Non è incostituzionale il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali femminili

Stefania Stefanelli
05 Febbraio 2020

Il divieto, sanzionato penalmente, di applicare tecniche di PMA a coppie formate da persone del medesimo sesso è incostituzionale per violazione del diritto fondamentale alla genitorialità
Massima

Appartiene primariamente alla valutazione del legislatore e realizza un bilanciamento non irragionevole la scelta di configurare le tecniche di PMA come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile, escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. Non può neppure considerarsi irrazionale e ingiustificata la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato. In questa prospettiva, l'idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale.

Il caso

I tribunali di Pordenone e di Bolzano avevano sollevato – con due distinte ordinanze emesse in due giudizi cautelari identici per il petitum, e quasi interamente sovrapponibili per causa petendi – questione di legittimità costituzionale delle disposizioni della l. 40/2004 che escludono l'accesso alla procreazione medicalmente assistita (eterologa) le coppie formate da due donne (art. 5), e sanzionano penalmente l'applicazione delle tecniche a coppie formate da persone dello stesso sesso (art. 12, commi 2, 9 e 10), riservando la PMA ai casi di sterilità o di infertilità (art. 4). Sospettavano il contrasto con gli artt. 2, 3, 31, comma 2, 32, comma 1, 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Conv. ONU sui diritti delle persone con disabilità.

In entrambe le fattispecie, due donne, unite civilmente, avevano ricevuto il rifiuto delle strutture sanitarie territoriali di applicare su di loro le tecniche di fecondazione eterologa (con donazione di gameti maschili), ed in specie della tecnica comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from PArtner) allo scopo di avere l'una un legame genetico e l'altra un legame biologico – conducendo a termine la gravidanza – con il figlio, nell'esercizio della loro libertà di autodeterminarsi formando una famiglia che comprenda dei figli, da ricondursi agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Ritenendo illegittimo l'interposto rifiuto, avevano avviato un giudizio ex art. 700 c.p.c. perché venisse garantito con provvedimento d'urgenza il loro diritto di accesso alle terapie riproduttive, domandando ai giudici aditi di ordinare alle Aziende sanitarie di consentire loro l'accesso alla PMA, previa proposizione – ove il problema non fosse ritenuto superabile in via interpretativa – di questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni che limitano la PMA «ai casi di sterilità o di infertilità», anche quando si tratti di coppie formate da persone dello stesso sesso, e puniscono con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro chiunque applica tecniche di PMA, tra l'altro, a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 1), prevedendo altresì sanzioni di tipo interdittivo nei confronti del personale medico e delle strutture che vi procedano (commi 9 e 10). Il caso sottoposto al Tribunale di Bolzano si caratterizzava per l'ulteriore condizione obiettiva di infertilità per ragioni patologiche in cui versano le due donne, incapaci l'una di produrre ovociti e l'altra di divenire madre gestazionale senza grave rischio alla propria salute.

La questione

Il divieto, sanzionato penalmente, di applicare tecniche di PMA a coppie formate da persone del medesimo sesso è incostituzionale per violazione del diritto fondamentale alla genitorialità, tutelato dall'art. 2 Cost., in quanto introduce un'irragionevole disparità di trattamento fondata sull'orientamento sessuale e sulle condizioni economiche personali, in violazione dell'art. 3 Cost., confligge con la tutela assicurata alla maternità dall'art. 31, comma 2, Cost., nonché con la protezione della salute, di cui all'art. 32, comma 1, Cost., con la protezione del diritto alla vita privata e familiare e col divieto di discriminazioni fondate sul sesso, di cui agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché con gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo 1, 12, paragrafo 1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, ratificato e reso esecutivo con l. n. 881/1977 (che stabiliscono, rispettivamente, i principi di non discriminazione, parità tra uomo e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale e dei benefici del progresso scientifico)?

Le soluzioni giuridiche

La Corte Costituzionale concorda con i giudici rimettenti nell'escludere che la domanda delle ricorrenti possa essere accolta alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, giacché la l. n. 40/2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche di PMA. Sebbene solo il Tribunale di Bolzano limiti esplicitamente il petitum alle coppie omosessuali femminili, ritiene la Consulta che anche per il Tribunale di Pordenone «le coppie omosessuali maschili siano destinate a restare estranee al panorama decisorio», posto che per loro «la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso una pratica distinta: vale a dire la maternità surrogata (o gestazione per altri)», sanzionata dall'art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, disposizione non inclusa tra quelle sottoposte a scrutinio dall'ordinanza del tribunale friulano.

Dall'accoglimento delle questioni sarebbe derivata, in sostanza, l'estensione della fecondazione eterologa – che l'art. 4 l. n. 40/2004 circoscrive «ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico» – ai casi di “infertilità sociale” o “relazionale”, che la Consulta definisce «fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente alla non complementarità biologica delle loro componenti».

Annotando una delle ordinanze di rimessione avevamo evidenziato che la legislazione italiana sposa l'approccio “patologico”, ammettendo la procreazione medicale unicamente come rimedio, pur se palliativo, all'infertilità o al rischio di trasmissione di patologie genetiche gravi, piuttosto che come tecnica di accesso alla genitorialità alternativa a quella naturale. Ed è la diversità ontologica tra “infertilità fisiologica” della coppia omosessuale femminile e “infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive”, che giustifica, secondo la decisione in commento, la legittimità, ai sensi degli artt. 3 Cost., 8 e 14 CEDU, della disposizione che impone il requisito della differenza di sesso per l'accesso alle tecniche di PMA.

La motivazione non manca di ribadire che le coppie omosessuali sono formazioni sociali ex art. 2 Cost., e che la Costituzione “non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli”, ma sottolinea che “la libertà e volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori … non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti”, i quali incarnano altrettanti interessi costituzionalmente protetti, in particolare “quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli art. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente con ciò, delicati interrogativi di ordine etico”, che la pronuncia non esita a ribadire discutendo di “temi eticamente sensibili”. Sicché “non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato”, condizioni che la Consulta rintraccia nella «famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile».

Affermazione smentita dai più accreditati studi scientifici, come può essere, giuridicamente, l'ascrizione alla primaria valutazione del legislatore ordinario dei ricordati “temi eticamente sensibili”, che proprio in quanto tali attengono al nucleo più intimo dei valori e delle scelte costituzionali: tant'è che proprio per affermare il rango fondamentale delle istanze di tutela della famiglia e dei diritti dei figli, compresi quelli nati fuori del matrimonio, sono stati scritti gli attuali artt. 29 e 30 Cost., sebbene in Assemblea Costituente vi fosse chi la ritenesse “materia da codice civile” (cfr. il dibattito tra Mancini e Rubilli, nella seduta del 6 marzo 1947, 1836 ss. degli Atti).

La stessa motivazione peraltro si contraddice quando sostiene che “non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l'inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto”. Per il ché conclude che non contrasta con l'ordine pubblico, e deve essere trascritto perché possa produrre effetti nell'ordinamento interno, «un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita». Tuttavia, ritiene che via sia «una differenza essenziale tra l'adozione e la PMA. L'adozione presuppone l'esistenza in vita dell'adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo», ed in particolare quella “circoscritta ipotesi di adozione non legittimante”, di cui all'art. 44 ss. l. n. 184/1983 , mira a realizzare «l'interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate», mentre nella PMA «il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni di partenza».

Deve notarsi, al contrario, che il bambino nato all'estero per effetto delle medesime tecniche, che in forza dell'atto di nascita estero trascritto nei registri di stato civile è figlio riconosciuto della coppia di donne, si trova in una condizione tutt'affatto differente dall'altra cui viene relegato quello nato in Italia: l'adozione in casi particolari dipende dall'impulso di chi abbia dato origine alla procreazione col proprio consenso; dall'accertamento giudiziale della realizzazione dell'interesse del minore, e quindi dalla stabilità del legame affettivo di fatto; dal consenso del genitore legale esercente la responsabilità, che sarà di regola la donna che partorito; comporta il cambiamento del cognome del minore; non costituisce legami con la famiglia dell'adottante e dunque neppure diritti successori verso i parenti; è revocabile proprio ai sensi degli art. 44 ss. l. n. 184/1983. Purtroppo, questa differenza era sfuggita anche alla decisione delle S.U. sulla trascrizione dell'atto di nascita da gestazione per altri (Cass. civ., sez. un., 8 maggio 2019, n. 12193 nel momento in cui aveva ritenuto l'interesse superiore del minore bilanciabile ed addirittura recessivo rispetto all'ordine pubblico, e comunque adeguatamente tutelato dall'adozione parentale.

Debole appare anche la motivazione del rigetto della censura fondata sulla discriminazione in funzione della disponibilità di risorse economiche sufficienti ad ottenere, all'estero, quella generazione che in Italia è negata. Se, per un verso, è vero che “in assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all'estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione” e che “diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia”, l'ulteriore vulnus costituzionale ulteriore integrato dalla appena cennata disparità di trattamento tra bambini nati in Italia oppure all'estero, grazie all'applicazione delle più permissive legislazioni straniere, sussiste ed attiene alla prima tutela del best interest del soggetto massimamente debole coinvolto nella vicenda, senza avervi in alcun contribuito. Ancora una volta, in sintesi, doveva risuonare – ed è rimasto inascoltato – il monito dell'Avis consultatif della Corte di Strasburgo nell'Affaire Menneson (Grande Chambre, 19 aprile 2019) secondo cui quando è in gioco il diritto all'identità del nato, da realizzarsi attraverso il riconoscimento del legame di filiazione con il genitore di intenzione, il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati dall'art. 8 della Convenzione si assottiglia, e l'adozione parentale è uno strumento giuridicamente accettabile solo laddove «les modalités prévues par le droit interne garantissent l'effectivité et la célérité de leur mise en œuvre, conformément à l'intérêt supérieur de l'enfant».

Osservazioni

Anche a proposito dell'affermazione per la quale le coppie omosessuali maschili si troverebbero necessariamente in una condizione non assimilabile a quella delle coppie omosessuali femminili, necessitando della pratica della gestazione per altri per accedere alla genitorialità artificiale, mentre quelle femminili si troverebbero esclusivamente nella “non complementarità biologica delle loro componenti”, corre l'obbligo di osservare che può verificarsi il caso in cui, non essendo nessuna delle donne in grado di condurre a termine una gravidanza, necessiti comunque l'accesso alla surrogazione di maternità.

Della compatibilità a Costituzione dell'art. 12, comma 6, l. n. 40/2004 che sanziona penalmente «l'accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà» non era chiamata ad interrogarsi la Consulta né in questa occasione, né nell'altra (Corte cost. n. 272/2017), resa rispetto all'impugnazione ex art. 263 c.c. del riconoscimento operato dalla madre affettiva in una pratica effettuata da coppia eterosessuale, realizzata in India attraverso ovodonazione. Un obiter dictum di questa ultima pronuncia, per il quale «la maternità surrogata (…) offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» ha avuto comunque un ruolo determinante per la decisione circa la non trascrivibilità, in ragione della contrarietà all'ordine pubblico, dell'atto di nascita formato all'estero per il nato attraverso tali tecniche, in difetto continuità genetica col genitore intenzionale. Si tratta, tuttavia, di questione affatto distinta, attenendo alla qualificazione dell'accordo di surrogazione e non alla realizzazione del diritto fondamentale allo status del nato.

Si noti, infine, che le coppie formate da persone dello stesso sesso non si trovano in una condizione di infertilità fisiologica, in quanto la sterilità è per definizione una patologia che potrebbe non affliggere alcuno dei partner, quanto piuttosto di infertilità strutturale, al pari delle donne single, che non per questo sono infertili, sebbene per la Consulta versino anch'esse in condizione di “infertilità fisiologica”. Diversa è la condizione della coppia eterosessuale in età avanzata, che la pronuncia in commento al contrario ritiene assimilabile: essa sì, sarebbe una coppia infertile, ed anzi è proprio l'età la prima causa di difficoltà a procreare. Per tale ragione, non può dirsi “una variabile irrilevante” la presenza, nella coppia omosessuale, di patologie riproduttive ed almeno ove sussistano avrebbe dovuto essere rimosso il requisito della differenza di sesso, proprio in ragione dell'approccio patologico della l. n. 40/2004.

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