Insolvenza in prospettiva, crisi, indicatori ed “indici di allerta” tra Legge Fallimentare e nuovo CCII

Marco Terenghi
20 Febbraio 2020

Una delle principali novità sistematiche introdotte dal nuovo Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza è rappresentata dalla definizione della “crisi”, dalla sua differenziazione rispetto all'insolvenza e dalle tecniche previste per consentire la sua emersione tempestiva ed il suo superamento. Obiettivo del presente approfondimento è quello di ripercorrere in prima battuta l'evoluzione delle nozioni di “crisi” ed “insolvenza” dalla Legge Fallimentare al CCII, di analizzarne le reciproche interazioni nella prospettiva adottata dagli interpreti, ed in particolare dalla giurisprudenza, e di soffermarsi infine sul recentissimo contributo del CNDCEC in materia di indicatori ed indici della crisi, da considerarsi un ulteriore tassello sulla strada verso l'approntamento di un sistema destinato a modificare in modo forse irreversibile l'approccio tradizionalmente invalso in materia di crisi aziendale ed insolvenza.
“Insolvenza” e “crisi” nel sistema concorsuale anteriore al CCII

La vigente Legge Fallimentare (art. 5), come noto, non fornisce una vera e propria definizione di “insolvenza”, ma precisa che questa si manifesta con inadempimenti o altri “fatti esteriori”, i quali dimostrano l'incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Per quanto poi concerne la nozione di “crisi”, il R.D. n. 267/1942 non ne offre nemmeno un embrione di carattere definitorio o fenomenologico, limitandosi a stabilire (art. 160, secondo comma) che, ai fini della presentazione del ricorso per concordato preventivo, “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Ciò significa, dunque, che, quantomeno nella prospettiva concordataria, l'insolvenza costituisce una sorta di “sottocategoria” della crisi, identificandosi con la versione più estrema di quest'ultima, tanto che anche l'imprenditore dichiaratamente insolvente può, almeno in astratto, accedere al concordato.

L'elaborazione giurisprudenziale ha portato negli anni al consolidamento di una definizione ormai stabilizzata di insolvenza, riproposta più volte anche di recente in sede di legittimità e di merito (Cass. 10.6.2019, n. 15572; App. Milano Sez. IV 29.10.2019; App. Venezia Sez. I 7.11.2019; App. Catania Sez. I 7.11.2019), che tradizionalmente si esprime nella “situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività”.

Per quanto sintetica, la nozione messa a punto in sede pretoria può ritenersi un accettabile tentativo di compendiare il deficit dell'elemento più propriamente economico-patrimoniale (la natura strutturale) accanto a quello della componente finanziaria (l'inadeguatezza della liquidità), ponendo entrambi sullo sfondo di un'ottica temporale che, da un lato, richiede la loro persistenza in termini non effimeri o comunque temporanei, e, dall'altro, impone all'osservatore di individuare in prospettiva futura la definitività di una situazione così gravemente deteriorata.

Da una simile impostazione di fondo è stato possibile distillare una serie di corollari, diretti a risolvere, nel caso concreto, la predicabilità o meno di una situazione attuale di dissesto, così da orientare l'interprete nella delicata decisione rappresentata dalla declaratoria di fallimento.

  • Per quanto l'insolvenza si manifesti anche attraverso l'inadempimento, i due concetti rimangono nettamente distinti (anche sotto il profilo ontologico: il primo è uno stato, il secondo un fatto), tanto che l'imprenditore può essere ritenuto insolvente pur in assenza di inadempimenti involontari o non irrisori, quando sussistono altri “fatti esteriori” significativi (cfr. Cass. 15.12.2017, n. 30209; Cass. 8.8.2013, n. 19027).
  • La prevalenza in bilancio delle passività sulle attività, ancorché marcata, può non essere reputata idonea a fornire di per se stessa la prova dell'insolvenza, potendo lo sbilancio venire superato dalla prospettiva di un favorevole andamento futuro degli affari, o da eventuali ricapitalizzazioni aziendali (Cass. 20.11.2018, n. 29913; Cass. 1.12.2005, n. 26217).
  • Del tutto specularmente, il debitore può essere dichiarato insolvente anche in presenza di un'eccedenza contabile dell'attivo sul passivo, ogniqualvolta essa derivi dal valore attribuito a cespiti patrimoniali non agevolmente liquidabili, o la cui alienazione risulterebbe incompatibile con la permanenza dell'impresa sul mercato e con il rispetto, da parte sua, delle obbligazioni già contratte ed in prossima scadenza (Cass. 20.11.2018, n. 29913, cit.).
  • L'esistenza di una situazione di insolvenza attuale e destinata a permanere per un lasso di tempo significativo, accertata dal giudice di merito attraverso la ricorrenza di adeguate forme di sua manifestazione, non può venire neutralizzata in sede di dialettica pre-fallimentare attraverso la mera rappresentazione di un suo futuro superamento in chiave prospettica grazie a virtuose iniziative di risanamento poste in essere dal debitore (Cass. 20.11.2018, n. 29913, cit.. Si veda, in senso contrario, il recentissimo decreto del Tribunale di Benevento 18.12.2019, in IlCaso.it 4.1.2020, secondo cui se può giungersi a “dichiarare il fallimento di un imprenditore la cui insolvenza non è ancora attuale, ma verrà a manifestarsi con certezza in un arco temporale comunque ristretto (c.d. insolvenza prospettica), a maggior ragione la stessa valutazione può compiersi a contrario, per escludere l'insolvenza dell'imprenditore che si trovi in uno stato di difficoltà solo temporanea, quando emerga che detto stato è superabile attraverso la ordinaria prosecuzione dell'attività di impresa”). Ciò evoca in qualche modo la nozione di “irreversibilità”, che viene spesso ritenuta immanente nella definizione giurisprudenziale di insolvenza (incentrata com'è sul carattere “strutturale” dell'impotenza del debitore), e che dovrebbe invece rappresentare il naturale contraltare della crisi, fenomeno per definizione reversibile all'esito di procedure giudiziali o negoziali di regolazione, o anche solo di percorsi di risanamento interni puramente tecnico-aziendalistici. Benché, come è stato osservato (S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, IlCaso.it, 14.1.2019, 4), lo stesso ordinamento concorsuale contempli almeno in astratto la possibilità di risanamento (e quindi di reversione) anche in relazione ad imprese dichiarate insolventi (è il caso dell'amministrazione straordinaria delle grandi e grandissime imprese in crisi ex D.Lgs. n. 270/1999 e D.L. n. 347/2003, per le quali si prevede la possibile adozione di un piano di risanamento finalizzato al ritorno in bonis: cfr. art. 27, comma 2., lett. b), D.Lgs. n. 270/1999), è innegabile che la non-reversibilità, quantomeno in tempi ragionevolmente ristretti, dell'incapacità disegnata dall'art. 5 L.fall. costituisca uno dei più significativi punti di emersione dell'insolvenza (G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, in La riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, 32).
  • Per converso, l'apertura della procedura concorsuale si giustifica pur in assenza di inadempimenti già insorti (intesi come fenomeni rivelatori dell'impotenza strutturale richiesta dall'art. 5 l.fall.), ma in presenza di una valutazione prognostica negativa in ordine all'imminente evoluzione delle condizioni economico-finanziarie dell'imprenditore, come può accadere sulla base di ingenti perdite d'esercizio pregresse, di stime negative sull'andamento aziendale in un orizzonte temporale di pochi mesi, di peso dell'indebitamento, di infauste previsioni congiunturali o del settore merceologico di riferimento (Trib. Roma 5.9.2008 nel caso Alitalia; Trib. Torino 14.11.2008, Giur. it. 2009; P.Pajardi-A. Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2013, 57). In sintesi, benché la valutazione circa la capacità dell'imprenditore di fare regolarmente fronte alle proprie obbligazioni si attui necessariamente nel momento in cui va accertata la sussistenza del presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento, i suoi estremi di parametrazione non sono esclusivamente quelli passati e presenti, ma anche futuri, tra cui in particolare l'idoneità dell'impresa, quantomeno nel breve periodo, a continuare ad operare proficuamente sul mercato in modo da acquisire risorse da destinare all'adempimento delle proprie obbligazioni in una cornice di “normalità” (cfr. Cass. 27.2.2001, n. 2830; M. Sandulli, Sub art. 5, Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. Jorio, Bologna, 2006, I, 90).
L'insolvenza prospettica

Quest'ultima considerazione introduce il tema, divenuto via via sempre più centrale nel dibattito degli interpreti, della prospettiva temporale in cui va collocata la ricognizione dell'insolvenza, ed in particolare dell'assoggettabilità al fallimento di un imprenditore che, pur non presentando ancora gli indici esteriori tipici del dissesto (in particolare gli inadempimenti), denoti una situazione economico-finanziaria già rivelatrice, di lì a breve termine, dell'insorgere di un'incapacità strutturale ad onorare regolarmente le proprie obbligazioni.

Le ripetute aperture giurisprudenziali a quest'ultimo orientamento (intercorse già a far tempo dai primi anni 2000, in evidente evoluzione rispetto ad un'impostazione originaria che arrivava talvolta a prevedere quali requisiti inespressi per la dichiarazione di fallimento, oltre al mancato pagamento, la formazione del titolo esecutivo ed il pignoramento infruttuoso) hanno definitivamente modificato i termini del confronto, attribuendo rilevanza privilegiata sia alla visione “in prospettiva” della capacità dell'imprenditore di fare ordinatamente fronte ai propri impegni, sia all'analisi dell'adeguatezza della complessiva organizzazione aziendale, pur nel suo intrinseco dinamismo, a perseguire l'obiettivo di rimanere sul mercato attraverso l'esercizio di un'attività proficua o quantomeno remunerativa (G. Capo, I presupposti del fallimento, in IlFallimento e le altre procedure concorsuali, 1, diretto da Fauceglia-Panzani, Torino, 2009, 65).

Ciò ha consentito alla Corte di Cassazione, anche recentemente, di legittimare la predicabilità dell'insolvenza quando dai dati contabili dell'impresa sia possibile desumere che il debitore non dispone di risorse idonee a fronteggiare in modo regolare le proprie obbligazioni, tenuto conto dei termini di scadenza di queste ultime, nonché della natura e composizione dei beni patrimoniali da cui sia ipotizzabile ricavare quanto necessario per farvi fronte (Cass. 20.11.2018, n. 29913, cit.. Si veda anche già citato Trib. Benevento 18.12.2019, in Il Caso.it, secondo cui “l'indagine sullo stato di insolvenza (…) deve compiersi in una "prospettiva dinamica", volta a valutare le condizioni economiche dell'impresa in un lasso di tempo futuro ancorché contenuto”, così da poter “dichiarare il fallimento di un imprenditore la cui insolvenza non è ancora attuale, ma verrà a manifestarsi con certezza in un arco temporale comunque ristretto (c.d. insolvenza prospettica)”, in quanto “la necessità di una valutazione prospettica dell'insolvenza è insita nella stessa definizione del presupposto ex art. 5, L. Fall., non potendosi altrimenti distinguere la mera difficoltà transitoria dalla incapacità strutturale e permanente”).

Sul tema, come noto, si è recentemente pronunciato il Tribunale fallimentare di Milano, chiamato da un gruppo di obbligazionisti titolari di crediti non ancora scaduti a dichiarare il fallimento di un'importante società di navigazione, ritenuta insolvente dai ricorrenti pur in assenza di inadempimenti o altri “fatti esteriori” classici (carichi tributari/previdenziali, iniziative esecutive o monitorie, passività bancarie) o comunque destinata a diventarlo in una prospettiva temporale inferiore ai dodici mesi (in www.ilFallimentarista.it, 10.10.2019 e 18.10.2019, con nota di S. Sanzo).

Nel rigettare l'istanza, e dopo avere confermato che la procedura fallimentare può originarsi anche da un'insolvenza non ancora esternamente manifesta “in tutta la sua gravità” ma prognosticamente non reversibile, il Tribunale ha focalizzato la propria attenzione sulla “zona grigia” in cui si ritrova l'impresa caratterizzata da una crisi intrinseca allo stato asintomatica, concludendo che quest'ultima, per poter venire classificata come “insolvenza prospettica”, deve associarsi ad un orizzonte temporale estremamente contenuto, poiché quanto più la prognosi è distante nel tempo, tanto più aumentano le variabili nuove ed imprevedibili che possono interagire nel funzionamento del meccanismo aziendale, condizionandone l'esito. In quest'ottica, ha aggiunto il provvedimento, l'utilizzo della “insolvenza in prospettiva” quale equipollente dell'elemento oggettivo per la dichiarazione di fallimento va attuato con prudenza, soprattutto laddove lo scenario di sua futura consumazione non si ponga propriamente nel breve termine (dieci-dodici mesi, nel caso di specie).

Ciò, a maggior ragione, se si considera (e qui subentra la valenza innovativa della decisione) che una creazione di matrice interpretativa come l'insolvenza prospettica è stata recepita nel nuovo CCII sottoforma dello “stato di crisi” di cui agli artt. 2, comma 1., lett. b) e 13, vale a dire di una condizione ontologicamente diversa dall'insolvenza e tale da originare non certo una procedura concorsuale liquidatoria, bensì l'attivazione di una complessa procedura di allerta espressamente finalizzata alla prevenzione del dissesto. Con l'entrata in vigore del CCII ormai alle porte, in definitiva, non può non apparire incongruo concepire un esito fallimentare potenzialmente indiscriminato in relazione a tutti quei debitori che, in prospettiva semestrale o poco più, potrebbero non ritrovarsi in grado di far fronte alle obbligazioni in scadenza e sarebbero classificabili come “in crisi” sulla base del nuovo testo unico.

Insolvenza e crisi nel CCII

Nel testo del nuovo CCII (art. 2, comma 1, lett. b), la definizione dello stato di insolvenza riprende in modo pressoché testuale quella contenuta nel vigente art. 5 L.fall., riaffermando così il principio per cui non è insolvente l'imprenditore che sia in grado di adempiere alle proprie obbligazioni alla scadenza, integralmente ed attraverso mezzi ordinari di pagamento. L'espressa riproposizione degli inadempimenti quale possibile forma di manifestazione dell'insolvenza si correla alla distinta figura dei “ritardi qualificati nei pagamenti”, prevista dall'art. 13, comma 1, come uno degli indicatori della crisi: considerato che anche la mora nel pagamento nasce come inadempimento, successivamente sanato, la distinzione sembra riecheggiare il concetto di reversibilità esaminato in precedenza, ricollegando all'insolvenza il mancato pagamento ormai definitivo o irreversibile, e connettendo invece alla crisi quello “reversibile”, ossia eseguito in ritardo ma pur sempre entro un limite di tempo accettabile e comunque normativamente definito, posto che l'art. 13 richiama espressamente i termini del successivo art. 24 (debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni e debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni).

Una delle novità contenute nel CCII, invece, è la definizione della crisi, sintetizzabile come “probabilità di futura insolvenza” e come tale concettualmente distinta dall'insolvenza stessa, in evidente discontinuità logica rispetto al vigente art. 160, secondo comma, L.fall., che fa invece dell'insolvenza una sottoinsieme della crisi, e quindi una species del medesimo genus.

Definita come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (espressione, peraltro, già in predicato di venire modificata con la sostituzione del termine “difficoltà” con quello di “squilibrio”, in base al recentissimo schema di decreto correttivo destinato ad essere discusso a breve in Consiglio dei Ministri ed approvato entro la primavera di quest'anno), nello scenario delineato dal CCII la crisi non costituisce solo il presupposto per l'accesso alle varie procedure di sua regolazione, ma rappresenta il trigger event che fa scattare gli obblighi interni di segnalazione previsti dall'art. 14, e che in sintesi sta alla base del nuovo meccanismo dell'allerta.

Benché, a prima vista, la declinazione della crisi sotto il profilo prevalentemente finanziario prescelto dall'art. 2 CCII appaia forse riduttiva rispetto a situazioni di natura strutturale che potrebbero comunque rientrare nell'ottica della sua prevenzione (in tal senso P. Bosticco, Il nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza: disposizioni generali e definizioni, in questo Portale, 8.7.2019; si veda anche R. Ranalli, I piani d'impresa nel governo societario e nella composizione della crisi tra il regime attuale e la riforma, in Fallimento, 2018, 1051, secondo cui l'origine di una crisi è sempre industriale prima che finanziaria), va considerato che, da un lato, la Relazione illustrativa riconnette finalità meramente esplicative o di sintesi alla definizione, mentre dall'altro quest'ultima risulta coerente con il principio espresso dalla legge-delega, volto ad introdurre una nozione di crisi modulata proprio sulla falsariga di “probabilità di futura insolvenza”. Inoltre, sono le stesse norme dedicate all'allerta ad evidenziare come la rilevazione della crisi, in concreto ed al di là del sintetico abstract normativo, passi necessariamente attraverso valutazioni di natura patrimoniale e patrimoniale, oltreché finanziaria, dal momento che l'art. 13, comma 1, fa riferimento sia alla continuità aziendale (e quindi anche all'evoluzione del patrimonio netto), sia all'adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi, mentre alcuni degli indici elaborati dal CNDCEC in forza delle delega di cui al comma 2 attengono, come si vedrà nel prosieguo, proprio all'aspetto strutturale dell'impresa. In definitiva, il modello di crisi proposto dal CCII guarda a tale fenomeno sia nell'ottica di un disallineamento tra flussi di cassa e pagamenti da eseguire, sia nella prospettiva di valutare predittivamente uno sbilancio in termini negativi tra crediti e debiti.

Dall'insolvenza prospettica alla crisi

In realtà, lo sforzo normativo sotteso alla riforma organica del settore concorsuale non poteva esimersi da una tipizzazione ex lege della “crisi”, proprio alla luce della necessità di favorire una tempestiva emersione di quest'ultima; ciò, a maggior ragione, tenuto conto della prescrizione contenuta nella legge-delega del 2017, dove espressamente la si ricollega, come osservato, alla nozione di “probabilità di futura insolvenza”. Detto questo, è stato notato come la configurazione della “crisi tipica”, in seno al CCII, evochi una situazione molto prossima, se non addirittura coincidente, con l'insolvenza “prospettica” di cui si è parlato in precedenza, posto che quest'ultima, per come declinata tra gli interpreti, si risolve nell'insufficienza dei flussi finanziari previsti a garantire l'adempimento delle obbligazioni in scadenza, sulla falsariga della “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” di cui all'art. 2 (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCII alla resilienza della twilight zone, Il Fallimento, 2019, 293; G. Terranova, Insolvenza, stato di crisi, sovraindebitamento, Torino, 2013, 75; Trib. Milano 22.10.2019, cit., anche in IlCaso.it con commento di R. Della Santina, Crisi d'impresa e insolvenza prospettica dell'imprenditore: questioni ancora aperte nell'imminenza dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 14/2019).

Ora, che la crisi tipizzata dal CCII presenti dei contenuti assimilabili a quelli dell'insolvenza prospettica sembra difficilmente contestabile. Certo, la sovrapposizione dei due concetti potrebbe forse venire evitata dilatando l'intervallo temporale esistente tra l'attuale rilevazione dell'incapienza economico-finanziaria in itinere ed il futuro manifestarsi di quest'ultima: intervallo che nel caso dell'insolvenza in prospettiva si presenta più ridotto, conferendo maggiore immediatezza al verificarsi del fenomeno, mentre in quello della crisi assume dimensioni più estese, proprio in ragione della dimensione probabilistica in cui si pone il deflagrare dello squilibrio nel dissesto vero e proprio.

Tuttavia, nel ricomprendere tra gli indicatori della crisi i “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi” modellati sulla base dell'art. 24 (mora di oltre sessanta giorni nel pagamento delle retribuzioni e di oltre centoventi giorni nel saldo dei fornitori), l'art. 13 da un lato valorizza una circostanza che attualmente riveste un sicuro valore sintomatico dello stato d'insolvenza, in tema di revocatoria fallimentare (Rossi, Dalla crisi tipica, cit., 293; S. Leuzzi, Indicizzazione della crisi d'impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, in IlCaso.it, 28.10.2019). Dall'altro, l'orizzonte temporale di sei mesi previsto dall'art. 13 comma 1 per valutare la sostenibilità dei debiti a scadere risulta significativamente più breve rispetto a quello di dodici mesi normalmente utilizzato in ambito aziendalistico al fine di accertare la sussistenza della continuità aziendale (si veda il principio di revisione internazionale (ISA Italia) 570, che impone al revisore la verifica prognostica del going concern almeno per il periodo di un anno, in consonanza con quanto richiesto all'organo amministrativo ed a quello di controllo della società in occasione della redazione del progetto di bilancio).

Ciò senza considerare, inoltre, che i principi generali in tema di analisi della continuità aziendale in prospettiva onerano il revisore di “considerare se sussistano eventi o circostanze che possano far sorgere dei dubbi significativi sulla capacità dell'impresa di continuare ad operare come entità in funzionamento” (cfr. nello specifico principio ISA Italia 570 – Regola 10), suddivisi in particolareggiati “indicatori finanziari” (tra cui l'incapacità di pagare i debiti a scadenza), indicatori gestionali (ad esempio comparsa di competitors sul mercato, perdita di clienti, contratti o concessioni governative) ed “altri indicatori” (in particolare capitale ridotto al di sotto dei limiti legali o cause passive in corso tali da generare debiti cui l'impresa non sarà probabilmente in grado di fare fronte).

Ecco perché il sistema dell'allerta, così come configurato sotto il profilo del timing nell'intercettare la crisi aziendale, secondo diversi interpreti rischia di rivelarsi da un lato scarsamente utile, e dall'altro tardivo: se, infatti, lo stesso imprenditore ed il suo team di controllo/revisione hanno già virtuosamente previsto il possibile venir meno della continuità poco meno di dodici mesi prima del suo verificarsi, a poco servirà un allarme suonato sei mesi prima dell'evento, quando già sono state auspicabilmente adottate le opportune misure per affrontare la crisi; laddove, per contro, quest'ultima non sia stata rilevata attraverso l'applicazione degli indicatori di cui al principio ISA 570, la sua emersione nelle tempistiche previste dal CCII può non consentire la tempestiva attuazione di iniziative dirette a superarla in modo efficace. E' pur vero che il pregiudizio alla continuità aziendale non va ritenuto necessariamente sintomatico di uno stato di insolvenza prospettica (come dimostra l'esistenza in concreto di numerosissimi casi di liquidazione in bonis che rappresentano l'ipotesi più frequente dell'attività aziendale: R. Ranalli, Gli indici della crisi anche con riferimento alle grandi imprese, in Il Quotidiano Giuridico 11.12.2019), ma l'accostamento che l'art. 13 compie tra la sostenibilità del debito per i sei mesi successivi e le prospettive di continuità aziendale per lo stesso tempo rappresenta un dato non ignorabile, che tra l'altro non è stato espunto o modificato nemmeno in sede di ultimazione dello schema di decreto correttivo.

Gli indicatori e gli indici elaborati dal CNDCEC

Nel sistema del CCII, dunque, la crisi “tipica” (cioè rilevante ai fini dell'attivazione dell'allerta) è una situazione di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a fare fronte alle obbligazioni assunte ed in scadenza (art. 2, lett. a), così come in fase di probabile riformulazione a seguito dello schema di decreto correttivo).

Costituiscono segnali di tale crisi, o meglio “indicatori” di essa, una serie di fenomeni ripartiti in due categorie tra loro diverse (art. 13, comma 1): una ricomprende esclusivamente quei ritardi nei pagamenti considerati “reiterati e significativi” anche in base all'art. 24, mentre dell'altra fanno parte squilibri di natura reddituale, patrimoniale o finanziaria, rapportati alle specifiche caratteristiche dell'impresa, dell'attività da questa svolta e della sua “anzianità”. L'esigenza di declinare tali squilibri in modo sintetico richiede l'elaborazione di appositi indici, che in base a quanto previsto dalla legge-delega devono evidenziare due circostanze: la non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi al momento della loro misurazione e l'assenza di prospettive di continuità aziendale per l'esercizio in corso o comunque per i sei mesi successivi, come correttamente lo schema di decreto correttivo ha inteso modificare, volgendola in senso negativo, l'attuale formulazione dell'art. 13, comma 1, in accoglimento dei rilievi mossi a suo tempo (si veda, ad esempio, R. Ranalli, Gli indicatori della crisi driver per le segnalazioni all'OCRI, La riforma del fallimento, Milano, 2019, 76).

È lo stesso CCII (nella versione modificata dal decreto correttivo) a definire come “significativi”, in quanto rivelatori di queste due situazioni negative, quegli indici diretti a valutare l'insostenibilità del debito in termini di flussi a servizio del debito stesso e di leverage, vale a dire quelli che misurano la non sostenibilità degli oneri derivanti dall'indebitamento con i flussi di cassa generati dall'impresa nonché l'inadeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Sulla base di questa precisa demarcazione categoriale, l'art. 13, comma 2 ha affidato al CNDCEC l'elaborazione (con cadenza almeno triennale ed in relazione a tutte le tipologie di attività economica come classificate dall'ISTAT) degli indici in questione, la cui valutazione unitaria deve fare “ragionevolmente presumere” la ricorrenza di uno stato di crisi.

Come ormai noto, in data 19.10.2019 il CNDCEC ha pubblicato un documento, parte del quale inviato al MISE per il suo recepimento in sede di apposito decreto, che contiene ed illustra gli indici individuati dall'art. 13, ma che al tempo stesso, affrontando il fondamentale tema dei rapporti tra i “fondati indizi” di crisi (i quali, ai sensi dell'art. 14, attivano l'obbligo segnaletico degli organi di controllo societari), gli “indicatori” di cui al comma 1 dell'art. 13 e gli “indici” di cui al comma 2, si pone come una sorta di “guida operativa” in grado di condurre i protagonisti dell'allerta alla rilevazione delle circostanze rilevanti cui si ricollega l'obbligo di segnalazione del citato art. 14 (R. Ranalli, Definiti gli indici della crisi e il percorso di rilevazione dei fondati indizi, in questo Portale, 23.9.2019).

Il CNDCEC non si è quindi limitato a selezionare un lotto di indici ritenuti adatti all'esigenza posta dalla norma sugli indicatori della crisi, ma ha altresì tracciato un loro percorso applicativo tale da facilitarne la valutazione unitaria richiesta ex lege, integrandolo con l'individuazione di una metodologia che consenta di verificarne la tenuta logico-economica sulla base di un giudizio prognostico incentrato sull'andamento aziendale in divenire. Ciò in quanto nel disegno dell'allerta, così come concepita dal CCII, la segnalazione degli organi interni dev'essere “motivata” (art. 14, comma 2), e l'esigenza di motivazione non può esaurirsi nella mera accettazione degli esiti algoritmici derivanti dall'applicazione degli indici, poiché questi ultimi, in sé considerati, potrebbero generare sia “falsi negativi” (situazioni di crisi non intercettate nonostante l'adozione delle metodiche prescritte) sia “falsi positivi” (casi fisiologici di andamento aziendale erroneamente ritenuti come “crisi”).

Gli indizi di crisi rivelati dall'utilizzo degli indici necessitano quindi di riscontri probatori ricavabili da una lettura in chiave di forward looking dell'andamento aziendale, e ciò spiega la scelta del CNDCEC di adottare un'articolazione degli indici “ramificata” in senso gerarchico e sequenziale (si vedano C. Sottoriva-A. Cerri, Gli indici di allerta rilevanti ai fini dell'attivazione degli obblighi segnaletici, in www.ilFallimentarista.it, 20.11.2019), attraverso un meccanismo dove l'allerta viene attivata solo alla fine, quando si è completata la “valutazione unitaria” degli indici.

L'indice in senso proprio ritenuto dal CNDCEC più significativo e più idoneo a rivelare l'esistenza di uno stato di crisi meritevole di segnalazione d'allerta è il Debt Service Coverage Ratio (DSCR), vale a dire lo strumento il quale, utilizzando dati prognostici, individua i flussi di cassa della gestione corrente previsti nei sei mesi successivi che possono ritenersi disponibili per il rimborso dei debiti scadenti entro il medesimo orizzonte temporale, comparando in tal modo i cash flow liberi con il debito al cui servizio essi sono destinati: quando il valore finale è inferiore ad 1, l'attivazione dell'allerta può dirsi giustificata.

Il documento del CNDCEC individua un altro elemento di per sé astrattamente idoneo ad intercettare lo stato di crisi, cui peraltro non può venire attribuita la natura di “indice” vero e proprio, e cioè il patrimonio netto negativo o comunque inferiore al limite di legge. La sua valenza, con riferimento all'allerta, non deve tuttavia ritenersi assoluta, in quanto la stessa dinamica prevista dalla normativa societaria in presenza di situazioni caratterizzate dalla perdita del capitale sociale (cfr. artt. 2447 e 2482-ter c.c., in particolare) dimostra come l'adozione, da parte degli organi sociali, delle prescritte iniziative di ricapitalizzazione o di messa in liquidazione determini una interruzione, quantomeno temporanea, del meccanismo di attivazione dell'allerta.

Pertanto, la contemporanea presenza di un patrimonio netto positivo ed assenza di ritardi reiterati e significativi nei pagamenti (caratterizzati, nella visione del CNDCEC, da non episodiche azioni esecutive, interruzioni nelle forniture o rilevanti variazioni di termini e condizioni di pagamento, more superiori a trenta giorni in relazione a retribuzioni, tributi ed oneri previdenziali, revoche degli affidamenti o decadenza dal beneficio del termine per esposizioni bancarie incagliate da più di novanta giorni) non esaurisce il test ricognitivo della crisi, ma introduce quest'ultimo al next level rappresentato, appunto, dall'accertamento del DSCR per un valore superiore ad 1. Laddove, peraltro, i dati prognostici posti a base del DSCR (ad esempio il budget di tesoreria) non siano disponibili, o vengano ritenuti inaffidabili da parte degli organi interni di revisione o di controllo, l'indagine transita allo stadio successivo, caratterizzato dall'utilizzo di cinque diversi indici la cui violazione deve sussistere congiuntamente in relazione a ciascuno di essi, perché si possa predicare la sussistenza di uno stato di crisi: l'indice di sostenibilità degli oneri finanziari (c.d. return on debt, ossia il rapporto tra oneri e fatturato); l'indice di adeguatezza patrimoniale (c.d. leverage, vale a dire il rapporto tra patrimonio netto e debiti complessivi); l'indice di ritorno liquido dell'attivo (rapporto tra flussi di cassa e totale dell'attivo patrimoniale); l'indice di liquidità (c.d. “indice di liquidità secondaria” o current ratio, cioè il rapporto tra attività a breve termine e passività altrettanto a breve termine); l'indice di indebitamento previdenziale e tributario (rapporto tra passività fiscale e previdenziali e totale dell'attivo patrimoniale). Va notato, tra l'altro, come diversi degli indici in questione (in particolare quello di leverage e, congiuntamente, quelli di sostenibilità degli oneri finanziari e di ritorno liquido dell'attivo) riflettano in modo sostanzialmente diretto le indicazioni di cui al comma 1. dell'art. 13 relative alla non sostenibilità degli oneri dell'indebitamento con i flussi di cassa ed all'inadeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi (si veda R. Ranalli, Gli indici della crisi anche con riferimento alle grandi imprese, Il Quotidiano Giuridico, 11.12.2019).

Conclusioni

Costituisce forse un tratto tipicamente italico quello di sottoporre a scrutinio piuttosto severo, anche e soprattutto, i risultati ottenuti a seguito di iniziative di revisione normativa particolarmente ampie e laboriose, e ciò ancor prima che la loro applicazione concreta possa dare la misura del loro impatto, soprattutto in una realtà così nevralgica come quella della crisi aziendale e dell'insolvenza.

Di fronte, quindi, alla ridda di previsioni e pronostici scatenatasi tra gli interpreti in ordine alla fortuna che potranno incontrare istituti nuovi e vecchi previsti dal CCII (in particolare, per quanto si è visto, l'emersione precoce della crisi attraverso l'allerta), non può non prendersi atto, quantomeno ad oggi, della sostanziale serietà e tempestività che hanno caratterizzato il meccanismo sequenziale iniziato con la delega e pervenuto oggi alle soglie di un primo “aggiustamento” di un testo normativo ormai approvato, senza significativi rinvii di natura più o meno “politica”.

La “scommessa” del legislatore sul punto, quindi, almeno sotto l'aspetto della coerenza, può ritenersi forse già vinta.

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