Assegno divorzile: l' indipendenza economica e la autoresponsabilità del singolo

Stefano Celentano
24 Febbraio 2020

Lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda ex art. 5 l. 898/1970 non sono elementi autonomamente decisivi per il riconoscimento e la successiva quantificazione dell'assegno divorzile.
Massima

Lo squilibrio economico tra le parti e l'alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda ex art. 5 l. 898/1970 non sono elementi autonomamente decisivi per il riconoscimento e la successiva quantificazione dell'assegno divorzile. I criteri fondanti su cui accertare la sussistenza del diritto a percepire l'assegno divorzile sono costituiti dalla non autosufficienza economica, insieme alla eventuale necessità di compensazione del particolare contributo dato dal coniuge richiedente l'assegno, durante la vita matrimoniale.

Il caso

Il Tribunale di Milano, decidendo sulla domanda di divorzio, aveva statuito a carico della madre l'obbligo di contribuire al mantenimento della figlia minore, affidata congiuntamente ai genitori ma collocata prevalentemente presso il domicilio paterno, soltanto mediante il rimborso della metà delle spese straordinarie, e dunque non determinando un importo mensile per il mantenimento ordinario; si era altresì statuito, a carico del marito, l'obbligo di corrispondere alla ex moglie un assegno divorzile in misura di € 680,00 mensili. La decisione veniva integralmente confermata dalla Corte d'Appello che, in relazione proprio all'assegno divorzile, faceva espresso riferimento alla esigenza di conservazione del pregresso tenore di vita matrimoniale della coppia, evidenziando la disparità reddituale tra gli ex coniugi (il marito percepiva elevati redditi da lavoro, disponeva di un rilevante patrimonio immobiliare, e godeva indirettamente dei benefici economici derivanti dalla sua stabile unione con l' attuale compagno; la moglie, invece, percepiva una retribuzione mensile di € 2.000,00, quale lavoratrice dipendente, ed aveva acquistato un appartamento impiegando i ricavi della vendita della casa coniugale in comproprietà con l'ex coniuge .

Con il ricorso in Cassazione, l'ex marito denunciava la violazione e la falsa applicazione degli art. 1457 c.c. e 337-ter c.c., per aver il giudice di merito assolto l'ex coniuge dall'obbligo di contribuire al mantenimento della figlia, omettendo di applicare i parametri normativi per la determinazione del relativo contributo obbligatorio, nonché – con il secondo motivo di gravame – la violazione e falsa applicazione degli artt. 4,5, e 10 l. 898/1970 e dell'art. 2697 c.c., per aver posto a suo carico il pagamento dell'assegno divorzile, all'esito di una erronea valutazione del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, avendo il giudice di merito omesso di valutare l'adeguatezza dei redditi della moglie, di per sé sufficienti a garantirle condizioni di vita autonome e dignitose, e non avendo considerato la provenienza ereditaria del suo patrimonio immobiliare e la circostanza per cui le spese per il mantenimento della figlia, maggiorenne ma non autonoma, fossero interamente a suo carico.

La questione

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte affronta due questioni: con la prima, quali siano i presupposti per porre a carico di un genitore il pagamento di un assegno perequativo di ammontare predeterminato (ovverosia se i principi di cui all'art. 337- bis s.s. c.c. possano dirsi realizzati solo mediante la suddivisione delle c.d. spese straordinarie o “non preventivabili”; con la seconda, quali siano invece i presupposti, dopo l'intervento nomofilattico del 2018, dell'assegno divorzile, ovverosia il ruolo che ancora riveste il criterio dell'autosufficienza economica introdotto dalla c.d. sentenza “Grilli”.

Le soluzioni giuridiche

La prima questione in diritto esaminata nella pronuncia in esame non introduce particolari elementi di novità, atteso che ribadisce concetti e principi ormai consolidati, per i quali l'obbligo di mantenimento della prole, a carico di entrambi i genitori, sia essa in età minore o che si tratti di figli maggiori di età ma non economicamente autosufficienti, grava in misura analoga su entrambi, potendosi soltanto graduarne il “quantum” del relativo contributo, in relazione alle specifiche sostanze, ai sensi dell'art. 337-ter c.c. , nonché del generale disposto di cui all'art. 316 c.c., secondo cui espressamente i genitori debbano adempiere al suddetto obbligo nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Da tale panorama normativo si evince come, se in costanza di matrimonio, il mantenimento dei figli non sia sottoposto a regole stringenti bensì rimesso alle rispettive possibilità economiche dei genitori, l'adempimento di tale obbligo normativo è evidentemente destinato a mutare in caso di disgregazione del nucleo familiare; a tale fine, l'assegno di mantenimento in favore del figlio, e posto a carico del genitore non collocatario, è previsto con finalità perequativa dall'articolo 337-ter c. c.. Dunque, la funzione di tale assegno, come è noto, è quella di consentire e di imporre, al tempo stesso, al genitore non collocatario di garantire all'altro un afflusso costante di denaro in modo tale che entrambi i genitori possano far fronte comune e quotidiano, alle esigenze economiche di natura ordinaria e straordinaria necessarie per il mantenimento della prole non autosufficiente.

Va altresì ricordato che, le linee guida previste dall'articolo 337-ter c. c. e alle quali il giudice deve attenersi nel momento in cui determinare il quantum dell'assegno di mantenimento, sono evidentemente finalizzate a quantificare le spese ordinarie e, quindi, prevedibili, atteso che i medesimi criteri di quantificazione, in relazione a quelle straordinarie e di fatto imprevedibili, possono essere utili solo a graduare la singola e specifica percentuale in relazione ad esse, nella cui misura i genitori saranno obbligati a soddisfarle.

Se tale è l'architettura normativa e di principi logici in relazione al tema in oggetto, appare conseguentemente evidente che l'esonero di uno dei due coniugi all'obbligo di contribuzione nelle spese ordinarie da affrontare in favore della prole, è una soluzione estrema e assolutamente impraticabile, se non nei casi di assoluta indigenza, mentre appare coerente e funzionale al sistema (nonché all'assolvimento degli obblighi normativi) la previsione di un contributo fisso mensile per le spese ordinarie da porre a carico del genitore che non coabita con la prole, e da determinare sulla scorta dei criteri di cui all'art. 337- ter c.c., atteso che tale risulta essere l'unico sistema per assolvere all'obbligo giuridico di cui all'art. 316 c.c., ed ogni contraria forma di esonero appare evidentemente ingiustificata e disfunzionale.

Più controversa, appare invece la seconda questione, di estrema attualità.

Il tema non può non prendere le mosse dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2018, che ha composto il contrasto giurisprudenziale insorto a seguito della sentenza della prima Sezione della Cass. civ. 10 maggio 2017, n. 11504, con cui si era prospettata una radicale modifica del dibattito sulla materia dell'assegno divorzile rispetto al precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale inaugurato dalla pronuncia della Cass. civ. sez. un. n. 11490/1990.

Ciò posto, ed in estrema sintesi, partendo dalla evidente constatazione che l'art. 5 l. 898/1970, nella sua attuale formulazione contenesse un concetto non di immediata percezione (la norma si riferisce ai "mezzi adeguati" senza specificarne il riferimento su cui valutare tale adeguatezza), la giurisprudenza sino alla pronuncia del 2018, ha prospettato due differenti opzioni: secondo un primo orientamento, molto consolidato nel tempo, (Cass. civ.,SS.UU., 29 novembre 1990 nn. 11490, 11491 e 1149; Cass. civ., sez. I, 12 febbraio 2003, n. 2076; Cass. civ., sez. I, 2 luglio 2007, n. 14965; Cass. civ., sez. I, 20 marzo 2010, n. 7145; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2013, n. 16597; Cass. civ., sez. I, 5 febbraio 2014, n. 2546) l'assegno era dovuto a favore del coniuge che non avesse o non potesse procurarsi per ragioni oggettive mezzi tali da poter mantenere un “tenore di vita” analogo a quello che aveva caratterizzato la vita matrimoniale; secondo altre pronunce, di matrice innovativa ed interpreti di una mutata sensibilità sociale sul punto ( Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2017,n. 11504; Cass. civ., sez. I, 11 maggio 2017, n. 11538; Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196; Cass. civ., sez. II, 23 marzo 2018, n. 1630; Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481; Cass. civ., sez.VI, 29 agosto 2017, n. 20525; Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2017, n. 23602; Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327; Cass. civ., sez. VI, 30 ottobre 2017, n. 25781; Cass. civ., sez. VI, 5 dicembre2017, n. 28994) ma anche frutto di una rielaborazione di un precedente risalente nel tempo (Cass. civ., sez. I, 2 marzo 1990, n. 1652), il diritto all'assegno divorzile andava invece riconosciuto all'ex coniuge che non avesse o non potesse procurarsi, per ragioni oggettive, i mezzi per raggiungere l'autosufficienza economica. In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza di merito anteriore allea pronuncia del 2018 (Trib. Milano, 22 maggio 2017; Trib. Varese, 6 giugno 2017; Trib. Firenze, 14 giugno 2017; Trib. Matera, 7 marzo 2018)

Entrambi gli orientamenti ritenevano comunque che il giudizio sull'assegno divorzile avesse un percorso rigorosamente bifasico : nella prima fase (quella dell'an ) il giudice era chiamato a valutare l'inadeguatezza dei mezzi, rapporti o al tenore di vita (secondo il primo orientamento) o all'autosufficienza economica (per il secondo orientamento); soltanto ove accertata tale inadeguatezza, si determinava successivamente l'esatto importo dell'assegno, applicando i criteri indicati nella prima parte della norma, da intendersi dunque come elementi funzionali a stabilire la misura concreta del contributo (Corte Cost.11/2015).

La soluzione giuridica data al predetto contrasto dalle Sezioni Unite” con la pronuncia n. 18287/2018 , esprime in realtà una sorta di “terza via” tra le opzioni sin qui considerate, ponendo come criterio centrale di operatività, il canone espresso dall'art. 29 Cost., quale espressione di un modello costituzionale di matrimonio fondato sulla uguaglianza, solidarietà e pari dignità dei coniugi. La Corte, in sintesi, stabilisce tre importanti nuovi principi: a) il riconoscimento dell'assegno di divorzio, a cui va attribuita una funzione assistenziale, ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede in primo luogo l'accertamento della inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante (o della impossibilità a procurarseli in tale misura), accertamento che va effettuato non più in relazione al parametro del precedente tenore di vita (in quanto criterio portatore di effetti locupletativi e deresponsabilizzanti del coniuge beneficiario dell'assegno), né a quello maggiormente asettico della autosufficienza o indipendenza economica ( in quanto criterio svincolato dalla natura interelazionale su cui si basa la complessiva condizione degli ex coniugi anche dopo la disgregazione del nucleo familiare). Dunque, il giudizio di adeguatezza dei mezzi diviene una operazione complessa, da porsi non solo osservando la situazione del coniuge richiedente al momento della cessazione del rapporto coniugale, ma anche in relazione alla pregressa storia della relazione di coppia e familiare, con riferimento all'apporto che egli ha dato in funzione della vita familiare. Dunque, nel concreto vaglio della domanda proposta ai sensi dell'art. 5 l. 898/1970, dovrà tenersi in debito conto la intera vicenda familiare, operando un giudizio di prognosi sui suoi bisogni o sulla sua indipendenza, che tenga conto delle condizioni reddituali del richiedente, di quelle personali (età, salute, situazione lavorativa, contributo dato nella vita coniugale, anche in relazione al formarsi del patrimonio, anche professionale, dell'altro coniuge e della famiglia) e di dati “tecnici”, quali la durata del matrimonio, che rappresenta una chiave di lettura importante ed oggettiva a cui ancorare il pondus temporale di rilevanza soprattutto delle predette condizioni personali.

È di tutta evidenza come la Corte, ponendo l'accento proprio sui principi di autoresponsabilità ed autodeterminazione dei singoli all'interno della vita di coppia, abbia inteso fare un espresso o forte riferimento alle scelte liberamente compiute dai singoli all'interno della famiglia, scelte in virtù delle quali si è delineato un comune progetto familiare che ha dunque riflesso dinamico anche nella fase successiva della crisi in relazione ai profili economico-patrimoniali anche post-coniugali. In altri termini, la portata del divorzio, che cancella il vincolo e incide sullo status, attribuendo ai singoli il diritto ad una legittima ed eventuale “seconda vita relazionale”, non può avere effetti demolitivi sulle conseguenze oggettive maturate nelle condizioni di vita dei singoli per effetto delle scelte, anche comuni, operate nel corso della relazione cessata.

Tale impostazione logico-giuridica, ha imposto, all'indomani della pronuncia a Sezioni Unite, di valutare dunque il concetto di inadeguatezza dei mezzi come un “fatto” ancorato alle caratteristiche concrete di conduzione della vita familiare e della ripartizione dei ruoli endofamiliari, imponendo al giudice di considerare l'effettivo contributo assicurato alla famiglia dal coniuge richiedente l'assegno, anche in relazione alla costruzione del patrimonio familiare o dell'altro coniuge; in tale senso, l'emolumento divorzile svolge una funzione composita, assistenziale, equilibratrice e perequativa- compensativa, ragione per cui è la stessa nozione di inadeguatezza ad essere sganciata dalla mera funzione assistenziale dell'assegno, per essere invece valutata complessivamente anche in funzione riequilibratrice (e sulla scorta anche dell'esame comparativo delle condizioni patrimoniali dei coniugi). Proprio tale ultimo aspetto induce a ritenere che, secondo la lettura data dalle Sezioni Unite alla specifica natura e funzione dell'assegno divorzile, la disparità economica tra i coniugi accertata al momento dello scioglimento del vincolo costituisce un elemento necessario, ma non per sé sufficiente, per il riconoscimento dell'assegno richiesto. E' infatti dirimente, rispetto a tale squilibrio, il suo fattore causale, dovendo pertanto verificarsi se tale condizioni di disparità sia da ricondurre alle determinazioni comuni del progetto familiare (quando era in vita), ai ruoli endofamiliari progettati in comune tra i coniugi per ciascuno di essi, e al conseguente sacrificio che essi hanno comportato in capo alle aspettative professionali e reddituali del soggetto che, al momento della rottura del vincolo, si trovi poi in condizioni economiche più svantaggiate; va altresì valutato se, ed in quale misura, il patrimonio del coniuge in migliori condizioni economiche al momento della crisi coniugale, abbia giovato del contributo nel tempo dell'altro coniuge, o se invece sia stato frutto soltanto delle proprie energie e risorse. In sintesi, il fattore causale tra le rispettive posizioni economiche ed il ruolo endofamiliare scelto di comune accorso tra i coniugi, è un elemento di giudizio per il vaglio della domanda ex art. 5 l. 898/70, ed è una “quota” del concetto di inadeguatezza dei mezzi, laddove ci si voglia soffermare proprio sulla funzione perequativa/compensativa dell'assegno in oggetto. Dunque, in conclusione, la funzione mista dell'assegno in questione, prende le distanze dal concetto di “tenore di vita” come enucleato nelle pronunce degli anni 90, rimanendo agganciata al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge più debole nella realizzazione della situazione economica della famiglia valutata al momento finale del rapporto.

La pronuncia in commento, nell'approntare la soluzione al caso specifico, prende le mosse nuovamente dal concetto di adeguatezza dei mezzi, ricordando come tale concetto, nella pronuncia n, 11504/2017 sia stato ancorato alla “possibilità di vita dignitosa” da essi assicurata, e di come, con la pronuncia n. 3015/2018, la stessa Corte precisava che “per determinare la soglia della indipendenza economica occorrerà avere riguardo alle indicazione provenienti, nel momento storico determinato, dalla coscienza collettiva”, e che dunque tale nozione non era “bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità”. La pronuncia ritiene che tali due principi non siano stati sovvertiti da quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2018, che ne avrebbero soltanto arricchito i contenuti confermando in pieno il superamento del concetto del tenore di vita, ponendo a carico del richiedente l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni legittimanti l'esercizio del diritto, e sottolineando la natura principalmente assistenziale dell'assegno divorzile, sebbene in concorso con quella perequativa e compensativa o riequilibratrice. Proprio rispetto a tale ultimo aspetto, ribadisce la Corte, la pronuncia delle Sezioni Unite ha statuito che la sperequazione dei redditi tra i coniugi al momento della pronuncia di divorzio, ha effetto sul riconoscimento dell'assegno divorzile, soltanto laddove sia eziologicamente legata al contributo diretto o indiretto fornito nel corso della vita matrimoniale da parte del soggetto che si trova in condizioni più svantaggiate, e dunque al suo ruolo endofamiliare per come di comune accordo individuato tra i coniugi nel corso della convivenza matrimoniale (in tale senso Cass. civ. n. 10781/2019 e 10782/2019 e n. 6386/2019).

Ciò posto, afferma la Corte, se il parametro della inadeguatezza dei mezzi ( e quello della impossibilità di procurarseli) va riferito a due fattori – la possibilità di vita autonoma e dignitosa, e l'esigenza di compensare le aspettative sacrificate e il contributo oggettivo dato alla famiglia ed al patrimonio dell'altro coniuge – risulta del tutto estraneo, nei criteri di valutazione della fondatezza della norma, la mera osservazione dello squilibrio economico tra le parti, anche se rilevante, se a tale osservazione non si accompagna l'accertamento rigoroso sul nesso causale di tale squilibrio, per come individuato dalle Sezioni Unite nel 2018.

Diversamente opinando, e cioè riconoscendo l'assegno divorzile meramente sulla constatazione del rilevante squilibrio economico tra i coniugi al momento del divorzio, si reintrodurrebbe in modo automatico ed ingiustificabile l'esigenza di garantire al coniuge più debole di godere del medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, facendo rivivere un percorso logico-giuridico definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza, e del tutto incoerente con la mutata sensibilità sociale, e con l'esigenza di evitare fenomeni di locupletazione o di indebito sacrifico delle legittime ragioni del coniuge più abbiente a non vedersi “ipotecato” il proprio patrimonio da ingiustificate e deresponsabilizzanti forme di rendita vitalizia o da vere e proprie forme di imposizione patrimoniale ai limiti della tassazione. Sulla scorta di tali osservazioni, la Corte ha inteso dunque cassare con rinvio la pronuncia d'appello, proprio perché il riconoscimento dell'assegno divorzile era avvenuto esclusivamente sulla mera constatazione dello squilibrio reddituale tra i coniugi all'indomani della disgregazione del nucleo familiare, e non su altri argomenti.

Osservazioni

La pronuncia in esame, si pone definitivamente nel solco di una rinnovata prospettiva rispetto a tutte le questioni, anche di natura patrimoniale, che vanno regolate al momento in cui deve apprestarsi una disciplina dei rapporti endofamiliari conseguenti alla rottura del nucleo affettivo: la autoresponsabilità del singolo, principio immanente che regola ogni rapporto in tale fase storica (la disgregazione del nucleo) sulla scorta di ciò che il singolo, all'interno del progetto familiare, ha consapevolmente scelto per sé, indipendentemente dal fatto che tali scelte di vita siano state frutto di una autonoma e consapevole determinazione o di un progetto di coppia. Tale principio va inteso pertanto come criterio normativo e regolatore della “posizione ” del singolo all'indomani della crisi coniugale, nel senso che la disciplina dei rapporti patrimoniali post-crisi va parametrata in modo elastico e variabile, osservando lo status endofamiliare di ciascuno nel corso della vita di coppia, le sue consapevoli scelte di vita (autonome o condivise con l'altro coniuge) e regolando pertanto i relativi rapporti patrimoniali post-coniugio– rifuggendo da ogni automatismo che sfugga a tale approccio personalistico – sulla scorta di un principio di solidarietà postfamiliare che non ha dunque valenza oggettiva o “a prescindere”, ma trova applicazione corretta e non automatica soltanto laddove le scelte di vita del singolo nel corso della vita coniugale, e di un progetto condiviso, lo abbiano portato a “sacrificare” le sue aspettative di lavoro e dunque reddituali, ponendolo conseguentemente al momento della disgregazione del nucleo in una posizione di svantaggio rispetto all'altro coniuge che, di tali scelte, ha invece goduto i benefici in via diretta.

Tale approccio – che ha una duplice valenza sia giuridica che evidentemente sociale, in quanto frutto di una rinnovata sensibilità collettiva sui generali temi della vita affettiva e delle proprie mutevoli ed eterogenee dinamiche – risulta coerente ed essenziale rispetto alla necessità di evidenziare e dare corpo proprio alla funzione perequativo/compensativa dell'assegno divorzile che, dunque così intesa, rifugge dall'equivoco più volte avanzato per cui essa vada ancorata alla sola osservazione del patrimonio dei singoli al momento della crisi coniugale; così non è, laddove tale funzione assolve invece il compito di riequilibrare le rispettive posizioni patrimoniali soltanto laddove lo squilibrio evidente ed accertato sia il frutto, causalmente apprezzabile in modo certo, delle scelte di vita comuni e consapevoli maturate nel corso della gestione condivisa del “progetto famiglia”, scelte, decisioni e volontà che hanno portato uno dei due a porre in essere rinunce e sacrifici rispetto alle proprie ambizioni o alle proprie possibilità lavorative nell'ottica di garantire alla famiglia un apporto diretto delle proprie energie, apporto che ha inciso sul benessere familiare, sul patrimonio comune e su quello dell'altro coniuge, che di tale dispendio di energie finalizzato, ha goduto in via indiretta.

E non è peregrino sottolineare come il principio di autoresponsabilità del singolo, così argomentato, sia un principio trasversale o più propriamente bilaterale, atteso che regola entrambe le posizioni dei singoli al momento della rottura del vincolo coniugale; esso si fonda sulla consapevole assunzione del rischio, assunto nel corso della vita coniugale ma nella prospettiva fisiologica di un eventuale fallimento del progetto di condivisione, che lo specifico ruolo endofamiliare scelto, nelle sue molteplici variabili ( il coniuge “in carriera”, il coniuge che sacrifica le sue aspirazioni professionali per la famiglia, il coniuge inerte nella ricerca di una collocazione professionale nonostante non vi sia un progetto familiare per cui egli debba assicurare particolari contributi alla vita della famiglia, i coniugi che intendono di comune accordo coltivare e mantenere salde le loro aspirazioni professionali ed i relativi percorsi, il coniuge che “delega” all'altro la concreta gestione del quotidiano familiare) spiegherà i suoi effetti pratici nella disciplina dei rapporti patrimoniali al momento della rottura del vincolo, soprattutto ove tale ruolo sia stato mantenuto nell'ambito di una dinamica familiare protrattasi in un lasso rilevante di tempo, chiamando in causa il principio di “solidarietà postconiugale”, che va dunque svuotato della patina di retorica ancora inutilmente legata al concetto di indissolubilità del vincolo, per essere apprezzato nella sua limitata e specifica funzione di rendere coerente l'assetto dei rapporti patrimoniali tra coniugi all'indomani del fallimento della vita di coppia, rispetto alle scelte consapevoli e comuni operate nel corso della loro unione.

Dunque, risulta coerente con tale prospettiva e soprattutto con il percorso che la giurisprudenza pare aver definitivamente intrapreso in modo sempre più chiaro, l'idea che le nozioni di “autosufficienza” e di ”disponibilità di mezzi adeguati” non sono elementi astratti o peggio ancora parametrati a standard obiettivi, ma sono fattori variabili che vanno regolati sulla concreta vicenda e storia matrimoniale, in una valutazione comparativa dei ruoli e degli interessi in gioco, con specifico riferimento alla posizione scelta dal singolo all'interno della pregressa vita comune.

Sulla scorta di tali osservazioni, è utile valutare, con uno sguardo di insieme, come la giurisprudenza della Prima Sezione della Corte di Cassazione (che ha partorito la pronuncia in esame) nonché quella di merito, si stia concretamente muovendo in tale percorso, e ciò per verificare la tenuta effettiva dei principi esposti ed il loro grado di efficace condivisione.

Vanno pertanto sottolineate, una pronuncia del marzo 2019 (Cass. civ. n. 6386/2019), con cui la Corte ha validato una pronuncia di merito in sede di revisione delle condizioni divorzili, ai sensi dell'art. 9 l. 898/1970, con cui veniva revocato l'obbligo di corrispondere un assegno divorzile a carico dell'ex marito, per il venir meno della richiamata funzione assistenziale (l'uomo aveva notevolmente ridotto le sue capacità reddituali a seguito del suo pensionamento mentre la donna era divenuta autosufficiente percependo un reddito medio di € 3.000,00 mensili), e di quella perequativa-compensativa, atteso che la donna non aveva neanche dedotto quale fosse stato il suo contributo effettivo alla formazione del patrimonio familiare e di quello dell'ex coniuge, così introducendo un altro tema fondamentale nel dibattito, quello relativo alla necessità di provare, con onere sull'aspirante beneficiario dell'assegno, tutti i presupposti in fatto per poter richiamare in concreto la funzione perequativo-compensativa dell'emolumento richiesto.

Proprio sotto tale ultimo aspetto, quello dei profili probatori, è di particolare interesse una pronuncia di poco successiva (Cass. civ., n. 10782/2019) che, nel ribadire l'esclusione assoluta della nozione di “tenore di vita” dall'ambito dei parametri valutativi, afferma che è onere di colui che invoca l'assegno divorzile provare che la sperequazione reddituale e patrimoniale accertata al momento del divorzio sia direttamente connessa alle scelte comuni di vita degli ex coniugi, maturate nell'ambito del progetto di condivisione familiare, per effetto delle quali egli abbia sacrificato aspettative professionali e reddituali al fine di dedicare il proprio tempo e le proprie energie alla famiglia, contribuendo così direttamente alla formazione del patrimonio comune nonché di ciascuno. Sempre sulla disciplina probatoria, interessante è anche la successiva pronuncia n. 11178/2019, con la quale la Suprema Corte statuisce che, a seguito del rinvio al giudice di merito per una nuova valutazione della fondatezza o meno del diritto all'assegno divorzile (riconosciuto con la pronuncia cassata), nel giudizio di rinvio saranno ammissibili nuove prove idonee a supportare il nuovo accertamento alla stregua dei parametri delle Sezioni Unite, non operando la preclusione di cui all'art. 345, comma 3 c.p.c.

Nel panorama delle pronunce di merito, vanno sottolineate alcune decisioni frutto di scelte particolarmente rigorose nell'applicazione del principio di autoresponsabilità. Di sicuro interesse, anche per le argomentazioni di natura sociale fisiologicamente connesse al tema in questione, è la pronuncia del Tribunale di Pavia del 23.7.2018, con cui i giudici evidenziano come, per evitare che l'assegno divorzile si traduca in una ingiustificata locupletazione, la funzione perequativo-compensativa non va assolutamente intesa come volta a superare – in una prospettiva macroeconomica più che giuridica – le sperequazioni “di genere” esistenti in alcuni ambiti del mercato del lavoro, e di come dunque tale prospettiva, evidentemente sollecitata dalla richiedente l'assegno, non possa trovare così semplicistica ed acritica condivisione; la pronuncia chiarisce altresì, con un lodevole sforzo di sintesi argomentativa, come l'assegno divorzile vada determinato, sulla scorta dei principi delle Sezioni Unite, alla stregua di un giudizio prognostico controfattuale ed ex ante, come se il matrimonio non ci fosse stato, verificando in concreto le aspettative sacrificate dal richiedente rispetto alle dinamiche diverse concretizzatesi per effetto del matrimonio, sulla scorta di fatti di comune esperienza e di presunzioni semplici, tenendo in debito conto il modello familiare voluto e posto in essere dalla coppia, ed escludendo che all'assegno possa essere riconosciuta una funzione suppletiva delle sperequazioni esistenti nel mondo del lavoro, atteso che in tal senso si favorirebbero scelte di vita deresponsabilizzanti e basate sulla mera convenienza economica.

Parimenti interessante è la pronuncia del Tribunale di Treviso del 1.3.2019, atteso che inserisce un altro elemento di valutazione, a cui non è difficile attribuire natura sanzionatoria, pur nella sua ulteriore declinazione del principio di autoresponsabilità: l'assegno va negato ogni qualvolta il richiedente, pur privo di reddito, non dimostri di essersi attivato, una volta riacquistato lo status personale di “singolo”, per l'inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro, laddove per pregresse professionalità e per le condizioni di età, ciò sia un percorso concretamente possibile.

Merita infine menzione una pronuncia della Corte di Appello di Napoli (App. Napoli 10 gennaio 2019, con cui i giudici del gravame hanno revocato l'assegno divorzile riconosciuto dal Tribunale pur a fronte di una notevole sperequazione economica tra gli ex coniugi, e nonostante la lunga durata del matrimonio, attesa la prova certa della ampie elargizioni patrimoniali che la donna aveva ricevuto dal marito nel corso della vita matrimoniale, e la mancanza invece di prova del suo contributo effettivo al benessere ed alla vita della famiglia. Sotto tale ultimo aspetto, la pronuncia si presenta coerente con quanto statuito dalla Suprema Corte con la sentenza in commento.

In conclusione, pare rafforzarsi un percorso giurisprudenziale che si alimenta di un rinnovato approccio ai temi delle famiglie, in relazione a tutte le fasi storiche in cui vanno osservate, che vede la rilevanza sociale del nucleo, così come sancito dalla Carta all'art. 29, concorrere insieme al dato personalistico e privato della famiglia intesa come “esperienza personale”, prima ancora che come struttura sociale a rilevanza giuridica . Un approccio più moderno e progressista che ha il pregio di interpretare al meglio la rinnovata sensibilità sociale e di costume sull'ampio tema della costruzione della dimensione affettiva dei singoli, e di stimolare il dibattito sempre più stringente sulla natura privatistica di ogni “questione familiare”, che ben potrebbe conciliarsi con forme di pattuizioni ex ante di ogni questione, anche economica, sottesa al fallimento del progetto comune.