale quindi non è richiesto quel requisito soggettivo, particolarmente qualificato della mala fede o della colpa grave, come affermato nella sentenza in commento. Così, infatti, si potrebbe interpretare l'espressione «in ogni caso», con la quale si apre la norma, diversamente da quanto propone sul piano ermeneutico la Corte Costituzionale, e collegarlo al provvedimento sulle spese. In questa lettura proposta tempo fa, suggerii addirittura di forzare la norma per ritenere che il richiamo potesse valere anche per i due criteri derogatori contenuti nell'art. 92 alla regola della soccombenza.

Del resto già allora proponevo di svincolare la stessa fattispecie della lite temeraria dalla stretta necessità del requisito della soccombenza, per farne davvero uno strumento di razionalizzazione, economizzazione, moralizzazione delle istanze processuali. Ho, infatti, ritenuto non necessario, per legittimare la condanna per lite temeraria, la soccombenza totale, osservando come sarebbe iniquo per un processo che aspiri davvero ad essere giusto, non sanzionare l'illecito processuale solo perché chi lo ha compiuto è poi risultato, anche se solo parzialmente, vincitore nel merito.

Inoltre, avendo attribuito alla responsabilità ex art. 96 c.p.c. anche una funzione di deterrenza, nel senso di scoraggiare iniziative processuali emulative o dilatorie, ho sostenuto che non vi fosse ragione per non applicare la norma anche in caso di soccombenza parziale o reciproca. Ciò altresì in considerazione del fatto che essa, tra l'altro, evidenzia ex post come, per le parti, vi sarebbe stato spazio per trovare un accomodamento dei loro interessi, che avrebbe potuto tener conto delle ragioni di entrambe.

Con questa tesi interpretativa, forse azzardata, volevo contribuire a promuovere quella cultura giuridica il cui affermarsi dovrebbe portare a riservare al processo solo quei conflitti che non riescono a sfociare in altro genere di composizione della lite.

La giurisprudenza, peraltro, continua ad essere di contrario avviso; per Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2016, n. 7409, non si può, infatti, applicare la fattispecie della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c quando non sussiste il requisito della totale soccombenza, per essersi verificata soccombenza reciproca. Nello stesso senso si è espressa Cass. civ., sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24158.

Ma forse i tempi oggi sono più maturi per una maggiore assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori del processo.

Guida all'approfondimento

C. Asprella, L'art. 96, 3° c.p.c tra danni punitivi e funzione indennitaria, in Corr. giur. 2016

R. Breda, La Corte Costituzionale salva l'art. 96, comma 3°, c.p.c., e ne riconosce la natura di misura essenzialmente sanzionatoria con finalità deflattiva, in Danno e resp. 2017

A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018, 249 ss.

M. F. Ghirga, Abuso del processo e sanzioni, Milano 2012;

M. F. Ghirga, «Sulla ragionevolezza» dell'art. 96, comma 3°, c.p.c., in Riv. dir. proc. 2017, 501 ss.

M. F. Ghirga, Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo, in Riv dir. proc. 2015, 445 ss.

G. Fiengo, La responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, 3° comma, c.p.c., in Corr. giur. 2016

M. Lupano, Responsabilità per le spese e condotta delle parti, Torino 2013, 189 ss.

R. Russo, L'interpretazione salvifica dell'art. 96, 3° c.p.c., in Judicium;

G. Vanacore, Condanna del soccombente al pagamento della somma equitativa: bilancio a quasi un novennio, in Danno e resp. 2018

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