Il “mero” rapporto di parentela è condizione di per sé sufficiente a comprovare il rischio di infiltrazione mafiosa?

Alessandro Balzano
04 Febbraio 2020

La mancata allegazione di specifiche circostanze di fatto da cui desumere l'esistenza di rapporti, legami o cointeressenze economiche con ambienti mafiosi - unitamente alla omessa ponderazione del contenuto di provvedimenti giurisdizionali a carico dei soggetti interessati - inficia il processo valutativo dell'Autorità che ha condotto al provvedimento interdittivo non potendosi quest'ultimo fondarsi su mere tesi “accusatorie” acquisite a valle di una carente istruttoria che non ha (in concreto) accertato la natura dei rapporti economici tra i soggetti che amministrano la società e quelli ritenuti “inquinanti”.

Il caso e l'istruttoria compiuta dall'Ufficio prefettizio. Una società richiedeva l'iscrizione nell'elenco dei fornitori di beni e prestatori di servizi ex D.P.C.M. del 18 aprile 2013 (c.d. White List).

L'ufficio prefettizio, tuttavia, respingeva tale richiesta in quanto da una serie di verifiche effettuate sarebbe risultata una “contiguità/familiarità” tra padre e figlie: il primo, soggetto a cui carico risultavano numerosi precedenti penali sintomatici di una vicinanza ad ambienti mafiosi e le seconde socie ed amministratici della società che aveva richiesto l'iscrizione nella White list.

Tali circostanze - sintomatiche, a detta della Prefettura, dell'esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa nella società richiedente - induceva quest'ultima ad adottare il provvedimento di informazione antimafia interdittiva (ex artt. 84 e 91 d.lgs. 159/11) e, conseguentemente, quello di diniego dell'iscrizione della società nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa.

Le considerazioni del TAR e l'annullamento del provvedimento interdittivo. Il Collegio, con puntuale motivazione, non ha condiviso le conclusioni cui “frettolosamente” è giunto l'Ufficio prefettizio.

Il provvedimento di interdittiva, difatti, si è fondato sull'analisi dei precedenti penali a carico del padre delle due socio-amministratrici e sull'aver ritenuto incriminante un incontro avvenuto (anni prima) tra quest'ultimo e due soggetti legati alla criminalità organizzata.

A giudizio del Collegio è stata del tutto omessa un'analisi che mettesse in rilievo l'esistenza di circostanze di fatto sintomatiche che rendesse “più probabile che non” l'esistenza di una situazione di oggettiva contiguità tra il padre e le due socio-amministratrici della società.

Sul piano più strettamente motivazionale, ciò che l'Ufficio prefettizio non ha valutato è l'esistenza di elementi - gravi, precisi e concordanti - quali anomalie nella gestione della impresa ed il rischio attuale e concreto di una ingerenza di soggetti mafiosi nella impresa gestita dalle due giovani amministratrici.

A giudizio del Collegio, quindi, il mero rapporto di parentela con soggetti conclamatamente legati alla criminalità organizzata non è di per sé sufficiente a comprovare l'esistenza del rischio di condizionamento da parte di organizzazioni criminali tali da influire sulle scelte gestorie ed economiche dei titolari della attività di impresa.

Le conclusioni del Collegio. In definitiva il TAR ha rilevato che è mancata l'allegazione di specifiche circostanze di fatto da cui desumere la esistenza di rapporti, legami o cointeressenze economiche con ambienti mafiosi, unitamente alla omessa ponderazione di provvedimenti giurisdizionali (ad es., una sentenza di assoluzione del GIP a carico del padre) utili ai fini dell'istruttoria.

L'Ufficio prefettizio non ha quindi dato prova di aver effettuato i) né una completa ed esaustiva istruttoria sul concreto - e non astratto - andamento dell'attività sociale né ii) sulla effettiva natura dei rapporti economici e di affari tra i soggetti che amministrano la società ed il soggetto ritenuto “inquinante”.

Né è conseguito l'annullamento del provvedimento impugnato.