Cessazione della convivenza di fatto e obbligo alimentare
28 Febbraio 2020
Massima
Cessata la convivenza di fatto, non può essere accolta l'istanza urgente di assegno alimentare, quando l'ex convivente sia in età giovanile, priva di problemi di salute, con buone prospettive professionali e già inserita nel mondo del lavoro, oltre ad avere la disponibilità di oggetti personali e gioielli di lusso, potendo inoltre la propria madre sostenere l'obbligazione alimentare Il caso
Una signora straniera con una figlia nata da un matrimonio ormai sciolto intraprende, anni or sono, una convivenza a Milano con un italiano. Successivamente la signora si allontana con la figlia ed avanza richiesta di alimenti nei confronti dell'ex convivente, proponendo nel contempo domanda di assegno in via provvisoria, a fronte di una dedotta urgente necessità. Il Presidente respinge la domanda cautelare, non ravvisando nella specie i presupposti per la sussistenza di un diritto agli alimenti in capo all'interessata. La questione
Quali sono i presupposti per riconoscere il diritto agli alimenti, che la l. 76/2016 ha introdotto in caso di cessazione della convivenza di fatto? Le soluzioni giuridiche
Come è noto, alla disciplina degli alimenti il codice civile dedica il titolo tredicesimo del primo libro (artt. 433-448 c.c.), da cui emerge che l'obbligazione relativa consiste nella prestazione dei mezzi di sostentamentonecessari a consentire alla persona una vita dignitosa. L'obbligazione legale degli alimenti ha fondamento, di regola, nella solidarietà familiare, nell'esigenza di aiuto e soccorso tra i membri della famiglia, ove gli stessi vengano a trovarsi in difficoltà. Gli alimenti, ai sensi dell'art. 438 comma 1 c.c., possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. La nozione non è di agevole individuazione; essa è poco utilizzata in ambito civilistico, mentre è assai frequente nella legislazione assistenziale, statale e regionale, e il significato è in tal caso almeno in parte differente dal linguaggio comune: il soggetto in stato di bisogno è il “povero”, colui che non ha alcun mezzo o, comunque, non ha redditi sufficienti a soddisfare le esigenze di vita, né può procurarseli lavorando, o non vi sono beni di cui sia titolare, o di cui comunque abbia disponibilità, da alienare per utilizzarne il ricavato. L'art. 439 c.c. precisa che tra fratelli e sorelle gli alimenti sono dovuti «nella misura dello stretto necessario»; da questo pare desumersi che, tra gli altri soggetti del rapporto, si debba andare al di là di tale limite, e ove si tratti di minore, pure provvedere alla sua educazione ed istruzione (comma 2); il precedente art. 438 comma 2 c.c. limita gli alimenti a quanto indispensabile per la vita dell'alimentando, avuto però riguardo alla sua «posizione sociale». Ciò che è «necessario per la vita» può variare da soggetto a soggetto, e le variabili possono essere le più diverse: la posizione sociale e individuale del soggetto, ma anche l'età; tutte nel rispetto comunque della personalità del medesimo, al fine di provvedere, per quella persona, ai bisogni primari, ma pure all'eventuale esistenza di altre necessità, comprendendosi situazioni di stato di bisogno totale o soltanto parziale, che costituiscono pur sempre presupposto del diritto agli alimenti. Quanto all'elemento soggettivo, relativo ad eventuale colpa o dolo della persona in difficoltà economica e conseguente imputabilità dello stato di bisogno, esso sembra non rilevare; il successivo art. 440 c.c. precisa comunque che gli alimenti si possono ridurre (ma non escludere) per la condotta disordinata e riprovevole dell'alimentato. In altri termini, non rileva che lo stato di bisogno sia sorto per causa attribuibile al soggetto che fa richiesta di alimenti, pur richiedendosi comunque a lui un normale sforzo che gli consenta di procurarsi un lavoro, ovvero liquidare un eventuale patrimonio per ottenere i mezzi con i quali sopravvivere (cfr. FASANO-FIGONE, e in giurisprudenza, cfr. Cass. 12 aprile 2017, n. 9415; Cass. 26 luglio 1966, n. 2066). L'art. 438 comma 2 c.c. specifica che gli alimenti vengono assegnati non solo «in proporzione» al bisogno di chi li domanda, ma anche alle «condizioni economiche di chi li deve somministrare». Al riguardo, l'obbligato è in grado di prestare gli alimenti se è titolare di un reddito, che soddisfi i bisogni necessari dell'alimentando, dopo aver soddisfatto le proprie necessità, i desideri e le aspirazioni e quelle delle persone a suo carico, in modo da assicurare una vita agiata a sé e alla famiglia. Se le sostanze dell'obbligato non sono sufficienti, egli contribuirà solo in parte al superamento del bisogno dell'alimentando e saranno chiamati in concorso altri obbligati di grado successivo. Le classi degli obbligati sono previste dalla legge (art. 433, 434, 436 c.c.) che individua l'obbligo alimentare nell'ambito di una famiglia assai estesa, comprendente anche discendenti e ascendenti di qualunque grado, alcuni affini in linea retta di primo grado, fratelli e sorelle, quindi in funzione della c.d. famiglia parentale, al di là della famiglia nucleare composta da una coppia di coniugi non separati e dai loro figli conviventi; ciò ha fatto financo dubitare dell'inserimento dell'istituto degli alimenti nell'ambito del diritto di famiglia, come ebbe ad adombrare anni or sono la Suprema Corte in una peculiare fattispecie di diritto alimentare del figlio naturale non riconoscibile (Cass. 6 marzo 1970, n. 557). Con precedenza su ogni altro obbligato vi è poi il donatario, ex artt. 437 e 438 u.c. c.c., che viene chiamato a prestare gli alimenti, secondo quanto specificamente previsto. Al riguardo, si osserva come l'elencazione sia tassativa e progressiva, secondo un ordine gerarchico, escludendo il primo soggetto, in grado di soddisfare l'obbligo alimentare, gli altri. Va segnalata in questa sede, proprio per i riflessi normativi in ordine alla materia alimentare, la l. 20 maggio 2016 n. 76, di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e di disciplina delle convivenze di fatto. Essa contiene molti richiami a norme codicistiche e, tra queste, il riferimento alla disciplina degli alimenti, di cui “al titolo XIII del libro primo del codice civile”, applicabile alle unioni civili, in forza dell'esplicita previsione del comma 19 dell'art. 1 della nuova legge. La posizione della persona civilmente unita risulta totalmente equiparata a quella del coniuge nel rapporto alimentare, considerando peraltro che la disciplina dell'unione civile non prevede l'affinità. La medesima disciplina esclude poi la separazione personale, potendosi addivenire allo scioglimento diretto dal vincolo, in modo diretto; dunque, esclusi gli alimenti, potrà la parte in stato di bisogno, ricorrendone i presupposti, richiedere un assegno assimilabile a quello di divorzio. Quanto alle convivenze di fatto, di cui si occupa la pronuncia in commento, in ipotesi di cessazione delle medesime, il comma 65, art. 1, della nuova legge prevede che il giudice stabilisca il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, presupposti mutuati dalla disciplina generale. In tali casi, gli alimenti sono dovuti per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura stabilita ai sensi dell'art. 438, comma 2, c.c., il giudice stesso predeterminandone, al momento della liquidazione, la durata. Si tratta di una palese eccezione alla regola generale, in base alla quale gli alimenti non hanno una durata predeterminata, ma possono venire meno, ove si modifichino le condizioni economiche delle parti. Dispone poi il cit. art. 1 della l. 76/2016 che, ai fini dell'ordine dei soggetti tenuti ex art. 433 c.c., l'obbligo è adempiuto con precedenza su fratelli e sorelle, con consequenziale inserimento dei conviventi di fatto nell'elenco degli obbligati agli alimenti e rivisitazione da parte del legislatore dell'articolo stesso. In generale, si osserva in argomento come, tra ex conviventi, l'obbligazione non si inquadri in termini di mantenimento, bensì di alimenti, riferiti pertanto a quanto occorrente per le fondamentali e primarie esigenze della persona. La norma indicata, tra l'altro, attua una rilevante innovazione per le convivenze, se pur limitata, come si è visto, nell'individuazione della durata e quantificazione del diritto all'assegno alimentare; essa determina l'insorgenza automatica dell'obbligazione relativa (sebbene residuale, vista la posizione nell'elenco delle persone tenute alla prestazione) anche in capo a chi, convivendo, ha deciso di non assumere vincoli e obblighi corrispondenti. In considerazione delle esigenze particolari che devono essere soddisfatte, sussistono previsioni normative e strumenti volti ad assicurare una più tempestiva ed adeguata tutela del diritto alimentare. Il più caratteristico mezzo è quello contemplato dall'art. 446 c.c. (di cui alla pronuncia in esame), ove si prevede che il presidente del Tribunale, finché non sono determinati definitivamente il modo e la misura degli alimenti, può, sentita l'altra parte, ordinare un assegno in via provvisoria, ponendolo, per l'ipotesi di più obbligati, a carico di uno di essi, salvo il regresso nei confronti degli altri. È presupposta la pendenza di una causa alimentare. Si tratta di provvedimento tipico di natura cautelare, che esclude il ricorso alla tutela atipica di cui all'art. 700 c.p.c. e per il quale potrebbe trovare applicazione la disciplina uniforme di cui all'art. 669 bis ss. c,p.c., ivi compresa la facoltà di reclamo al collegio ex art. 669- terdecies c.p.c, anche se la questione è molto dibattuta (Trib. Milano 20 maggio 2015, in Ilfamiliarista,it l'esclude). Osservazioni
La pronuncia in esame è particolarmente interessante. Essa infatti rappresenta la prima applicazione della disciplina, in punto alimenti, introdotta dall'art. 1 comma65 l. 76/2016. Prima di essa si registrano infatti solo alcune decisioni, di carattere strettamente processuale, che non hanno affrontato il merito della problematica. Si è infatti affermato che la domanda di alimenti non può essere introdotta nel procedimento ex art. 316-bis c.c., con cui disciplinare l'affidamento dei figli non matrimoniali, a seguito della cessazione della convivenza dei genitori, stante la previsione dell'art. 40 c.p.c. in presenza della natura camerale del procedimento principale (sull'affidamento), rientrando la domanda di alimenti nel rito ordinario contenzioso ed essendo di competenza del tribunale in composizione monocratica (cfr. Trib. Roma 17 aprile 2017, in IlFamiliarista; Trib. Milano 23 gennaio 2017, in Il Familiarista, ove si precisa altresì che gli alimenti possono essere chiesti solo per le convivenze cessate dopo l'entrata in vigore della l. 76/2016, pur dovendosi tenere conto, ai fini della relativa durata, del periodo di tempo trascorso insieme in precedenza). In applicazione dei principi generali sopra esposti, nella specie è stata esclusa la ricorrenza dei presupposti della tutela cautelare, atteso che l'istante, in giovane età, dotata di competenze professionali specifiche e già inserita nel mondo del lavoro, doveva ritenersi in grado di far fronte al proprio mantenimento, possedendo altresì gioielli e preziosi, oggetto di donazione del convivente, insieme con abiti e accessori di lusso. Nel contempo si dà atto come la madre dell'istante, chiamata ad assolvere l'obbligo alimentare con precedenza rispetto all'ex convivente, fosse in grado di provvedere. Si tratta di una decisione certamente condivisibile ed aderente al testo della l. 76/2016, profondamente diverso dall'originario disegno di legge, nel quale, in caso di cessazione della convivenza di fatto, veniva richiamata la disciplina dell'art. 156 c.c., con un'estensione del regime dell'assegno di mantenimento. La solidarietà familiare, al momento dello scioglimento della convivenza di fatto, si manifesta dunque solo nell'ambito dell'obbligazione alimentare. Per di più, l'ex convivente può essere tenuto ad adempiere solo quando non vi siano parenti (o un eventuale donatario) di grado precedente, atteso la relativa obbligazione precede quella dei fratelli e delle sorelle. Soluzione questa che potrebbe dare luogo a conseguenze ingiuste in quelle fattispecie, magari connotata dalla presenza di figli comuni della coppia, in cui uno dei due conviventi, per fatti a sé non imputabili, si trovi di punto in bianco a veder cessato il proprio progetto familiare, senza disporre di mezzi per il proprio sostentamento. |