Illegittima l'applicazione retroattiva di norme che trasformano la pena “fuori” dal carcere in una pena da scontare “dentro”
03 Marzo 2020
È costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, ord. pen. si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 3/2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.
Va dichiarata anche l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), della legge n. 3/2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell'entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso.
Sull'aggiunta del peculato e induzione indebita nell'ombrello del 4-bis vengono restituiti gli atti ai giudici a quo. A tale ultimo proposito, lo stesso giorno in cui venivano depositata le motivazioni, veniva trattata, come da calendario dei lavori, l'altra questione portati innanzi alla Corte costituzionale della spazzacorrotti afferente proprio con riferimento all'inserimento dei reati di peculato e induzione indebita nell'elenco dei reati cosiddetti “ostativi” (che precludono al condannato l'accesso a qualunque beneficio penitenziario in assenza di collaborazione con la giustizia) che non sarebbe compatibile con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena previsti dagli articoli 3 e 27 della Costituzione). Ebbene, alla luce della depositata sentenza n. 32/2020 sulla irretroattività, i giudici delle leggi hanno restituito gli atti ai giudici a quo per rivalutare le loro censure.
L'overturning sulla retroattività delle norme della fase esecutiva e dell'ordinamento penitenziario. La rivisitazione del diritto vivente – per il quale le norme disciplinanti l'esecuzione della pena non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum – porta a concludere che, di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale, l'applicazione della disposizione censurata ai condannati per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di irretroattività della legge penale più sfavorevole ex art. 25 Cost..
I recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo... La sentenza della Consulta, una volta premesso che per la verità il quadro normativo è ricco di diverse sfumature (in quanto in alcune occasioni lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare espressamente l'applicabilità di norme incidenti sul regime di esecuzione della pena soltanto alle condanne pronunciate per fatti posteriori all'entrata in vigore delle norme medesime, come nel d.l. nn. 52/1991 e 306/1992, legge n. 279/2002), pone l'accento sui recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte EDU sull'estensione della garanzia dell'art. 7 CEDU, con riferimento almeno a talune modifiche in peius del regime dell'esecuzione delle pene; recenti sviluppi che l'ordinamento italiano non può del resto ignorare.
…irretroattività per le norme che determinano una modificazione della portata applicativa della pena. Si cita in particolare la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna del 2013, ove la Grande Charme ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull'esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all'art. 7 CEDU, eccezion fatta però per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Altrimenti, ha osservato la Corte di Strasburgo, «gli Stati resterebbero liberi di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l'interessato. Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – conclude la Corte – l'art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).
La stretta connessione tra il principio di legalità e il diritto di difesa. I giudici della Consulta condividono quanto affermato dall'unica pronuncia di Cassazione che si allontanava dal diritto vivente (n. 12541 del 2019 che attribuiva natura sostanziale alle norme processuali sull'esecuzione della pena, come l'art. 656 c.p.p.), sugli effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal mutamento, nel corso delle indagini e poi del processo, del quadro normativo sull'esecuzione della pena. Infatti, l'imputato può determinarsi a rinunciare al proprio “diritto di difendersi provando” e concordare invece con il pubblico ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando comunque nella garanzia di non dover “passare per il carcere” grazie al meccanismo sospensivo di cui all'art. 656, comma 5, c.p.p.; ovvero decidere, all'opposto, di affrontare il dibattimento, confidando nella prospettiva che la pena che gli verrà inflitta, anche in caso di condanna, non comporterà verosimilmente il suo ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa in vigore al momento del fatto. Una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive (e prima ancora delle libere scelte di agire, cfr Corte cost. n. 364/1988), esponendo l'imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell'esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili.
Illegittima l'applicazione retroattiva di norme che trasformano la pena “fuori” dal carcere in una pena da scontrare “dentro” il carcere. Occorre allora verificare se normativa sopravvenuta comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, oppure una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato.
Il “dentro” e “fuori” anche in relazione all'aspettativa del tipo di pena al momento del reato. E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo. Ai fini della verifica del carattere deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che il condannato possa essere assoggettato a un trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto, in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione (come le misure alternative alla detenzione).
Distinzione tra misure “extramurarie”... Viene quindi censurata l'applicazione retroattiva della legge (spazzacorrotti) peggiorativa, in relazione agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione, e in particolare all'affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme, la semilibertà e la liberazione condizionale, quali misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto, finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un'accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.
…ed “intramurarie”… Rimanendo all'interno del principio di legalità, la Corte costituzionale ritiene invece che l'art. 25 Cost. non si opponga a un'applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del lavoro all'esterno.
…ove la censura attiene alla rieducazione del condannato. Ciò non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. Ciò si porrebbe in contrasto – se non con l'art. 25, comma 2, Cost. – con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena Un simile vulnus (che si è verificato in cui dei casi oggetto del procedimento a quo) comporta che il negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019), quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società, in vista e in un'ottica di progressione trattamentale e di scala rieducativa, dell'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto.
Incostituzionalità della norma avente veste processuale dell'impossibilità di sospendere l'ordine di carcerazione. Identica conclusione di contrasto con la Carta costituzionale viene tracciato in relazione al divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena di cui all'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.. A tale conclusione non è di ostacolo la collocazione di tale ultima disposizione nel codice di procedura penale, da cui la giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto la sua sottoposizione al generale principio tempus regit actum. Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non può mai essere considerata decisiva ai fini dell'individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile.
Effetti della sentenza della Consulta. A seguito della sentenza n. 32/2020, quindi, la legge n. 3/2019 non si potrà applicare retroattivamente ai condannati per i delitti contro la pubblica amministrazione ivi previsti dalla legge spazzacorrotti commessi prima del 31 gennaio 2019 per i quali intervenga successiva condanna definitiva (che rimangono disciplinati dalla vecchia normativa, con conseguente sospensione dell'ordine di carcerazione per pene entro i quattro anni di detenzione e possibile concessione di misure alternative extramurarie); mentre si potrà applicare retroattivamente la legge n. 3/2019 con riferimento al divieto in accesso per i suddetti condannati ai benefici penitenziari dei permessi premio e del lavoro all'esterno (in assenza di collaborazione con la giustizia), a meno che il condannato per uno dei reati ivi elencati che, prima dell'entrata in vigore della legge medesima, abbia raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso. |