Pena detentiva per chi commette stalking attraverso post pubblici su Facebook

Ilenia Alagna
28 Febbraio 2020

Risponde di stalking il soggetto che per oltre sette anni ha perseguitato la vittima e i suoi familiari, anche con post pubblici offensivi e minacciosi.
Massima

Rischia il carcere per il reato di atti persecutori lo stalker che per diversi anni tormenta con offese, minacce e molestie la vittima, anche tramite social network, attaccandola con post pubblici offensivi e minacciosi. Le reiterate condotte dello stalker hanno ingenerato nella vittima un perdurante stato d'ansia, portandola a temere per la sua incolumità e a modificare le sue abitudini di vita. Per i Giudici, costituendo la fattispecie di atti persecutori, un reato abituale ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo di questi è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari, ovvero cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, costringendo la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.

Il caso

Tizio aveva offeso, minacciato e molestato, con condotte reiterate, una donna e i suoi familiari, mediante post pubblicati su un social network. L'imputato veniva condannato in secondo grado a dieci mesi di reclusione per il reato di atti persecutori.

La Corte territoriale, basandosi sulle dichiarazioni della persona offesa, riscontrate da specifici episodi e dalle dichiarazioni dei suoi amici ha ritenuto sussistente il reato di stalking, tenendo conto dello stato di ansia, tensione e paura indotto nella vittima, considerato anche il lungo arco temporale in cui l'imputato aveva posto in essere il comportamento persecutorio che ha impedito alla donna di svolgere una vita normale, anche sotto il profilo delle relazioni personali. A seguito di tali condotte, la vittima era stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita: aveva dovuto chiedere spesso l'aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, temendo le intrusioni dello stalker, era stata costretta a installare un blocco in entrata nelle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici e, infine, aveva dovuto giustificarsi continuamente con i suoi contatti, anche di lavoro, a causa delle continue intrusioni diffamatorie dell'imputato sui social network.

Tizio adiva la Corte di Cassazione, lamentando erronea applicazione dell'art. 612-bis c.p. «con specifico riferimento all'insussistenza degli eventi di danno previsti dalla norma» e per mancanza di motivazione. Il Provvedimento impugnato, secondo la difesa dell'imputato, era viziato nella parte in cui concludeva per la sussistenza del grave e perdurante stato d'ansia e del mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, non considerando le numerose conversazioni intrattenute tra la vittima e l'imputato (a fronte di un'unica procedura di "banning" volta a impedire ogni interferenza con i suoi profili Facebook) e la concessione, da parte della donna, del proprio numero di telefono.

La questione

Di cosa risponde chi molesta, offende e minaccia di atti persecutori una donna e i suoi familiari utilizzando il mezzo dei Social network?

Le soluzioni giuridiche

La quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 45141/2019, ha confermato la condanna a dieci mesi di reclusione per il reato di atti persecutori nei confronti di un uomo che reiteratamente aveva offeso, molestato e minacciato una donna, i suoi familiari e persone a lei vicine, attraverso post pubblici su Facebook.

Nella fattispecie in esame i giudici di merito hanno evidenziato che il determinarsi dello stato di ansia e tensione nella vittima, anche nelle ore di relax, dovute all'improvviso materializzarsi del suo persecutore, impediva alla vittima di condurre una vita normale. Tale stato prescinde dall'accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime d'esperienza (Cass. pen., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 18999). Più volte la giurisprudenza ha evidenziato come ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non sia necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta tenuta dall'agente (Cass. pen., Sez. V, 6 ottobre 2015, n. 47195). Ciò che è sufficiente è che gli atti ritenuti persecutori, nella specie minacce, molestie e insulti alla persona offesa, inviati anche con post e messaggi, abbiano un effetto destabilizzante della serenità ed equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice non costituisce una duplicazione del reato di lesioni, il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica. La prova dell'evento di danno, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, ben può essere ricavata, oltre che dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. pen., sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 50746). Nella fattispecie, la vittima è stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo spesso all'aiuto di amici per farsi accompagnare a casa ed essendo stata costretta ad installare un blocco in entrata delle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici ed a giustificare continuamente, presso i propri contatti di lavoro, le continue intrusioni diffamatorie dell'imputato sul social network.

La Corte di Cassazione sottolinea che le censure sono inammissibili, poiché richiedono di fatto una rilettura dei fatti non consentita in sede di legittimità.
Secondo i Giudici, la corte territoriale ha ricondotto i fatti contestati nella fattispecie dello stalking, stanti le continue molestie operate nei confronti della vittima, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network e il numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della stessa. La Corte ha dato conto della sussistenza degli eventi di danno previsti dall'art. 612-bis c.p. e segnatamente dello stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima da parte dell'imputato, in considerazione peraltro del lungo arco temporale in cui lo stesso ha posto in essere i comportamenti persecutori che hanno impedito alla vittima di svolgere una vita normale, «insinuando la paura che nelle ore di relax all'improvviso si materializzasse l'imputato» e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo all'aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, installando blocchi delle chiamate e dovendo giustificare le intrusioni diffamatorie dell'uomo sui social anche in ambito lavorativo.

Lo stalking, ricordano, quindi i giudici della Corte di Cassazione, «è strutturalmente una fattispecie di reato abituale, in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di ‘condotte reiterate', omogenee od eterogenee tra loro, con cui l'autore minaccia o molesta la vittima, ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari: a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita» (cfr. Cass. pen., n. 39519/2012). Lo stato d'ansia e tensione della vittima, che nella vicenda è emerso con evidenza, inoltre, «prescinde dall'accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza». In particolare, è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori «abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima», considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612-bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Cass. pen., n. 18646/2017).

Osservazioni

Per i giudici non regge la contestazione sui momenti di avvicinamento della vittima all'imputato; più volte, infatti, è stato evidenziato dalla Corte, che « l'attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all'interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore, atteso che l'ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell'imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell'analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice».

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