Eccezione di convivenza ultratriennale dei coniugi

Vincenzo Fasano
09 Marzo 2020

La stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del matrimonio impedisce la dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale ecclesiastico.
Massima

La stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del matrimonio impedisce la dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale ecclesiastico. La convivenza continuativa ultratriennale non può essere messa in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di nullità ecclesiastica del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Tale mancanza di adesione affettiva può acquisire rilevanza giuridica solo se i coniugi abbiano manifestato inequivocabilmente all'esterno la piena volontà di considerare la convivenza come una semplice coabitazione. Occorre parimenti che sia manifesta nei coniugi la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione ovvero l'affermazione comune dell'esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione.

Il caso

Dopo aver ottenuto la dichiarazione di nullità del proprio matrimonio concordatario celebrato il 17 settembre 2011, l'uomo adì la Corte d'Appello di Perugia, al fine di vedere riconosciuti gli effetti del procedimento canonico anche nell'ordinamento italiano. Perfezionatosi il contraddittorio con la costituzione della donna, la cui posizione era presumibilmente ostativa all'accoglimento della domanda, la Corte di Appello di Perugia respinse la domanda dell'uomo, richiamando espressamente la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ. sez. un., n 16379/2014), sul presupposto della stabile convivenza dei coniugi per oltre tre anni dalla data del matrimonio.

Il ricorrente propose ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte di Appello di Perugia, precisando la propria posizione attraverso due motivi: 1) violazione e falsa applicazione dell'art. 8, comma 2, della legge n. 121/1985 e dell'art. 797 c.p.c. sul presupposto che secondo la giurisprudenza delle SS.UU. i due requisiti (stabilità ed esteriorità) della convivenza ultratriennale, ostativi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, fossero nel suo caso insussistenti; 2) omesso esame di un fatto decisivo, rilevando che dalla sentenza ecclesiastica non si sarebbe evinta né la stabilità né la continuità della convivenza che sarebbe stata espressione di un matrimonio meramente formale.

La questione

In tema di delibazione di pronunciamenti ecclesiastici di nullità matrimoniali, il dato incontroverso della convivenza continuativa ultratriennale può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di nullità ecclesiastica del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi?

Le soluzioni giuridiche

L'operazione posta in atto per ridurre l'applicazione dell'istituto della delibazione delle decisioni ecclesiastiche ebbe inizio con l'introduzione del criterio secondo cui la tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole costituisce esigenza imprescindibile e inderogabile in materia matrimoniale. Attraverso la cosiddetta simulazione unilaterale, ovvero l'esclusione da parte di uno dei nubendi del matrimonio stesso o di sue proprietà o elementi essenziali, la Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza del 1° ottobre 1982, n. 5026, pronunciata a Sezioni Unite, con orientamento ormai consolidato, introdusse la buona fede nel novero dei principi di ordine pubblico. La Corte di Cassazione, però, in quell'occasione, introdusse delle limitazioni all'operatività di tale criterio, precisando che, anche in presenza di un'esclusione posta unilateralmente da uno solo dei coniugi, si poteva comunque pervenire alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale nelle ipotesi in cui il coniuge non simulante, all'epoca delle nozze, fosse stato a conoscenza dell'altrui intenzione escludente, avesse potuto conoscerla usando l'ordinaria diligenza, o avesse egli stesso invocato la delibazione della sentenza.

La Corte di Cassazione successivamente ridusse ulteriormente la possibilità di delibazione facendo leva sulla cosiddetta rilevanza attribuita all'elemento della convivenza coniugale. Col pretesto di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, i giudici di legittimità imposero che, nella legislazione civile, l'invalidità del matrimonio sia soggetta a termini di decadenza della relativa azione, al contrario della nullità canonica, ove è rilevabile senza limiti di tempo perché assoluta ed insanabile. Rilevante fu la sentenza Cass. civ. 20 gennaio 2011, n. 1343, che ritenne «ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, pronunciata a motivo del rifiuto della procreazione, sottaciuto da un coniuge all'altro, la loro particolarmente prolungata convivenza oltre il matrimonio».

La questione della rilevanza della convivenza coniugale, in quanto ostativa al riconoscimento delle nullità canoniche, fu sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite che si pronunciarono con la sentenza n. 16379/2014, attraverso la quale stabilirono la preminenza nell'ordinamento statale del matrimonio-rapporto a discapito del matrimonio-atto volitivo. La valenza generale che le Sezioni Unite pretesero di attribuire alla convivenza coniugale, quale elemento idoneo a precludere la delibazione della declaratoria canonica di nullità da qualsiasi causa essa derivi, si rivelò abnorme in quanto finì per intervenire in maniera indiscriminata, anche in situazioni nelle quali la lunga durata della vita matrimoniale non avrebbe potuto essere assunta a dimostrazione della volontà degli interessati di permanere nel vincolo, non avendo senso parlare di rinuncia a un diritto da parte di chi, ad esempio, non poteva concretamente esercitarlo, come ad esempio in casi di nullità di matrimonio per incapacità a contrarre le nozze. Ad ulteriore conferma che la prolungata convivenza fra i coniugi non poteva essere ritenuta principio di ordine pubblico, depone la constatazione che il verificarsi di una situazione di lunga convivenza non preclude la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, anche dopo decenni di vita matrimoniale. Se si fosse realmente trattato di un principio di ordine pubblico, una ultra triennale comunione coniugale avrebbe potuto ostacolare anche la cessazione degli effetti civili, quanto meno nella fattispecie di una richiesta unilaterale di un coniuge, con relativa e consequenziale opposizione dell'altro coniuge contrario all'interruzione del legame.

L'ordinanza in commento rientra fra quei pronunciamenti che chiariscono la portata delle decisioni Cass. sez, un., 17 luglio 2014, n. 16379, e Cass. civ., sez. un. 17 luglio 2014, n. 16380. In quelle occasioni, infatti, le Sezioni Unite enunciarono il principio secondo cui la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario regolarmente trascritto, connotando nell'essenziale l'istituto del matrimonio nell'ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di ordine pubblico italiano e, pertanto, anche in applicazione dell'art. 7, comma 1, Cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico.

L'ordinanza in esame se, da un lato, ribadisce che la convivenza coniugale, elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ordine pubblico italiano ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio; dall'altro chiarisce che la convivenza continuativa superiore a tre anni non può essere superata da una semplice dichiarazione unilaterale di mancata adesione affettiva al rapporto matrimoniale da parte di uno o di entrambi i coniugi. Affinché l'assenza di affectio coniugalis possa avere una rilevanza giuridica, permettendo l'accoglimento della richiesta di delibazione, è necessario che entrambi i coniugi la riconoscano al momento della proposizione della domanda di delibazione.

L'ordinanza spiega quali siano gli elementi utili per rendere inefficace l'eccezione di convivenza triennale:

1) che i coniugi abbiano esternato in modo inequivocabile la volontà di non considerare la convivenza un elemento fondamentale del matrimonio, ritenendo il vivere assieme alla stregua di una semplice coabitazione;

2) che i coniugi siano consapevoli che questo tipo di dichiarazioni possano avere delle conseguenze giuridiche. Essendo fondamentale solo la ricognizione comune ed esteriorizzata della non rilevanza coniugale della convivenza, risulta del tutto ininfluente in sede di delibazione accertare se l'unione coniugale ultratriennale avesse contemplato l'adesione affettiva di uno o entrambi i coniugi al dato fattuale della convivenza. La mancanza di adesione affettiva acquisterebbe rilevanza giuridica in seno al procedimento di delibazione solo se concordemente riconosciuta e manifestata all'esterno.

Nel caso della fattispecie esaminata, non essendo stato dedotta o provata la mancanza di affectio coniugalis, situazione peraltro contestato dalla controricorrente, la Corte di cassazione rigettò il ricorso proposto dal ricorrente perché le allegazioni dell'uomo restavano confinate ad una sua privata e personale “non adesione affettiva” al matrimonio che non impedì alle parti di vivere insieme, come coniugi, per oltre tre anni.

Osservazioni

La tesi proposta dall'ordinanza suscita perplessità perché omette di spiegare se la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni, possa realmente considerarsi un principio di ordine pubblico italiano e, pertanto, se essa sia realmente ostativa al riconoscimento di una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale. Sarebbe stato opportuno chiarire, stante anche la delicatezza della questione, quali siano i principi di ordine pubblico che impediscano la delibazione delle sentenze ecclesiastiche. Bisogna realmente fare riferimento al concetto di ordine pubblico interno italiano, come vorrebbe la giurisprudenza della Cassazione, o non sarebbe piuttosto preferibile il ricorso al concetto di ordine pubblico internazionale?

L'indirizzo metodologicamente più appropriato sarebbe stato infatti quello di riferirsi ai principi di ordine pubblico richiamati dall'art. 64 l. n. 218/1995 che precisa i limiti all'efficacia in Italia di sentenze promananti da un ordinamento diverso da quello italiano. Non si può infatti dimenticare che i Patti Lateranensi sottoscritti tra il Regno d'Italia e la Santa Sede l'11 febbraio 1929 (compreso l'Accordo di revisione del 18 febbraio 1984) siano a tutti gli effetti un trattato internazionale. Non si comprende perché, in assenza di una ragione plausibile, il meccanismo di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale debba essere diverso da quello del riconoscimento delle sentenze straniere di cui all'art. 64 l. n. 218/1995. Motivazioni giuridiche e storiche propenderebbero in senso contrario.

Guida all'approfondimento

O. Fumagalli Carulli, Matrimonio ed enti tra libertà religiosa e intervento dello Stato, in Vita&Pensiero, Milano, 2012, 75-103;

M. Canonico, Delibazione di sentenze ecclesiastiche, ovvero il cammello per la cruna dell'ago, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, www.statoechiese.it, n. 25/2015, 13 luglio 2015;

A. Sammassimo, Il nuovo ordine pubblico concordatario, in www.statoechiese.it, n. 31/2015, 19 ottobre 2015.

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