Quando la vittima reagisce al bullo
10 Febbraio 2020
Massima
Nell'attesa che si diffondano forme di giustizia riparativa specificamente calibrate sul fenomeno del bullismo, ferma la necessaria condanna tanto dei comportamenti prevaricatori e vessatori quanto di quelli reattivi, la risposta giuridica, nel caso in cui un ragazzo colpisca con un pugno il bullo, non dovrebbe ignorare le condizioni di umiliazione a cui l'adolescente in questione è stato ripetutamente sottoposto. Pertanto in caso di reazione violenta da parte della vittima di bullismo nei confronti del “bullo”, deve essere riconosciuto il concorso di colpa anche se l'aggressione è avvenuta in un momento diverso, soprattutto in assenza di prove in relazione alle modalità con cui le istituzioni, e in particolare la scuola, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo. Il caso
La vicenda giudiziaria oggetto dell'ordinanza ha origine con un diverbio tra due studenti durante il quale uno dei due colpendo l'altro sul viso gli provocava un danno. Sottoposto a procedimento penale il ragazzo veniva ritenuto non meritevole di sanzione in quanto i giudici del Tribunale per i minorenni avevano rilevato la presenza della provocazione essendo stato il giovane aggressore lui stesso precedentemente vittima di numerosi e reiterati atti vessatori. Successivamente, spostata la vicenda in sede civile, i genitori del ragazzo venivano chiamati, in solido con il figlio, a risarcire il danneggiato con un'ingente somma. Il Tribunale adito peraltro accertava il concorso di colpa del danneggiato nel verificarsi dell'evento dannoso e di conseguenza diminuiva notevolmente l'entità del risarcimento. Dichiarava inoltre il difetto di legittimazione passiva dei genitori. La sentenza veniva poi riformata dalla Corte d'Appello che condannava il ragazzo, colpevole di aver scagliato un pugno contro il compagno, a versare una grossa cifra al danneggiato a titolo di risarcimento. La Corte non ravvisava peraltro alcun concorso di colpa in quanto il comportamento offensivo e persecutorio della vittima collocato in una fase temporale diversa da quella della reazione. Venivano inoltre condannati in solido i genitori del ragazzo in quanto responsabili ai sensi dell'art. 2048 c.c. Il ricorso presentato contro tale provvedimento viene parzialmente accolto dall'ordinanza in esame. La questione
Due sono le questioni affrontate dalla Corte. La prima concerne la prova liberatoria, prova che consente ai genitori, responsabili ai sensi dell'art. 2048 c.c del danno cagionato dal fatto illecito del figlio minorenne non emancipato con essi convivente, di liberarsi da tale responsabilità. Ciò com'è noto è possibile quando i due dimostrano “di non aver potuto impedire il fatto”, espressione questa sulla quale si è concentrata la giurisprudenza delineandone nel tempo i confini. La seconda questione, molto attuale, riguarda il fenomeno del bullismo e la sua incidenza su eventuali atti illeciti. Ci si chiede in particolare se l'atto con cui una persona vittima di atti di bullismo reagisce causando un danno vada considerato indipendentemente dalle offese che l'hanno preceduto o se si possa configurare un concorso di colpa tra l'aggressore, vittima del bullismo e la vittima dell'aggressione che si è precedentemente comportato da “bullo”. Le soluzioni giuridiche
Il primo aspetto che la Cassazione affronta è la responsabilità dei genitori del minore che ha causato un danno al compagno. Madre e padre del ragazzo infatti, secondo la Corte, non hanno superato la presunzione di responsabilità che grava su di loro ai sensi dell'art. 2048 c.c., non hanno cioè fornito la c.d. prova liberatoria, prova che è diventata, mercé l'opera interpretativa della giurisprudenza molto rigorosa. Concepita come negativa, “non aver potuto impedire il fatto”, è stata via trasformata in una prova positiva consistente nell'aver impartito al minore un'educazione ed un'istruzione consona alle proprie condizioni sociali e familiari. La prova liberatoria si è pertanto trasformata, come sottolinea autorevole dottrina (Carbone, Famiglia e diritto 6/2013), nella dimostrazione positiva di aver adempiuto ai propri doveri di genitori che impartiscono ai figli una funzionale educazione e una corretta istruzione al fine di evitare la commissione di illeciti. La giurisprudenza più rigorosa arriva addirittura a sostenere che, quando il fatto è particolarmente grave, la mancata e insufficiente educazione o vigilanza sia in re ipsa, deducibile cioè dalle stesse modalità del fatto che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore (Cass. n. 24475/2014). In tali ipotesi ai genitori non basta provare di avere impartito, una buona educazione in maniera proporzionale all'età e alla maturità del minore: gli stessi infatti devono dimostrare una vigilanza più continua e intensa rispetto a quella abitualmente richiesta, cosa invece ritenuta sufficiente in ipotesi di casi meno gravi (Cass. 4481/2001). Mentre l'obbligo di aver impartito una corretta educazione va sempre dimostrato, l'obbligo di vigilanza si attenua chiaramente con il progredire dell'età. In questo senso l'ordinanza in esame, richiamando precedenti giurisprudenziali, sottolinea che non è necessario che il genitore provi la costante ininterrotta presenza fisica accanto al figlio quando per l'educazione impartita, per l'età del giovane e per l'ambiente in cui questi viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l'ambiente extrafamiliare, facendo presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per se' e per i terzi. Diviene così irrilevante il fatto che l'illecito si sia svolto lontano da casa. L'obbligo di vigilanza per madre e padre infatti va correlato all'obbligo di educazione nel senso che i due possono lasciare il figlio libero di muoversi da solo quando sono consapevoli di avergli impartito un'educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini ed alla sua personalità e che quest'ultimo ne abbia "tratto profitto" (Cass. 9556/2009). Nella specie, a detta dei giudici, i genitori del minore danneggiante non hanno fornito la prova di avere reso il proprio figlio capace di dominare i suoi istinti, di fronteggiare le altrui offese e di rispettare gli altri. Anzi, si sottolinea non hanno neppure provato a dimostrare che la loro educazione era stata sufficiente ma hanno al contrario giustificato il comportamento antigiuridico del ragazzo quale reazione agli atti di bullismo che aveva subito. In tal modo madre e padre, secondo i giudici hanno dimostrato di non aver essi stessi compreso “il disvalore della condotta del figlio” e la sua gravità, fornendo indirettamente la prova del difetto di un adeguato insegnamento educativo. Non hanno in altre parole, fornito al minore gli strumenti per ritenere non solo illecito, ma anche non giustificabile un comportamento violento quale quello adottato. Un secondo, rilevante aspetto, su cui si sofferma l'ordinanza della Cassazione è quello del bullismo. Nella specie infatti continue vessazioni e umiliazioni avevano preceduto la reazione del giovane. Il litigio durante il quale viene sferrato il pugno avviene peraltro in un secondo momento, in una fase temporale diversa dagli atti c.d. di bullismo, interrompendo cosi la dipendenza causale; ciò aveva spinto la Corte territoriale a negare rilievo al comportamento ripetutamente provocatorio e offensivo che aveva subito colui che poi è divenuto aggressore. Peraltro, sottolineano i giudici della Cassazione in presenza di un così delicato fenomeno sociale non è sufficiente ragionare giuridicamente in termini di stretta causalità generale, ma è opportuno valutare in termini di equità la causalità individuale, dando cioè rilevanza ai reiterati comportamenti prevaricatori, aggressivi e mortificanti subiti nel tempo dal ragazzo che hanno portato ad una sua aggressione violenta. Questo discorso, si sottolinea nell'ordinanza, vale soprattutto quando ne è vittima un adolescente, la cui “personalità non è ancora definitivamente formata”. Pertanto, sottolinea la Corte, il comportamento dell'aggressore è sicuramente un illecito ma l'ordinamento, non può limitarsi a condannarlo ignorando le provocazioni che l'hanno preceduto. L'organo giudicante dunque non avrebbe dovuto trascurare le condizioni di umiliazione cui il ragazzo era stato sottoposto. Fondamentale è inoltre, a giudizio di chi scrive, l'accenno al comportamento delle istituzioni scolastiche. La Corte precisa in proposito che in assenza di prove in relazione alle modalità con le quali le istituzioni, e in particolare la scuola erano intervenute per arginare il fenomeno del bullismo, mancando anche una condanna pubblica e sociale riguardo al comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte dell'adolescente una reazione razionale, controllata e non emotiva. La Corte di Cassazione a chiare lettere pone dunque parte della responsabilità sulle istituzioni, su tutti coloro che possono e devono diffondere tra i giovani una cultura che li sappia difendere dal bullismo. Sulla base di tali considerazioni i giudici accolgono il motivo di ricorso sostenendo la necessità di considerare nel caso di specie un concorso tra i due ragazzi. Osservazioni
Si sottolinea come la Cassazione non si limiti a definire il caso in esame ma inviti le istituzioni a porre attenzione al fenomeno del bullismo auspicando la diffusione di forme di giustizia riparativa specificamente calibrate. L'intervento dell'ordinamento in un simile contesto viene ritenuto dagli ermellini doveroso, in modo che la vittima di atti di bullismo non venga lasciata sola ad affrontare la situazione. In questo contesto, come evidenziato dall'ordinanza in esame, ruolo centrale viene assegnato dal Legislatore alle istituzioni scolastiche. La l. 71/2017 “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”ha infatti messo la scuola al centro della tutela delle vittime di bullismo. Prescrivendo agli istituti di nominare un referente che si occupi delle segnalazioni inerenti al bullismo e al cyberbullismo, quando questo maturi tra i banchi di scuola. Addirittura la giurisprudenza ha ritenuto che, se gli episodi verificano fuori dalla scuola e sono maturati all'interno della classe, possono dar luogo comunque a una responsabilità dell'istituto (Trib. Roma 6919/2018). |