Mutamento del giudice dibattimentale ed esame delle persone già sentite dinanzi al giudice sostituito

Maria Lucia Di Bitonto
20 Gennaio 2020

Le Sezioni unite (Cass., Sez. un., 30 maggio 2019, Bajrami Klevis, in C.E.D. Cass., n. 266754) hanno affermato che il giudice del dibattimento succeduto ad altro, dinanzi al quale sono state assunte le prove, dispone del potere di non accogliere la richiesta di escussione orale delle persone già esaminate davanti all'altro organo giudicante successivamente sostituito.
Un caso di inosservanza della legge processuale?

Le Sezioni unite (Cass., Sez. un., 30 maggio 2019, Bajrami Klevis, in C.E.D. Cass., n. 266754) hanno affermato che il giudice del dibattimento succeduto ad altro, dinanzi al quale sono state assunte le prove, dispone del potere di non accogliere la richiesta di escussione orale delle persone già esaminate davanti all'altro organo giudicante successivamente sostituito.

Che tale pronuncia non sia corretta discende dal tenore letterale delle previsioni normative, oltre che da considerazioni di ordine sistematico (1).

La costituzionalizzazione delle regole sul contraddittorio nella formazione della prova porta con sé la necessità dell'assunzione orale della prova medesima davanti al giudice che si pronuncia sul merito dell'imputazione (2). Perciò, da un lato, l'art. 525, comma 2, c.p.p. è perentorio nello stabilire la necessaria identità fra giudice che si pronuncia sul merito della regiudicanda e giudice dinanzi al quale è stata assunta la prova; dall'altro, l'art. 190-bis c.p.p. è sufficientemente preciso nel delineare i casi eccezionali – e dunque insuscettibili di applicazione analogica – in cui è possibile non procedere alla escussione orale della prova dichiarativa e avvalersi della deposizione resa in precedenza, attraverso l'utilizzo del verbale in cui la stessa risulta riprodotta. E, fra questi casi eccezionali, non è certo ricompreso quello in cui la prova risulti essere stata già assunta davanti al giudice del dibattimento originario, successivamente sostituito a causa dell'avvicendamento di magistrati diversi nello svolgimento delle funzioni di giudice dibattimentale in un determinato processo.

Insomma, nel caso di assunzione della prova davanti a giudice persona fisica cui poi è subentrato un altro, nessuna norma consente a quest'ultimo di negare alla parte che ne faccia richiesta di esaminare una persona chiamata a deporre sui fatti oggetto del processo, anche se essa abbia già in precedenza deposto davanti al precedente organo giudicante. Al nuovo giudice, infatti, non è consentito di ritenere manifestamente superflua la nuova escussione del dichiarante dinanzi a sé, sol perché la deposizione resa da quella stessa persona davanti al diverso giudice risulta già agli atti, essendo stata verbalizzata e, in ragione di ciò, è legittimamente utilizzabile (P. BRONZO, Il fascicolo per il dibattimento (poteri delle parti e ruolo del giudice, Cedam, 2017, 302).

Come noto, il processo penale «costituisce un universo epistemologico separato e autoreferenziale (habent sua sidera lites) rispetto ad ogni altro procedimento conoscitivo» (G. GIOSTRA, Prima lezione sulla giustizia penale, Laterza, 2019, 10), governato dalle regole codificate e nessuna di esse consente che evenienze accidentali – come il trasferimento di un magistrato ad altra sede o ufficio, o come la sua impossibilità a svolgere le proprie funzioni determinata da gravi ragioni di salute – possano avere la meglio sul diritto delle parti a che il proprio giudice, investito del giudizio sul merito dell'imputazione, assista alla formazione delle prove sulla cui base decidere.

Del resto, non fosse così, non ci sarebbe stato alcun bisogno che la Corte costituzionale invitasse il Parlamento a introdurre per via legislativa «ragionevoli eccezioni al principio dell'identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide» (Corte cost., 29 maggio 2019, n. 132, considerato in diritto, § 3.2.).

Un tale – discutibilissimo (3) – autorevole suggerimento, infatti, pare la migliore e inconfutabile attestazione del fatto che la soluzione esegetica elaborata dal Supremo Collegio non compaia nel ventaglio di soluzioni interpretative consentite dal diritto vigente.

Giudici nuovo legislatore: un problema politico-costituzionale

Siamo di fronte, quindi, all'ennesimo caso di “costruzione” della regola processuale da parte della giurisprudenza.

La creazione da parte della giurisprudenza della regola processuale rappresenta un evento censurabile, perché la predeterminazione legale della procedura rappresenta il fondamento stesso della legittimità dell'esercizio della funzione giurisdizionale (art. 111, comma 1, Cost.) (4).

L'indissolubile nesso che lega la giustizia penale al principio di legalità trova la sua ragion d'essere in un'aspirazione garantista, implicita alla salvaguardia della libertà. Quando si tratti di incidere sulla libertà della persona, l'unica fonte abilitata ad intervenire è la legge, perché si tratta di un atto normativo espressione della volontà popolare che, in quanto tale, dovrebbe assicurare la libertà individuale contro il rischio di abusi da parte dell'esecutivo, del potere giudiziario e dello stesso legislatore (così, T. PADOVANI, Diritto penale, XI ed., 2017, 18).

Com'è stato impeccabilmente osservato, la legalità penale (nullum crimen sine lege) riguarda non solo i profili sostanziali ma anche quelli processuali del punire (sulla legalità processuale v., esaurientemente, D. NEGRI, Splendori e miserie della legalità processuale, in AA.VV., Legge e potere nel processo penale. Pensando a Massimo Nobili, Cedam, 2017, 43 ss.), poiché la tutela della libertà individuale esige certezze legali in ordine alla norma incriminatrice (tassatività, determinatezza, irretroattività in malam partem) e alle regole processuali, che costituiscono il principale «vettore di quel giudizio finale la cui conseguenza è l'alternativa tra la libertà e la pena» (D. NEGRI, op. ult. cit., 58).

Nel nostro Paese, l'equilibrio fra i poteri dello Stato poggia proprio sull'esclusione della magistratura dal circuito democratico e sulla sua attitudine a inverare nelle sue decisioni il complesso di regole e valori espressi dall'ordinamento giuridico (A. NAPPI, Interpretazione della legge e potere del giudice, in Cass. pen., 2004, 421). In tale quadro la legge processuale e l'ossequio ad essa da parte del giudice fondano il perno che regge l'intero sistema.

Caratteristica peculiare delle regole di procedura penale, infatti, è quella di comporre in ciascuna previsione molteplici interessi e finalità in contrapposizione fra loro, individuando così l'unico punto di equilibrio politicamente accettabile tra individuo e autorità nella elaborazione dei diversi valori in gioco. Sostituire la regola codificata dal legislatore con altra formata dalla giurisprudenza, non solo, finisce per escludere dal circuito democratico la composizione di interessi implicita nella regola processuale; ma, quel che è più grave, comporta che scelte di enorme rilievo politico, quali sono quelle riguardanti la relazione fra chi esercita il potere nel procedimento penale e chi è ad esso assoggettato, risultino affidate agli stessi funzionari pubblici titolari del potere. Si consente, in altre parole, che le regole deputate a delimitare i confini di un potere siano stabilite dagli stessi soggetti titolari di quel potere: ma ciò è non è compatibile con la democrazia.

A ciò occorre aggiungere un altro dato preoccupante. La rielaborazione di regole e istituti processuali da parte della giurisprudenza è per lo più mossa da una logica “di risultato” (nel senso che «giudice di scopo e giudice-legislatore sono, a ben vedere, un solo personaggio» P. FERRUA, Le sentenze ‘Taricco': brevi riflessioni sui giudici legislatori, in Cass. pen., 2018, 1846), volta a favorire la massima espansione dell'intervento punitivo attraverso discutibili interpretazioni in dispregio delle garanzie difensive, ispirate a flessibilità ed efficienza. In effetti, le emergenze criminali di vario tipo accreditano e diffondono una concezione del processo penale e degli istituti della procedura penale quali strumenti di repressione e prevenzione, cui si accompagna l'idea – tipicamente autoritaria e per questo molto diffusa in epoca fascista (E. FERRI, Sociologia criminale, V ed., Utet, 1930, 305 s.) – che la magistratura debba svolgere funzioni di difesa sociale, analoghe a quelle della polizia. La concezione del processo come meccanismo di difesa sociale e come strumento di lotta contro qualcuno o qualcosa è ricorrente nella giurisprudenza e si è sempre manifestata attraverso la tendenza dei giudici a disattendere le regole garantistiche (A. GIULIANI - N. PICARDI, Professionalità e responsabilità del giudice, in Riv. dir. proc., 1987, 293).

Tale idea della magistratura è in contrasto con il sistema di pesi e contrappesi delle democrazie costituzionali. L'abissale distanza fra legislativo e giudiziario sta tutta nell'estraneità dell'attività del giudice alla logica del risultato, che invece orienta e deve orientare l'attività degli altri poteri dello Stato. Tale diversità radica il fondamento politico-costituzionale degli assetti istituzionali degli organi giurisdizionali, quali soggetti politicamente irresponsabili, selezionati secondo modalità burocratico-amministrative, garantiti dalla più assoluta autonomia e indipendenza, assicurate dal Consiglio Superiore della Magistratura, cui spettano, «secondo le norme di ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (art. 105 Cost.). Inoltre, la soggezione del giudice alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), in un sistema di giudici reclutati per concorso e politicamente irresponsabili, esprime il primato democratico della legislazione (P. FERRUA, L'inammissibilità del ricorso: a proposito dei rapporti tra diritto ‘vigente' e ‘vivente', in Cass. pen., 2017, 3008) e, soprattutto in ambito processuale penale, è garanzia insopprimibile, perché i procedimenti giudiziari destinati a consentire l'irrogazione delle sanzioni criminali implicano, di per sé, «l'esercizio di poteri [talmente] aggressivi dell'uomo sull'uomo», che possono trovare «giustificazione solo a patto di rispettare regole predeterminate» dalla legge (D. NEGRI, Splendori e miserie, cit., 54 s.).

In tale quadro, non c'è spazio per qualsivoglia giustificazione razionale e normativa della funzione preventiva dei giudici, e dunque del loro assoggettamento alla logica di “risultato”. Anzi: l'attribuzione ai giudici di funzioni di contrasto alla criminalità trasforma finalità ed obiettivi dell'indagine penale ordinaria, in maniera tale da provocare quella che è stata definita «la valenza bellica del processo», vale a dire la possibilità per i pubblici poteri di usare gli strumenti dell'indagine penale quale duttile ed efficace sistema di diritto penale del nemico, nel quale le sfere giuridiche altrui risultano esposte ad intrusioni e limitazioni altrimenti impensabili (M. DONINI, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, in R. E. Kostoris – R. Orlandi (a cura di), Contrasto al terrorismo interno e internazionale, Giappichelli, 2006, 65). E anche questo è inaccettabile (sulla deriva culturale e politica, che tende a trasformare il processo penale da strumento di garanzia a mezzo di contrasto alla criminalità v. G. SPANGHER, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Giappichelli, 2015, 9 ss.).

La necessaria identità fra giudice che assume la prova e quello che pronuncia sentenza

Che alla deliberazione debba procedere il giudice dinanzi al quale sono state assunte le prove costituisce un'ovvietà: su chi altri potrebbe mai gravare il dovere di pronunciare la sentenza se non sul giudice che, super partes, ha presenziato e propiziato tutte le attività conoscitive prodromiche alla decisione?

Per capire il senso di tale regola torna utile richiamare alcuni concetti cardine, più precisamente quei postulati risalenti e pacifici, mai messi in discussione perché costituivi dello stesso “in sé” del processo penale.

Il dramma che si inscena davanti al giudice per stabilire se una persona vada punita oppure no è percorso da un sofisticato congegno conoscitivo. Il giudice per decidere deve conoscere e per conoscere è vincolato dalla legge a seguire il metodo che garantisce la maggiore approssimazione alla verità dell'accertamento giurisdizionale (5). Tuttavia, implicita all'idea stessa di processo penale è l'esigenza che con la qualità della conoscenza sia garantita la piena salvaguardia dei diritti di difesa (6). Anzi, condizione stessa della qualità delle conoscenze di cui si avvale il giudice penale è che esse risultino costruite con la costante osservanza delle regole poste a salvaguardia del diritto di difesa.

Tale idea di processo è davvero universale, se solo si pone mente a talune significative “assonanze” che è dato riscontrare sul piano lessicale. La parola inglese hearing significa sia udienza che udito; allo stesso modo, la parola udienza, derivando dal latino audientia, mutua il suo significato dal participio presente del verbo audio, che significa – per l'appunto – ascoltare; infine, la parola oralità, con sui si esprime la necessaria assenza di intermediazione alcuna fra la prova che si forma e il giudice dinanzi al quale essa è costruita con il contributo determinante delle parti, deriva dalla parola latina os, oris, che significa bocca.

La reiterata ricorrenza semantica di “bocca” e “orecchie” nelle parole con cui lingue e culture diverse parlano di processo pare attestare inequivocabilmente che implicito a ogni giudizio ci sia il previo ascolto della narrazione di fatti da parte di chi li ha percepiti e che sulla base di tali risultanze il giudice pronunci la sua decisione.

Tale regola elementare rappresenta il precipitato di un'esperienza plurisecolare, alla cui stregua giudice penale deve dar fondo a tutte le risorse gnoseologiche offerte dalla deposizione di una persona; perciò è necessario che egli approfitti degli utilissimi indici di attendibilità della deposizione derivanti dai suoi tratti paralinguistici (espressione del volto, tono della voce, prontezza della risposta e padronanza della risposta, orientamento dello sguardo, etc.); ma ciò può accadere solo se il giudice medesimo è presente e partecipa all'assunzione della persona esaminata.

Anche nel codice di procedura penale del 1930 l'art. 472 cpv. stabiliva che «la sentenza è deliberata dagli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento» e, nonostante mancasse un'espressa previsione di nullità, la giurisprudenza dell'epoca riteneva integrata una nullità assoluta in caso di sentenza pronunciata da giudice diverso da quello che aveva preso parte al dibattimento, in ragione del vizio di capacità del giudice configurabile in capo all'organo che avesse pronunciato la sentenza senza prima aver partecipato al dibattimento (per tutti v. A. NAPPI, Art. 472, in G. CONSO – V. GREVI (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, 1987, 1245).

Che due sistemi processuali così diversi fra di loro – quali sono, senz'ombra di dubbio, quelli disciplinati, rispettivamente, dal codice di procedura penale del 1930 e da quello attualmente in vigore – possano condividere la regola dell'immutabilità del giudice dibattimentale si spiega agevolmente, perché tale precetto rappresenta il cuore della stessa idea di processo, quale contesto formalizzato in cui il giudice conosce per decidere e, proprio al fine di conoscere per decidere, partecipa all'attività di formazione delle conoscenze sulla cui base pronunciare la sentenza.

In effetti, molto tempo prima che le scienze che studiano il cervello umano e gli esperimenti di psicologia sociale provassero in via sperimentale la marcata fallibilità dei processi mnesici, l'insuperabile problematicità della valutazione della prova dichiarativa, imperniata sulla rievocazione dei fatti ricordati dal dichiarante, ha rappresentato per i sistemi processuali penali una contingenza universalmente riconosciuta (7). L'attendibilità di una persona che rende dichiarazioni è questione cruciale e di per sé irresolubile, affrontata da sempre dagli ordinamenti e risolta sul piano eminentemente politico attraverso le regole di procedura (8).

Il contraddittorio nella formazione della prova, consacrato nell'art. 111, comma 4, Cost. e attuato nelle regole di assunzione della prova codificate, rappresenta l'unico espediente normativo per vagliare l'attendibilità di una persona che rende dichiarazioni.

Perciò il giudice che si pronuncia sul merito del processo, vale a dire quello che deve stabilire se l'imputato è colpevole oppure no, deve essere lo stesso che ha visto con i suoi occhi e sentito con le sue orecchie la deposizione resa, in contraddittorio, dalle persone le cui dichiarazioni orienteranno la decisione in un senso o nell'altro.

Del resto, dietro queste forme del procedimento «vi è un crogiolo di scelte epistemologicamente ed assiologicamente orientate – cioè attente all'efficacia del metodo della conoscenza e al rispetto dei valori umani – a loro volta frutto di una metabolizzazione socio-culturale spesso secolare. Quelle forme rappresentano il miglior conato di verità che una società riesce ad esprimere e riflettono il suo modo di intendere il rapporto tra Autorità e Individuo» (Le parole pedissequamente riferite nel testo sono di G. GIOSTRA, Prima lezione, cit., 7).

Il contraddittorio che si realizza nel processo penale, quindi, oltre che il metodo meno fallibile per la ricostruzione dei fatti, costituisce l'espressione di un principio essenzialmente politico, perché ciò che rende accettabile sul piano sociale l'enorme potere esercitato dal giudice penale è che quest'ultimo formuli il suo giudizio tenendo conto delle conoscenze costruite dialetticamente davanti a sé, nell'osservanza delle previsioni di legge sulla cui base deve essere pronunciata la sentenza in esito a giudizio ordinario.

Ineffettività del contraddittorio a fondamento della discutibile presa di posizione delle Sezioni unite

Costituisce un'ovvietà - si è detto - che alla deliberazione debba procedere il giudice penale dinanzi al quale sono state assunte le prove. Tale ovvietà è ora contraddetta dall'affermazione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, che riconoscono al giudice succeduto ad altro nella conduzione del dibattimento il potere di non accogliere la richiesta di escussione orale di una persona, nel caso in cui la stessa risulti essere stata già esaminata davanti all'altro giudice.

Non si può fare a meno di sottolineare, però, che la soluzione esegetica elaborata dalla Corte di Cassazione a Sezione unite trova la propria razionale (e insuperabile) giustificazione nell'inaccettabile status quo che caratterizza l'amministrazione della giustizia penale nel nostro Paese. Da noi non ha davvero mai trovato attuazione il principio del contraddittorio nella formazione della prova, per lo più “sprofondato” sotto il peso delle indagini preliminari, vero centro e baricentro delle procedure giudiziarie del nostro Paese.

Inoltre, lo svolgimento delle udienze dibattimentali non si conforma mai alla stregua della continuità imposta dall'art. 477, comma 1, c.p.p. – che esige di rinviare l'udienza al giorno successivo non festivo nei casi in cui il processo non può essere definito in un'unica udienza. Le udienze di rinvio del dibattimento sono sempre fissate a notevole distanza l'una dall'altra e l'impossibilità di attuare la concentrazione, di fatto, nega ogni effettività all'immediatezza, divenuta così «un mero simulacro». Accade pressoché sempre che il giudice dibattimentale decida sulla base degli esiti cartacei dell'escussione dibattimentale delle prove che ha avuto luogo, il più delle volte, a molto tempo di distanza da quello nel quale viene deliberata la sentenza (G. Lozzi, I principi dell'oralità e del contraddittorio nel processo penale, in AA.VV., Oralità e contraddittorio nei processi di criminalità organizzata, Giuffrè, 1999, 32 s.). Non solo. In considerazione del fatto che spesso e volentieri l'escussione orale della fonte di prova ha luogo a molto tempo di distanza dai fatti, non di rado anche l'escussione dibattimentale si risolve in una “pantomima”, in cui il dichiarante ammette la propria difficoltà a rammentare i fatti, cui la prassi supplisce utilizzando la lettura del verbale di dichiarazioni rese nelle indagini per “rinfrescare” la memoria, sulla base dell'applicazione analogica dell'art. 500, comma 2, c.p.p.

Così stando le cose, si capisce perché mai la Cassazione abbia ritenuto un'inutile formalità assicurare che lo stesso giudice dinanzi al quale è stata acquisita la prova sia pure quello che pronuncia la sentenza conclusiva del dibattimento. Se le conoscenze di cui si avvale il giudice sono quelle lette nel verbale del dibattimento – e non può essere altrimenti perché l'udienza della deliberazione ha luogo a molto tempo di distanza dalle udienze in cui le dichiarazioni dei testimoni o degli altri soggetti sono state acquisite; e se, non di rado, queste ultime sono pure quelle enunciate in dibattimento solo dopo che i fatti da narrare sono stati rievocati mediante la contestazione ex art. 500, comma 2, c.p.p., allora non ha senso invocare l'oralità e l'immediatezza. Se le cose stanno come sono state descritte – e nessuno può negarlo – non c'è ragione per strapparsi le vesti e gridare allo scandalo di fronte alla scelta del giudice di legittimità di trarre le conclusioni più “logiche” da una disfunzione così radicata, diffusa e, a quanto pare, irrimediabile.

In altre parole, il sottinteso della pronuncia delle Sezioni unite pare essere il seguente: posto che nei processi che si celebrano quotidianamente nel nostro Paese i giudici formano il loro convincimento sempre ed esclusivamente sulla base di quanto “imparano” dai verbali, e non sulla base di quanto “percepiscono” in udienza, non c'è ragione perché il giudice che “conosce” attraverso il verbale di udienza debba essere lo stesso che era presente al momento di assunzione della prova: anche quando ricorre tale identità, infatti, il giudice decide sempre sulla base dei contenuti del verbale.

Il Supremo Collegio, però, non pare avvedersi di un fatto. Dopo l'aggiramento per via giudiziaria delle regole che impongono al giudice che si pronuncia sul merito dell'imputazione di aver prima partecipato all'assunzione delle prove sulla cui base viene formulato il giudizio, le disfunzioni che assillano i dibattimenti penali non solo rimarranno le stesse, ma troveranno nel recente arresto l'ennesimo incentivo.

In definitiva, a trent'anni dalla riforma del codice di procedura penale, a vent'anni dalla riforma dell'art. 111 Cost., le Sezioni unite sugellano con la loro decisione sul caso Bejrani Klevis che la diluizione dei giudizi penali in una molteplicità di udienze, per lo più alternate a intervalli temporali assai ampi – in totale dispregio di quanto stabilito nell'art. 477 c.p.p. – non è un'anomalia, non è un male da contrastare a cui porre rimedio, ma piuttosto la regola, anzi la regola fondamentale, quella alla cui attuazione devono adeguarsi gli altri precetti, evidentemente di rango inferiore, quali sono diventati, evidentemente, quelli stabiliti nell'art. 525, comma 2, c.p.p. e, ancor più, quello consacrato nell'art. 111, comma 4, Cost.

Fuor di paradosso, e lasciando da parte ogni ironia, il sovvertimento di sistema e di regole implicato nella pronuncia delle Sezioni unite è preoccupante. E ciò che preoccupa non è tanto la soluzione esegetica – pure criticabile – quanto il background culturale che essa esprime: vale a dire la totale sfiducia nei canoni accusatori e nelle regole codificate; la sostanziale indifferenza non solo verso la necessaria coralità del processo conoscitivo e valutativo il cui esito finale è la sentenza penale, ma anche verso la complessa epistemologia implicata nell'art 525, comma 2, c.p.p.

In conclusione

La pronuncia delle Sezioni unite esprime al più alto livello delle istituzioni giudiziarie un atteggiamento risalente, spesso diffuso tra i giudici di merito, consistente nella tendenziale avversione a ripetere l'assunzione della prova dichiarativa ogniqualvolta, in dibattimento, muti la persona del giudice e manchi il consenso delle parti all'utilizzazione, mediante lettura, delle dichiarazioni formate dinanzi al precedente giudicante (G. SPANGHER, Immutabilità del giudice. La norma non è incostituzionale ma per la Corte va cambiata, in Il penalista, 11 giugno 2019, 1; L. ZILLETTI, La linea del Piave e il duca di Mantova, in Arch. pen., 2019, f. 2).

In effetti, già negli anni novanta del secolo scorso, quando la controriforma inaugurata dalla giurisprudenza costituzionale del 1992 e dalla coeva legislazione d'urgenza seguita alla strage di Capaci (9) sembrava un approdo insuperabile, i giudici di merito provarono a forzare l'esegesi dell'art. 525, comma 2, c.p.p., legittimando il potere di pronunciare sentenza del collegio diversamente composto o del pretore che avessero sostituito i colleghi dinanzi ai quali si era svolta l'istruzione dibattimentale (10). A differenza di ora, però, le Sezioni unite della Corte di cassazione arrestarono tale deriva (Sez. un., 15 gennaio 1999, Iannasso e altro, in Cass. pen., 1999, 1429 ss.). Si stabilì che, in caso di sostituzione del magistrato che ha partecipato alla istruzione dibattimentale, il nuovo giudice dovesse assumere le prove quando le parti ne avessero fatto richiesta, senza poter sostituire la nuova acquisizione dibattimentale della prova con la lettura dei verbali relativi all'acquisizione delle prove avvenuta davanti al precedente organo giudicante. Questi ultimi, legittimamente collocati nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell'art. 480, comma 2, c.p.p., sarebbero restati comunque acquisibili mediante lettura ai sensi dell'art. 511 c.p.p.; ma la lettura si sarebbe potuta esperire solo dopo l'escussione orale della fonte eventualmente richiesta dalla parte (art. 511, commi 2 e 3, c.p.p. : v., P. Bronzo, op. cit., 302).

Non c'è dubbio che la pronuncia a Sezioni unite del 1999 fosse censurabile nella parte in cui aveva attenuato l'effettività della nullità assoluta prevista dall'art. 525, comma 2, c.p.p., rendendola in qualche modo “disponibile” dalle parti e dallo stesso giudice, nella misura in cui consentiva a quest'ultimo di non disporre d'ufficio l'escussione delle prove in mancanza della richiesta di parte. Nondimeno, quella decisione aveva avuto l'enorme merito di individuare un accettabile compromesso in un contesto generale segnato, da un lato, dalla avvenuta trasformazione dell'indagine preliminare in una «gigantesca istruzione sommaria» (L. Pepino, Legalità e diritti di cittadinanza nella democrazia maggioritaria, in Quest. giust., 1999, 282); dall'altro, dall'ennesimo severo trattamento riservato dal giudice delle leggi ai timidi tentativi del legislatore di ripristinare più ampi spazi al contraddittorio (Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361).

Alla pronuncia emessa poco più di venti anni fa, quindi, al di là di alcune incongruenze, va riconosciuto il merito di avere ricordato a tutti che ciò che rende un giudice tale è la sua naturale vocazione ad assumere le prove dinanzi a sé ai fini della decisione.

Abbandonare questa regola elementare significa trattare i processi come mere pratiche amministrative da sbrigare; decisioni routinarie da assumere meccanicamente, documentandosi sulle “carte” raccolte da altro funzionario (11). In altre parole, consentire che più giudici si avvicendino nella conduzione del dibattimento, tanto le prove utilizzabili sono quelle già assunte davanti all'altro giudice poi sostituito, “burocratizza” la funzione giurisdizionale e la spersonalizza.

Diversamente, la funzione giurisdizionale, a differenza di quella di accusa, non può essere impersonale. Il giudice è una persona in carne e ossa che giudica i suoi simili e che, per farlo, si inserisce e partecipa, passo passo, nel sofisticato e complesso iter in cui consiste il processo penale.

Ammettere che il giudice che decide non sia quello che conosce, o meglio, ammettere che il giudice possa “conoscere” avvalendosi delle conoscenze del collega che lo ha proceduto nella conduzione del dibattimento, segna una soluzione di continuità nella nostra tradizione giuridica, verso un futuro in cui la banalizzazione dell'attività del giudice rischia di mettere a rischio la stessa necessità che sia necessario un giudice per conoscere.

Le sconfortanti prospettive appena tratteggiate, però, non devono scoraggiare. Troppe e autorevoli le voci che si sono levate contro l'abbattimento, per via giurisprudenziale, della necessaria identità fra giudice dinanzi al quale sono raccolte le prove e giudice che decide.

Del resto, ben difficilmente può dirsi conclusa la querelle interpretativa concernente il diritto delle parti di esaminare il dichiarante davanti al giudice che deve emettere la sentenza, dopo due sentenze delle Sezioni unite di tenore opposto, pronunciate non solo a distanza di vent'anni, ma anche in relazione a previsioni di legge che non sono state modificate, la cui prima interpretazione in senso maggiormente “garantista”, per di più, aveva trovato conforto costituzionale proprio qualche mese più tardi (l. cost. 23 novembre 1999 n. 2.), con la costituzionalizzazione del “giusto processo”

Pertanto, non resta che... aspettare.

Aspettare che le molteplici incongruenze della soluzione elaborata dalle Sezioni unite nel caso Bajrami Klevis (12) impongano il necessario overruling. E, nell'attesa, segnalare che altri sono i veri “mali” che andrebbero sradicati: da un lato, la celebrazione di dibattimenti a molta distanza di tempo dal fatto oggetto del giudizio (13) a causa di indagini protrattesi troppo a lungo (14); dall'altro, la diluizione dei giudizi penali in una molteplicità di udienze, per lo più alternate a intervalli temporali assai ampi, in totale dispregio di quanto imposto dall'art. 477 c.p.p. (15).

Guida all'approfondimento

(1) F. CORDERO, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 2012, 1004. Per una precisa e ineccepibile interpretazione del diritto vigente v., da ultimo, M. DANIELE, “Ragionevoli deroghe” all'oralità in caso di mutamento del collegio giudicante: l'arduo compito assegnato dalla Corte costituzionale al legislatore, in Giur. cost., 2019, 1551.

(2) P. FERRUA, Oralità e contraddittorio nel quadro delle garanzie costituzionali: giurisprudenza delle Corti europee e fraintendimenti della Corte costituzionale, in AA.VV., Il rito accusatorio a vent'anni dalla grande riforma. Continuità, fratture, nuovi orizzonti, Giuffrè, 2012, 163 s.; M. DANIELE, “Ragionevoli deroghe”, cit., 1553. V. anche D. Negri, Il dibattimento, in A. CAMON – C. CESARI – M. DANIELE – M. L. DI BITONTO – D. NEGRI – P. P. PAULESU, Fondamenti di procedura penale, Cedam, 2019, 536.

(3) In termini critici a Corte cost., 29 maggio 2019, n. 132 v. P. Ferrua, Il sacrificio dell'oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., 2019; O. Mazza, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, ibidem; D. Negri, La Corte costituzionale mira a squilibrare il “giusto processo” sulla giostra dei bilanciamenti, ibidem; G. Spangher, Immutabilità del giudice. La norma non è incostituzionale ma per la Corte va cambiata, in Il penalista, 11 giugno 2019; M. Daniele, “Ragionevoli deroghe”, cit., 1551 ss.; E. Valentini, Dalla Corte costituzionale un invito a ridimensionare il principio di immutabilità del giudice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, 1716 ss.

(4) F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 2012, 1293; O. Mazza, I protagonisti del processo, in AA.VV., Procedura penale, VI ed., Giappichelli, 2018, 64; Id., Tradimenti di un codice, in Arch. pen., 2019, n. 3, 4 ss.; D. Negri, Splendori e miserie della legalità processuale, in AA.VV., Legge e potere nel processo penale. Pensando a Massimo Nobili, Cedam, 2017, 86 s.; M. Daniele, “Ragionevoli deroghe”, cit., 1555.

(5) Nel senso che l'accertamento della verità in funzione della tutela della libertà rappresenta la primaria fonte di legittimazione della giurisdizione penale v. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, III ed., 1996, 19; P. Ferrua, Il giudizio di diritto nel processo penale, in Cass. pen., 2000, 1829, nel senso che «la giustizia senza verità è merum imperium» v. E. Zappalà, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e di ricerca della prova, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell'attuale assetto delle indagini preliminari, Giuffrè, 1995, 53.

(6) Indipendentemente dal modello adottato e dalle opzioni ideologiche sottese nei diversi ordinamenti il dialogo che ha per posta la pena tende sempre ad assumere la forma naturale del contraddittorio v. F. CORDERO, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 1987, 5.

(7) Si veda al riguardo F. CORDERO, op. ult. cit., 961: «una dichiarazione, per quanto il suo autore vi impegni la propria responsabilità, in sé non costituisce una prova del fatto riferito, e qui sta l'aporìa della testimonianza, la quale serve a provare in quanto sia provata».

(8) Sul rilievo essenzialmente politico del contraddittorio v. R. ORLANDI, L'attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in P. Ferrua – F. M. Grifantini – G. Illuminati – R. Orlandi, La prova nel dibattimento penale, IV ed., Giappichelli, 2010, 9.

(9) A. GAITO – E. N. LA ROCCA, Vent'anni di “giusto processo” e trent'anni di “Codice Vassalli”: quel poco che rimane, in Arch. pen., 2019, n. 3, 5 ss.; D. NEGRI, Modelli e concezioni, in A. Camon – C. Cesari – M. Daniele – M. L. Di Bitonto – D. Negri – P. P. Paulesu, Fondamenti di procedura penale, Cedam, 2019, 46 ss.

(10) Trib. di Vibo Valentia, 21 novembre 1995, Pititto, in Cass. pen., 1996, 1994; Pret. Rieti, sez. dist. Poggio Mirteto, 9 maggio 1996, e Pret. Siracusa, sez. dist. Noto, 23 ottobre 1995, Iacono, entrambe in Giur. mer., 1996, 719; Pret. S. Angelo dei Lombardi, sez. dist. Montella, 19 aprile 1996, Falbo, in Foro it., 1997, II, 131; Pret. Roma, 27 febbraio 1997, Nencini, in Cass. pen., 1997, 2882; Pret. Foggia, Sez. dist. Manfredonia, 7 dicembre 1999, ivi, 2000, 1801 ss., con nota critica di C. Riviezzo, Mutamento del giudice e necessità di rinnovare l'esame delle persone già sentite: la ricerca di una soluzione tra garanzia ed efficienza. In argomento v. A. Marandola, Mutamento del giudice dibattimentale e sopravvenuta impossibilità della prova, in Cass. pen., 1994, 1992 ss.; E. Gallucci, Modalità di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in caso di mutamento del giudice, ivi., 1999, 185 ss.

(11) Risalente e inascoltata la denuncia della deprecabile amministrativizzazione della procedura e della burocratizzazione del giudice (v. in questi termini G. Foschini, La visione processuale del diritto, in Tornare alla giurisdizione. Saggi critici, Giuffrè, 1971, 11), vale a dire il rischio che si faccia passare per giurisdizione una funzione sostanzialmente di mera amministrazione, pur se caratterizzata dal lusso di complesse ma esteriori ritualità: in questo senso ancora G. Foschini, Torniamo alla giurisdizione, ibidem, 5.

(12) Per un'esauriente disamina v. G. Galluccio Mezio, Sezioni unite e ideale accusatorio: una relazione in crisi, in Cass. pen., 2020, in corso di stampa.

(13) M. Daniele, “Ragionevoli deroghe”, cit., 1559

(14) Nel senso che si registra una forte insofferenza da parte della giurisprudenza verso la contingentazione dei tempi delle indagini preliminari v. A. Camon, Le indagini preliminari, in A. Camon – C. Cesari – M. Daniele – M. L. Di Bitonto – D. Negri – P. P. Paulesu, Fondamenti di procedura penale, Cedam, 2019, 396 s.

(15) Per un risalente, ma sempre attuale critica alla reiterata e cronica disapplicazione dell'art. 477 c.p.p. v. G. Lozzi, I principi dell'oralità e del contraddittorio nel processo penale, in AA.VV., Oralità e contraddittorio nei processi di criminalità organizzata, Giuffrè, 1999, 32 s.

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