Illecito disciplinare dell'avvocato: il “comportamento complessivo dell'incolpato” in caso di pluralità di violazioni

06 Febbraio 2020

Quale rilevanza ha il "comportamento complessivo dell'incolpato" ex art. 21, comma 2, cod. deontologico forense nella determinazione della sanzione in caso di pluralità di violazioni deontologiche? La Corte di Cassazione Civile a Sezioni Unite con sentenza del 30 marzo 2018 n. 8038 ha ritenuto che...

Quale rilevanza ha il "comportamento complessivo dell'incolpato" ex art. 21, comma 2, cod. deontologico forense nella determinazione della sanzione in caso di pluralità di violazioni deontologiche?

La Corte di Cassazione Civile a Sezioni Unite con sentenza del 30 marzo 2018 n. 8038 ha ritenuto che “Il "comportamento complessivo dell'incolpato" contenuto nell'art. 21, comma 2, del nuovo codice deontologico forense, in riferimento alla congruità, nel merito, della sanzione, assume una valenza autonoma tale da prescindere dall'ipotesi relativa ad una pluralità di violazioni poiché, al fine di determinare la sanzione in concreto, non possono non venire in considerazione la gravità dell'infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell'incolpato e il suo comportamento successivo al fatto”.

Nel caso oggetto della sentenza il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Venezia irrogava la sanzione della censura all'avv. B.G., incolpato delle violazioni di cui agli artt. 5, 6, 22, 48 e 60 codice deontologico forense, per aver richiesto al collega avv. D.A., nell'ambito di un procedimento di separazione personale dei coniugi, da essi rispettivamente assistiti, "di fornire l'identità delle persone che avevano riferito alla moglie sull'infedeltà del marito, prospettandogli, in alternativa, la proposizione di una querela da parte del cliente, querela poi dallo stesso redatta e presentata dal cliente che presso il di lui studio eleggeva domicilio".

Il Consiglio Nazionale Forense aveva precisato che la condotta dell'incolpato aveva posto il collega di fronte a due possibilità entrambe da rifiutare: violare il segreto professionale o subire una denuncia. Tale comportamento non poteva in alcun modo trovare giustificazione nel dovere di fedeltà nei confronti del proprio assistito che non può "sconfinare nell'illecito o addirittura, come nello specifico, nella minaccia di un male ingiusto".

Il ricorrente, inoltre, rilevava che in base all'art. 20 del nuovo codice deontologico forense non sarebbe consentito affermare la responsabilità disciplinare se non per violazione di doveri specificatamente previsti dal codice precisando dunque che non poteva applicarsi la sanzione della censura, prevista dall'art. 21 C.D.F.

In ordine al previgente Codice Deontologico le Sezioni Unite Civili della Corte avevano già rilevato che: "non incide sulla legittimità costituzionale delle norme con le quali l'Ordine individua i comportamenti suscettibili di sanzione la mancata specifica individuazione di tutte le ipotizzabili azioni ed omissioni lesive del decoro e della dignità professionali, poichè anche in tema di illeciti disciplinari, stante la stretta affinità delle situazioni, deve valere il principio - più volte affermato in tema di norme penali incriminatrici "a forma libera" - per il quale la predeterminazione e la certezza dell'incolpazione sono validamente affidate a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice (nella specie, quello disciplinare) opera" (Cass., Sez. Unite, 3 maggio 2005, n. 9097).

Il principio di stretta tipicità del diritto, che caratterizza il diritto penale, non è applicabile alla materia disciplinare forense “nell'ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, ma solo l'enunciazione dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza (artt. 5 e 6 Codice Deontologico Forense), ai quali l'avvocato deve improntare la propria attività, fermo restando che anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto costituisce condotta lesiva dell'immagine dell'avvocato ed assume rilievo ai fini disciplinari (Cass., Sez. U, 16 dicembre 2013, n. 27996)” .

Ciò è desumibile anche dalla lettura del combinato disposto della l. n. 247 del 2012 e dal successivo codice deontologico. L'art. 3, comma 3, della citata legge sancisce che le norme disciplinari "per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall'osservanza del principio di tipizzazione della condotta e devono contenere l'espressa indicazione della sanzione applicabile" rende evidente che, anche in via residuale, che abbiano una rilevanza disciplinare anche comportamenti non specificamente previsti dalle norme che però siano lesivi dei doveri fondamentali di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza.

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