Violenza sessuale e risarcimento del danno
19 Marzo 2020
È stato più volte ripetuto, in dottrina ed in giurisprudenza, che, con il ricorso alla nozione di "atto sessuale", il legislatore ha inteso superare le incertezze che, nella soluzione di specifiche questioni interpretative, erano sorte sulla base delle previgenti figure di reato della congiunzione carnale violenta, abusiva e fraudolenta (ex artt. 519 e 520 c.p., norme ora abrogate) e degli atti di libidine (ex art. 521 c.p., norma ora abrogata), preferendo così unificare le precedenti fattispecie incriminatrici in un'unica figura di reato e rappresentando ciò uno dei punti qualificanti della riforma introdotta con la l. 15 febbraio 1996, n. 66 ("norme contro la violenza sessuale"), tesa a tutelare maggiormente la vittima dei reati sessuali con la rimozione degli inconvenienti che il ricorso alla nozione di atti sessuali avrebbe dovuto eliminare. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è condivisibilmente orientata nel senso di ritenere che la condotta vietata dall'art. 609-bis c.p., ricomprende, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest'ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale. Pertanto la valutazione del giudice sulla sussistenza dell'elemento oggettivo non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ed al grado di intensità fisica del contatto instaurato, ma deve tenere conto dell'intero contesto "di azione" in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva, esaminando la vicenda con un approccio interpretativo di tipo sintetico: di conseguenza possono costituire un'indebita intrusione fisica nella sfera sessuale non solo i toccamenti delle zone genitali, ma anche quelli delle zone ritenute "erogene" (ossia nelle zone in grado di stimolare l'istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed antropologico-sociologica (Cass. pen., 2 luglio 2004, n. 37395). Sul punto è opportuno chiarire come la Corte di cassazione abbia più volte ed anche recentemente sottolineato, che il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato, non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto, con un approccio interpretativo di tipo sintetico, dell'intero "contesto di azione" in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva (Cass. pen.,17 febbraio 2015, n. 24683), tanto perché la condotta può essere determinata dall'errore, dalla casualità oppure perché le circostanze del caso concreto, in relazione alla parte del corpo attinta, lasciano fondatamente ritenere l'insussistenza di una intrusione nella sfera sessuale della vittima, anche in virtù della stessa percezione che quest'ultima abbia avuto della condotta altrui. Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale, la rilevanza di tutti quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente definibili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo, anche con finalità del tutto diverse, come i baci o gli abbracci, costituisce oggetto di accertamento da parte del giudice del merito, secondo una valutazione che tenga conto della condotta nel suo complesso, del contesto sociale e culturale in cui l'azione è stata realizzata, della sua incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale (Cass. pen., 13 gennaio 2015, n. 964). Ne deriva che per decifrare il significato di "atto sessuale" è necessario fare riferimento sia ad un criterio oggettivistico-anatomico (parti del corpo attinte) e sia ad un criterio oggettivistico-contestuale, che tenga conto cioè del "contesto di azione", in maniera che dalle modalità della condotta nel suo complesso e da altri elementi significativi si accerti se vi sia stata o meno una indebita compromissione della libera determinazione della sfera sessuale altrui, accertamento che, implicando valutazioni fattuali, spetta al giudice del merito compiere e che se, adeguatamente e logicamente motivato, si sottrae al controllo di legittimità. Su questa scia, si è innestata una connessa questione che ha portato progressivamente la giurisprudenza di legittimità a definire il concetto di violenza ai fini della configurabilità del reato in esame. E' stato allora precisato che la nozione di violenza nel delitto di cui all'art. 609-bis c.p., non è necessariamente limitata alla esplicazione di energia fisica direttamente posta in essere verso la persona offesa, ma comprende qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, così costretto a compiere o subire atti sessuali contro la propria volontà, come nel caso in cui la persona offesa non abbia, per qualsiasi motivo, potuto opporre una valida resistenza (Cass. pen., 12 gennaio 2010, n. 6643). Ne consegue che, in tema di violenza sessuale, vanno considerati atti sessuali anche quelli insidiosi e rapidi, che riguardino zone erogene su persona non consenziente come palpamenti, sfregamenti, baci (Cass. pen., 26 settembre 2013, n. 42871). Non si richiede pertanto che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che la volontà risulti coartata e che, di conseguenza, l'invasione della sera sessuale non sia voluta dalla vittima. Ne deriva che l'elemento oggettivo del reato, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nell'intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente all'insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso (Cass. pen., 18 luglio 2014, n. 46170), ciò in quanto l'elemento della violenza può estrinsecarsi, nella fattispecie incriminatrice de qua, oltre che in una sopraffazione fisica, anche nel compimento insidiosamente rapido dell'azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell'impossibilità di difendersi (Cass. pen., 15 giugno 2010, n. 27273). Da tutto ciò si deduce, come si è in precedenza accennato, che il baricentro dell'incriminazione si è spostato da un aspetto della tutela riguardante la mera libertà sessuale, come bene giuridico rientrante nella categoria della moralità pubblica del buon costume (Titolo IX, capo I del codice penale), ad un altro aspetto della tutela, che contiene il primo ma non lo esaurisce, riguardante la libertà personale tout court, comprendente anche e soprattutto il diritto della libera autodeterminazione sessuale, come potere di disporre della propria persona e del proprio corpo, senza che siano ammesse intrusioni non consentite dal titolare del diritto, una specie di "noli me tangere", ossia un divieto assoluto di intromissione nella sfera intima, sessuale, della persona, che si traduce nella proibizione di qualsiasi intrusione corporale, senza consenso, essendo vietato, secondo la ratio dell'incriminazione, toccare il corpo altrui nelle zone genitali ed in quelle considerate "erogene" e quindi invadere, per qualsiasi ragione, la sfera intima della persona, anche attraverso il compimento di atti "a sorpresa", in quanto ciò costituisce un "atto di violenza" a tutti gli effetti, risolvendosi in definitiva in una forma di imposizione e dunque in una costrizione, perché la violenza penalmente rilevante non consiste necessariamente nell'uso della forza fisica diretta a percuotere o a ledere ma può risolversi nell'uso di una qualsiasi energia, anche di ridottissime proporzioni, prodotta dal movimento corporeo che attinge una persona senza consenso o a sua insaputa per impedirne il dissenso. Ciò spiega la ragione in base alla quale la fattispecie incriminatrice è costruita sul dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicché non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell'agente né rilevano possibili fini ulteriori - di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale - dal medesimo perseguiti (Cass. pen., 3 febbraio 2015, n. 4913). Peraltro, e conclusivamente, la fattispecie incriminatrice della violenza sessuale è integrata anche in assenza di contatto fisico tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, come quando gli "atti sessuali" coinvolgano oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e siano finalizzati ed idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale, in modo tale da costringere o, anche solo, da indurre la vittima a compiere su se stessa atti sessuali di autoerotismo (Cass. pen., 24 marzo 2011, n. 11958).
I riflessi civilistici del delitto di violenza sessuale
È ben possibile che l'illecito civile per il quale si pretende il risarcimento del danno poggi le sue fondamenta su di una condotta integratrice di uno o più illeciti penali, come nel caso della richiesta risarcitoria formulata dalla vittima di violenza sessuale.
Sicché quando il fatto illecito integra gli estremi anche di un reato, ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., deve essere risarcito ogni danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, indipendentemente dalla sua rilevanza costituzionale. Ai fini di una corretta qualificazione e liquidazione del danno non patrimoniale subito da tale vittima è necessario un rapido excursus dello stesso nel diritto vivente della giurisprudenza; questa esigenza sembra addirittura imposta da recenti pronunce della Cassazione. In estrema sintesi, il giudice della nomofilachia con le note sentenze di San Martino 2008, ha precisato che il danno non patrimoniale, connotato da tipicità, è risarcibile: in tutte le fattispecie di reato ex art. 185 c.p., nelle ipotesi specificamente previste dalla legge e quando ricorra la lesione dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione e, cioè, in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975 e 26976). In mancanza di una di queste "tre chiavi" non si apre la porta del risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (in questi termini, v. Spera, La tabella del tribunale di Milano, in Ridare.it). I pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili se costituiscono la «conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto (...) e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c.» e devono rientrare nell'ambito dell'art. 2059 c.c. Si deve, in definitiva, affermare che «di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere». E tuttavia le Sez. Unite ribadiscono che «Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre». La nozione di «danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata»; non ne parla la legge ed è inadeguata se si pensa che la sofferenza morale cagionata da reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo. Nell'ambito del danno non patrimoniale il danno morale non individua una autonoma sottocategoria, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi, quello costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento».
Nei solchi tracciati dalle citate sentenze di San Martino si può ancora oggi sostenere quanto segue: --a) il danno non patrimoniale rimane caratterizzato dalla tipicità ex art. 2059 c.c.; --b) conseguentemente, in assenza di una delle "tre chiavi" innanzi citate non è possibile accedere al risarcimento del danno non patrimoniale, sebbene risulti provata la sussistenza del danno non patrimoniale-esistenziale (inteso come danno conseguenza); --c) il danno non patrimoniale può consistere in aspetti di sofferenza soggettiva e cioè un patema d'animo interiore (prima definito danno morale transeunte) e/o in aspetti relazionali e cioè nell'alterazione delle condizioni di vita della vittima (primaria o secondaria) o, se si preferisce, nei pregiudizi esistenziali. Solamente nell'ipotesi di lesione del bene salute (danno biologico, quale species del danno non patrimoniale) è risarcito altresì il pregiudizio degli aspetti anatomo/funzionali della vittima (tutti questi aspetti sono considerati e valutati unitariamente anche nella tabella milanese). Da un'attenta ricognizione dell'evoluzione giurisprudenziale sul danno non patrimoniale, si evince che, in definitiva, tutti i pregiudizi riconducibili al genus del danno non patrimoniale possono essere ricompresi in due sole species: --a) un patema d'animo cd. “danno morale soggettivo”, che attiene alla sfera interiore del soggetto; --b) un danno che attiene alla sfera esteriore del soggetto, che in tal senso può anche definirsi “esistenziale”, nella nozione accolta dalle Sezioni Unite: pregiudizio che «l'illecito provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno» (in questi termini, vedi Spera, Time out: il “decalogo” della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina legale minano le sentenze di San Martino, in Ridare.it. Da ciò consegue, in ogni caso che il giudice deve risarcire l'intero danno, ma in pari tempo evitare duplicazioni risarcitorie di voci (ancora una volta “etichette”) che riguardano, invece, i medesimi pregiudizi: il danno non patrimoniale non è mai in re ipsa, ma deve essere allegato e provato, sia pure mediante presunzioni. E' infatti possibile che alla lesione del diritto (anche inviolabile) non segua alcun risarcimento o perché l'offesa al bene giuridico sia lieve o perché il danno non sia serio o sia addirittura inesistente.
In questa ottica, si può meglio comprendere la seguente affermazione della Cassazione: «sembrano efficacemente scolpiti, in questa disposizione di legge [art. 612 bis c.p.] -per quanto destinata ad operare in un ristretto territorio del diritto penale -i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell'individuo: il dolore interiore, l'alterazione della vita quotidiana. Danni diversi, e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni (che anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita "esterna" per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura come una liberazione la sua scomparsa). È lecito ipotizzare, come sostiene il ricorrente incidentale, che la categoria del danno esistenziale risulti "indefinita e atipica". Ma ciò è la probabile conseguenza dell'essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e atipica» (Cass. civ., 20 novembre 2012, n. 20292). Pertanto, il danno relazionale o, se si preferisce “esistenziale”, e la sofferenza umana possono essere “indefiniti e atipici”, ma ciò significa solamente che le conseguenze dell'illecito sulla persona umana possono assumere infinite caratteristiche e peculiarità. E' facilmente riscontrabile (ad esempio) che un (semplice) danno biologico temporaneo di pochi giorni ed un danno biologico permanente del 3% alla caviglia possano comportare infinite variabili di pregiudizi in tema di sofferenza psico-fisica e compromissioni relazionali, in riferimento ai seguenti peculiari aspetti della vittima: l'età, il lavoro, i suoi hobby, le modalità di trascorrere il tempo libero; con l'avvertenza che tutte queste variabili possono mutare nel tempo e nello spazio ed essere a loro volta condizionate dalle pregresse esperienze di vita, dal soggettivo grado di resilienza (e cioè dalla capacità di far fronte al dolore ed alle avversità della vita), dalle specifiche abitudini dei prossimi congiunti e degli amici. Orbene, deve ritenersi oramai dato acquisito quello della unicità categoriale del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. e della sua natura omnicomprensiva, principio secondo cui nella sofferenza interiore rientrano «ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione» (Cass. civ., 27 marzo 2018, n. 7513). In altri termini, per natura onnicomprensiva del danno patrimoniale, deve intendersi che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari. È dunque pacifico che unitarietà del danno non patrimoniale non significa che in seno ad esso debbano necessariamente convivere le componenti (descrittive) biologica, morale ed esistenziale. Infatti, giova ricordare come anche ove il fatto illecito integri gli estremi di un reato ex art. 185 c.p. il danno morale costituisca pur sempre un danno-conseguenza e dunque non possa mai essere considerato un danno in re ipsa. In particolare, dalle Sezioni Unite del 2008 il principio ha trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità, per cui può conclusivamente affermarsi che il "danno non patrimoniale", costituendo anch'esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi in re ipsa (Cass. civ., 13 ottobre 2016, n. 20643; Cass. civ., 24 settembre 2013, n. 21865). Sicché si è osservato: occorre, infatti, distinguere, l'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale che si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela (nella specie l'art. 185 c.p.: ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui), che si risolve nella estensione della responsabilità civile dell'autore dell'illecito al ristoro di un'ulteriore tipologia di pregiudizio di natura non economica, dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall'ordinamento giuridico, che richiedono la dimostrazione (che implica evidentemente la allegazione) della esistenza del danno, della sua derivazione causale dall'evento lesivo della situazione giuridica tutelata, nonché della sua entità (intensità o dimensione del pregiudizio. Vittime riflesse
Anche i familiari della persona offesa dal reato di violenza sessuale, specie se minorenne, pur non essendo vittime primarie dell'illecito penale, abbiano diritto iure proprio al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 2059 c.c. La costante giurisprudenza ritiene infatti che il risarcimento dei danni da reato è dovuto non solo alla persona offesa titolare del bene giuridico tutelato dalla norma, bensì a tutti i soggetti danneggiati: «l'affermazione, secondo la quale il danno morale spetta alla sola vittima del reato e non ad altri è destituita di ogni fondamento giuridico trovando una smentita letterale nel combinato disposto dell'art. 74 c.p.p. e art. 185 cod. pen., non facendo tale ultima norma riferimento alla sola persona offesa dal reato, ma al danneggiato in genere» (Cass. pen., 25 maggio 2012, n. 20231). La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la pronuncia del 1° luglio 2002, n. 9556, in materia di risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dai parenti della persona offesa, ha chiarito che «ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile”; ed ancora “'attenzione deve spostarsi dal danno al danneggiato, poiché il problema cruciale diviene non tanto quello della propagazione di un unico danno, bensì quello della individuazione delle c.d. vittime secondarie» (nella giurisprudenza di merito Trib. Milano, 18 giugno 1990, n. 4768, in “Il Foro Italiano", 1990, I, p. 3498). La Corte di Cassazione ha quindi recepito il criterio indicato dalla più recente dottrina per la selezione delle c.d. vittime secondarie aventi diritto al risarcimento del danno consistente “nella titolarità di una situazione qualificata dal contatto con la vittima che normalmente si identifica con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce necessariamente, dovendosi anche dare risalto a certi particolari legami di fatto”. Le Sezioni Unite hanno riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale subito dai parenti della vittima di un reato in forza del solo art. 185 c.p., senza ritenere necessario che l'interesse delle vittime c.d. secondarie abbia rilevanza costituzionale. La risarcibilità del danno non patrimoniale patito dai genitori della persona offesa proprio in materia di atti sessuali con minore o di violenza sessuale è stata successivamente riconosciuta non solo dalla giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 9 giugno 2005; Trib. Milano, 17 dicembre 2004), ma è stata ribadita anche dalla Corte di Cassazione: «ai prossimi congiunti della vittima di un reato (nella specie abuso sessuale su minore) spetta iure proprio il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto dell'art. 1223 del codice civile né quello di cui all'art. 185 del codice penale, in quanto anche tale danno trova causa diretta e immediata nel fatto illecito» (Cass. pen., 22 ottobre 2007, n. 38952). Peraltro in tale pronuncia la Corte di Cassazione ha riconosciuto che nel caso di reati sessuali, anche l'interesse dei genitori, vittime secondarie, ha rilevanza costituzionale «l'attribuzione di tale legittimazione iure proprio si fonda anche e soprattutto sul riconoscimento dei "diritti della famiglia" previsto dall'art. 29 Cost., comma 1, il quale riconoscimento, come statuito da questa corte, sezione terza civile, con la sentenza n 8827 del 2003, deve essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell'ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell'individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo anche a gratificazioni e reciproci diritti. Da tale rapporto interpersonale discende che il fatto lesivo commesso in danno di un soggetto esplica i propri effetti anche nell'ambito del rapporto familiare». Sicché l'abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, il quale danno può essere di natura patrimoniale, allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati dall'illecito. Conclusioni
Secondo la Corte di Cassazione, nella violenza sessuale la persona offesa, tanto più se si tratta di minore infraquattordicenne, è contemporaneamente soggetto passivo e oggetto di violenza e il soggetto passivo è degradato ad oggetto (Cass. pen., 21 giugno 2011, n. 13611).
Il degrado inferto dal violentatore non attiene soltanto al corpo, ma anche alla dimensione spirituale dell'offeso, ridotto a mero oggetto nelle mani dell'autore del reato.
Secondo la Corte, dunque, corretta risulta la rideterminazione del danno morale in via equitativa, stante la difficoltà da parte del danneggiato di proporne una precisa quantificazione e alla luce dei perniciosi effetti ultrattivi nell'equilibrio psico/fisico del minore. La Suprema Corte (Cass., 11 giugno 2009 n. 13530) aveva descritto i diversi interessi fondamentali oltraggiati dalla violenza sessuale, quali l'integrità morale, la dignità, la libertà e la salute psichica.
Tale ultima pronuncia era fondata sull'orientamento espresso da Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972, in tema di danno non patrimoniale, da considerare unitariamente e da liquidare in via omnicomprensiva, tenendo conto specificamente delle singole offese ai diritti inviolabili coinvolti nella vicenda.
Secondo la Corte «in relazione ad un fatto illecito costituente anche fatto reato continuato per atti di libidine in danno di minore, la valutazione unitaria del danno non patrimoniale deve esprimere analiticamente l'iter logico ponderale delle poste (sinteticamente descritte e tipicizzate in relazione agli interessi o beni costituzionali del minore lesi) e non già una apodittica affermazione di procedere ad un criterio arbitrario di equità pura, non controllabile per la sua satisfattività. La posta del danno morale deve essere dunque comparata a quella del danno biologico, e non è detto a priori che il danno morale sia sempre e necessariamente una quota del danno alla salute, specie quando le lesioni attengano a beni giuridici essenzialmente diversi, tanto da essere inclusi un diverse norme della Costituzione. Al contrario (come nella fattispecie in esame) il danno morale potrà assumere il valore di un danno ingiusto più grave, in relazione all'attentato alla dignità morale del minore ed alla compromissione del suo sviluppo interrelazionale e sentimentale»(così, in motivazione, la citata sentenza Cass. n 13530/2009).
Ma anche recentemente la Cassazione ha evidenziato la medesima valutazione critica, con il seguente principio di diritto: «la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. "pura", consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell'esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell'integralità del risarcimento. Nel consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell'operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost.) sia nel vizio di violazione dell'art. 1226 c.c. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva operato una drastica riduzione dell'importo dovuto ai danneggiati a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a reato di violenza sessuale sulla base del rilievo, puramente assertivo, secondo cui il maggiore importo liquidato dal primo giudice era "sproporzionato" rispetto ai fatti e la riduzione dello stesso appariva "conforme a giustizia")» (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972).
Ebbene il degrado inferto dal violentatore non attiene soltanto al corpo, ma anche alla dimensione spirituale dell'offeso, la cui persona è dall'agente vista, come ritiene specifica dottrina, con un neologismo icastico, nella sua "coseità", per cui il danneggiato da tale odioso reato si trova a vivere non solo nel momento in cui lo subisce, ma si porta dentro per il resto un frammento di vita spezzato dal fatto criminoso e da cui con fatica, come riconosce anche la specialistica psico/criminologica, proverà ad uscire.
Ne consegue che una volta accertata la configurabilità del delitto la determinazione del danno morale non può che avvenire in via equitativa, stante la ovvia difficoltà da parte del danneggiato di proporne una precisa quantificazione, atteso che l'odioso fatto di cui è rimasto vittima ha effetti ultrattivi nell'equilibrio psico-fisico, specie se minore, oltre che di ogni altra, sia pure adulta vittima.
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