La madre che ostacola la relazione tra padre e figlio è obbligata a risarcire entrambi
14 Febbraio 2020
Massima
Va accolta la richiesta risarcitoria avanzata dal padre nei confronti della madre quando il Giudice di merito, attraverso un prudente apprezzamento dei fatti, accerta che la relazione affettiva tra padre e figlio è stata gravemente pregiudicata da una condotta alienante della madre, che si rende così responsabile di ledere sia il diritto del figlio alla bigenitorialità che il diritto del padre di poter vivere il proprio ruolo genitoriale. Il caso
Un padre presenta ricorso, ai sensi dell'art. 709-ter c.p.c., al Tribunale di Cosenza chiedendo, previo ammonimento della moglie, che vengano adottati i provvedimenti più idonei a garantire al figlio minore una crescita equilibrata e serena. Chiede, il padre, che lo stesso Tribunale disponga – a modifica di quanto previsto nelle condizioni di separazione dei coniugi – l'affidamento esclusivo del bambino a suo favore e il suo collocamento prevalente presso la casa paterna, regolamentando le modalità di visita tra la madre e il figlio. Reclama, altresì, che la madre venga condannata al risarcimento dei danni subiti da lui e dal figlio per la condotta di alienazione parentale agita per lungo tempo nei suoi confronti. La madre si oppone a queste richieste, domandando la sospensione della responsabilità genitoriale del padre, che il figlio possa intraprendere un percorso terapeutico e che entrambi i genitori vengano sottoposti a consulenza tecnica d'ufficio. Chiede, inoltre, l'affido esclusivo del bambino e che gli incontri tra il padre e il bambino avvengano con modalità protetta. Nello stesso lasso temporale, la madre presenta denuncia nei confronti del padre, accusandolo di condotte abusanti e maltrattanti sul bambino. Alla luce delle indagini penali svolte, seguono provvedimenti di archiviazione a favore del padre. La questione
Una volta appurato dal giudice di merito che l'allontanamento del figlio dal padre, protrattosi nel tempo, sia riconducibile ad una condotta alienante unilateralmente assunta dalla madre, può questa circostanza costituire fonte di risarcimento di danno per il padre? Lo stesso diritto sorge in capo al figlio, facendo così assurgere la bigenitorialità a causa di risarcimento del danno anche per il medesimo che non ne può godere? Le soluzioni giuridiche
Nel caso di specie, una volta appurati una serie di elementi probatori ed esclusa l'ipotesi di condotte abusanti e maltrattanti ad opera del padre sul figlio, il Collegio ritiene che l'allontanamento del bambino dal padre sia riconducibile alla madre che ha unilateralmente deciso di interrompere qualsiasi rapporto tra i due, nonostante l'esito delle indagini penali, mantenendo ferma la sua posizione anche a seguito della terza archiviazione del padre. Il Tribunale verifica che per un periodo di tre anni il bambino è rimasto sotto l'influenza esclusiva della madre e del suo ambiente familiare e che il rapporto del bambino con la madre presenta profili di disfunzionalità che sono stati confermati sia nella consulenza tecnica d'ufficio che dalla responsabile dell'Unità operativa di riabilitazione dell'età evolutiva del servizio dell'ASP incaricato. In particolare, i Giudici osservano che il comportamento della madre preclude l'instaurazione di un rapporto sano tra il padre e il figlio, tanto da arrivare a concludere che le sue capacità genitoriali sono compromesse, non avendo la madre rispettato il “criterio dell'accesso all'altro genitore”. Il Tribunale descrive nel dettaglio diversi elementi significativi dell'inclinazione della donna alla denigrazione del marito e arriva a ritenere che il bambino sia vittima di un forte condizionamento esercitato dalla madre in spregio del padre. Il Tribunale accerta, peraltro, una situazione di carenze di entrambe i genitori, incapaci di gestire il loro conflitto personale con modalità idonee a preservare l'equilibrio psichico del figlio. I giudici ritengono, quindi, necessario disporre l'affidamento del bambino ai Servizi sociali, non essendovi figure altre a lui affettivamente vicine che godano della fiducia di entrambi i genitori e che siano in grado di assumere la responsabilità dell'affidamento e di svolgerne i compiti mantenendo una posizione equidistante rispetto a loro. Considerata la durata dell'emarginazione della figura paterna protrattasi per tre anni, delle presumibili sofferenze patite sia dal padre, per il distacco fisico ed emotivo dal figlio, che dal bambino, privato dell'apporto del genitore rispetto alla sua crescita, educazione e formazione, i giudici reputano giusto indennizzare il pregiudizio patito da ciascuno dei soggetti interessati. Osservazioni
Il compito dei giudici, in sede di giudizio di merito, non è quello di stabilire se si è in presenza di una vera e propria patologia o disfunzione, inquadrabile o meno come Sindrome da alienazione parentale (per brevità, pas). Essi sono chiamati, semmai, a verificare se il distacco del bambino dal padre affondi le proprie radici in condizionamenti esercitati dal genitore collocatario, ovvero in altri fattori. Infatti, se il genitore non affidatario (o collocatario), per ottenere la modifica di affidamento del bambino, denuncia il suo allontanamento morale e materiale, attribuendolo a comportamenti dell'altro genitore, a suo dire espressivi di una “pas”, il giudice di merito è chiamato ad accertare nei fatti la sussistenza di queste condotte, servendosi dei mezzi di prova propri della materia, quali l'ascolto del minore, le presunzioni, oppure, ad esempio, desumendo elementi anche dall'eventuale presenza di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e il genitore collocatario, e motivando, quindi, adeguatamente sulla richiesta. I Giudici, in questa sede, devono tenere conto che - a tutela del diritto del bambino alla bigenitorialità e alla sua crescita equilibrata e serena - tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali del figlio con l'altro genitore, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa su quest'ultimo. Nel caso di specie, una volta escluse delle condotte abusanti e/o maltrattanti del padre verso il figlio, il Tribunale ritiene che l'allontanamento dei due sia riconducibile alla madre che ha deciso unilateralmente di interrompere qualsiasi rapporto tra il padre e il figlio, nonostante l'esito delle indagini penali, sfociate in ben tre provvedimenti di archiviazione a favore del padre. In questo periodo, durato tre anni, il bambino è rimasto a stretto ed esclusivo contatto con la madre che, peraltro, alla luce della perizia svolta in sede di separazione, ha mostrato di assumere atteggiamenti e comportamenti che connotano una vera e propria ipercura, segnalando una tendenza all'iperprotezione e al mantenimento di una relazione fusionale - potenzialmente nociva al bambino - simile a quella che la lega ai propri genitori e non rispettando il ruolo e le responsabilità della figura paterna. Al Tribunale appare, pertanto, lampante come questo atteggiamento materno possa aver condizionato il rapporto tra il padre e il figlio, anche considerato che i bambini presentano modalità relazionali orientate in senso imitativo e adesivo, con la conseguenza che gli stessi risultano perciò, influenzabili dalle suggestioni che possono essere insite nelle domande e nei comportamenti degli adulti con cui sono in stretto contatto e tendono a riformulare risposte che ne assecondano le richieste, a nocumento del rapporto reale che, come in questo caso, unisce padre e figlio, fino ad arrivare ad una distorsione e alterazione dello stesso. Nel caso di specie, il Tribunale ha riconosciuto e liquidato il danno (non patrimoniale) subito dal padre e dalla figlia in via equitativa. L'art. 2056 c.c. sulla valutazione del danno dovuto al danneggiato rinvia alle disposizioni dell'art. 1226 c.c. che stabilisce, appunto, che la valutazione equitativa del danno da parte del giudice attiene non già alla delimitazione dei danni risarcibili (l'an dell'obbligazione risarcitoria) bensì alla loro liquidazione, ossia alla determinazione della misura del danno (il quantum dell'obbligazione risarcitoria). In fattispecie come questa, il potere del Giudice di liquidare equitativamente il danno è, dunque, subordinato ad un duplice ordine di condizioni: 1) l'esistenza del danno e l'impossibilità per l'attore di provare il danno nel suo preciso ammontare; 2) l'obbligo per il giudice di indicare i criteri utilizzati per procedere alla concreta liquidazione. Premesso ciò, la valutazione equitativa del danno non deve, comunque, colmare le lacune e le inerzie probatorie del danneggiato-attore, dovendo il giudice tenere conto solo degli elementi provati in giudizio o notori, atteso che la valutazione equitativa ha solo la funzione di colmare le lacune insuperabili nel processo di determinazione del danno. Ricordiamo, difatti, che gli ambiti in cui si ricorre alla valutazione equitativa nella quantificazione dei danni sono: il danno non patrimoniale (come nel caso de quo), il danno da lucro cessante e il danno da perdita di chance. Vale la pena, altresì, ricordare che attiene ai criteri applicabili nella valutazione equitativa, i quali possono essere, da un lato, criteri puri, e dall'altro, criteri predeterminati e standardizzati. La Suprema Corte (cfr. Cass. civ. n. 14402/2011) ha statuito che, tra i criteri predeterminati e standardizzati, possono collocarsi le c.d. tabelle di liquidazione del danno elaborate a livello territoriale (tra le quali le tabelle del Tribunale di Milano sono risultate quelle statisticamente e maggiormente testate e le più idonee ad essere assunte quale criterio generale di valutazione: cfr. Cass. civ. 12408/2011) pur tenendo sempre conto delle peculiari circostanze del caso concreto che possono condurre il giudice di merito alla c.d. personalizzazione del danno; invero, nella specifica materia del risarcimento del danno non patrimoniale i criteri devono essere idonei a garantire anche la c.d. personalizzazione del danno (cfr. al riguardo la giurisprudenza di legittimità Cass. civ. sez. un. n. 26972/2008). La funzione dell'equità giudiziale (correttiva o integrativa) deve, del resto, assolvere anche alla fondamentale funzione di garantire la coerenza dell'ordinamento, «assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale», con l'eliminazione delle disparità di trattamento e delle “ingiustizie”, a tale stregua venendo ad assumere il significato di adeguatezza o di proporzione (cfr. Cass. civ., 7 giugno 2011, n. 12408). Dunque, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio nei termini predetti. Tale uniformità è stata individuata nel riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale e al quale la Suprema Corte, con la pronuncia sopra richiamata, ha riconosciuto valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., fatte salve le concrete circostanze del caso concreto idonee a giustificarne il discostamento. Per le ragioni sin qui descritte, si può considerare come i Giudici, in presenza di circostanze assimilabili al caso concreto che oggi qui ci occupa, si rifacciano prevalentemente al criterio della liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale, secondo i parametri qui appena descritti. Pingitore, Nodi e snodi nell'alienazione parentale, FrancoAngeli, 2019; Dogliotti, L'interesse dei figli nella separazione (a proposito di una ricerca interdisciplinare), in Dir. fam. e pers., 1990, 221; Finocchiaro, L'audizione del minore e le Convenzioni de l'Aja del 29 maggio 1993; Longo, Diritti del minore, mediazione familiare e affidamento condiviso, in Fam. e dir., 2003, 87 ss.; Graziosi, Note sul diritto del minore ad essere ascoltato nel processo, in Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 1992, 1281 ss., in particolare p. 1295. |