La nuova responsabilità delle società per i reati tributari

Ciro Santoriello
19 Marzo 2020

Il c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019) ha previsto che alcuni degli illeciti tributari di cui al d.lgs. n. 74/2000 rappresentino un presupposto della responsabilità da reato dell'ente societario. Il presente contributo, suddiviso in due parti, dopo aver ripercorso le tappe che hanno condotto all'introduzione, nel novero dei reati presupposto ex d.lgs. n. 231/2001, anche alcuni reati tributari, analizza in questa prima parte il nuovo art. 25-quinquiesdecies e le criticità della riforma. Nella seconda parte, di prossima pubblicazione, verranno, invece esaminati i rischi per le società e i possibili rimedi.
Premessa. Il nuovo art. 25-quinquiesdecies del d.lgs. n. 231/2001

Per lungo tempo in dottrina si è discusso dell'opportunità di introdurre, nel novero degli illeciti penali presupposto della responsabilità dell'ente ex d.lgs. 231/2001, anche i reati tributari (IELO, Reati tributari e responsabilità degli enti, in Riv. Trim. Resp. Enti, 2007, 3, 7; PERINI, Brevi considerazioni in merito alla responsabilità degli enti conseguente alla commissione di illeciti fiscali, ivi, 2006, 2, 79; ALDROVANDI, Profili evolutivi dell'illecito tributario, Padova 2010, 230; ALAGNA, I reati tributari ed il regime della responsabilità da reato degli enti, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2012, 397; MAZZA, Il caso Unicredit al vaglio della Cassazione: il patrimonio dell'ente non è confiscabile per equivalente in caso di reati tributari commessi dagli amministratori a vantaggio della società, in www.penalecontemporaneo.it; ID., La confisca per equivalente fra reati tributari e responsabilità dell'ente (in margine al caso Unicredit), ivi; DELLA RAGIONE, Sul sequestro per equivalente dei beni della persona giuridica per i reati tributari commessi nel suo interesse, ivi; ID., La Suprema Corte ammette il sequestro preventivo funzionale alla successiva confisca per equivalente dei beni della persona giuridica per i reati tributari commessi nel suo interesse dal legale rappresentante, ivi. Per una ricostruzione del dibattito, cfr. SANTORIELLO, Sull'opportunità di configurare la responsabilità amministrativa delle società anche in caso di commissione di reati fiscali, in Riv. Trim. Resp. Enti, 2/2013, 189).

Come è noto, il dibattito può dirsi terminato dopo che il legislatore, anche sulla scorta di alcune indicazioni provenienti da autorità sovranazionali (il riferimento, in particolare, è alla direttiva PIF in tema di frodi IVA), con il c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124 del 2019, conv. con mod. in l. n. 157/2019) ha previsto che alcuni degli illeciti di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 rappresentino un presupposto della responsabilità da reato dell'ente societario: ai sensi del nuovo art. 25-quinquiesdecies d.lg. n. 231 del 2001 sono infatti previste per la persona giuridica le seguenti sanzioni:

a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 2, comma 1d.lg. n. 74 del 2000, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 2, comma 2-bisd.lg. n. 74 del 2000, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall'art. 3d.lg. n. 74 del 2000, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 8, comma 1,d.lgs. n. 74 del 2000 la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 8, comma 2-bis,d.lgs. n. 74 del 2000 la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall'art. 10d.lgs. n. 74 del 2000, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall'art. 11d.lgs. n. 74 del 2000, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.

Se l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.

In tutti questi casi, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, lettera c) (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d) (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e) (divieto di pubblicizzare beni o servizi).

Ovviamente l'ente risulta poi esposto anche all'applicazione del sequestro e della confisca, diretta e per equivalente, del prezzo o profitto del reato tributario realizzato nell'interesse o a vantaggio dell'ente, superandosi così i limiti precedenti – individuati dalla decisione delle Sezioni Unite Gubert (Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561. A commento di tale decisione e per un esame delle relative conseguenze, SANTORIELLO, Confisca per equivalente sui beni del rappresentante legale per i reati commessi nell'interesse della società, in Fisco, 2017, 3986; ID., Confiscabilità “limitata” dei beni della società per i reati commessi dall'amministratore, ivi, 2014, 13, 1255; PERRONE, Confisca a carico della persona giuridica e reati tributari alla luce della riforma del 2015, in Cass. Pen., 2017, 3746; CARDONE – PONTIERI, Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni della società per delitti tributari commessi dal legale rappresentante, in Riv. Dir. Trib., 2014, 3, 53; BRICCHETTI, Sì al sequestro preventivo per equivalente se la persona giuridica è uno "schermo fittizio, in Guida Diritto, 2014, 15, 85; SOANA, Le Sezioni Unite pongono limiti alla confisca nei confronti delle persone giuridiche per i reati tributari, in Riv. Giur. Trib., 2014, 338; VANNINI, Esclusa la confisca per equivalente a carico degli enti per i reati tributari commessi dagli amministratori, in Corr. Trib., 2014, 1325; CORSO, Reato non presupposto di responsabilità amministrativa e limiti del sequestro/confisca nei confronti dell'ente, in Giur. Trib., 2014, 990; CORSO, Reato non presupposto di responsabilità amministrativa e limiti del sequestro/confisca nei confronti dell'ente, in Giur. Trib., 2014, 990) – che in caso di illecito fiscale commesso da amministratori o dirigenti di una persona giuridica consentivano il sequestro in capo all'ente del profitto del reato tributario, sub specie di risparmio d'imposta, solo se si trattava di confisca in via diretta.

Proprio con riferimento alla confisca e sequestro preventivo occorre precisare quale sia l'oggetto di tali provvedimenti ablatori ovvero il profitto del reato, la cui individuazione rileva sotto più aspetti ulteriori rispetto all'esecuzione dei provvedimenti di confisca e sequestro. Infatti, se sul profitto del reato vengono calibrati gli obbligatori provvedimenti ablatori del sequestro preventivo e della confisca a carico della società, i quali devono avere ad oggetto valori (anche per equivalente) corrispondenti all'importo dell'imposta evasa, occorre altresì considerare come la determinazione del benefico economico che il soggetto ha tratto dall'illecito sia necessaria perché l'ente possa procedere alla estinzione del debito tributario, adempimento che consente alla persona giuridica di accedere al patteggiamento - giusto il richiamo contenuto nell'art. 63 comma 1 d.lgs 231 del2001, che esclude la possibilità del patteggiamento per l'ente ove vi sia una preclusione per l'imputato e tale preclusione discende dalla disposizione di cui all'art. 13 bis comma 2 d.lgs 74 del 2000 (RUTA, La riforma dei reati, cit.) -, nonché di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive di cui all'art. 9 d.lg. n. 231 del 2001, per effetto di quanto previsto dall'art. 17 del medesimo testo unico in tema di riparazione delle conseguenze del reato.

E' noto che per i reati tributari, ed in particolari quelli richiamati nell'art. 25 quinquiediecies d.lgs. n. 231 del 2001, il profitto del reato (non è rappresentato da un accrescimento del patrimonio dell'ente, posto che esso) è costituito da un risparmio di spesa ottenuto dalla società contribuente per effetto della commissione del reato. Tuttavia, nel complesso sistema costruito dal legislatore sul medesimo patrimonio del contribuente – così come risultante dopo l'evasione – possono convergere provvedimenti di confisca, stante il fatto che un tale provvedimento può essere disposto ai sensi dell'art. 12-bis d. lgs. n. 74 del 2000 quale conseguenza sanzionatoria della commissione del reato tributario, così come la confisca per equivalente rappresenta una sanzione tipica conseguente alla condanna pronunciata nei confronti dell'ente: si noti come entrambi i provvedimenti ablatori sono determinati seguendo lo stesso parametro (il profitto del reato, ossia, di regola, l'imposta evasa) ed hanno ad oggetto lo stesso patrimonio (il patrimonio dell'ente in seno al quale è stato commesso il reato tributario).

In proposito la giurisprudenza ha più volte affermato che non può darsi luogo a duplicazioni: una volta identificato il profitto del reato, corrispondente alla imposta evasa, la ablazione da parte dello Stato deve avvenire nella misura ad esso corrispondente, non certo tante volte quanti sono gli organi – amministrativi o giudiziari – deputati all'accertamento dell'illecito ed alla irrogazione del trattamento sanzionatorio. Tale impostazione pare condivisibile sulla base di due osservazioni: in primo luogo, la parziale medesimezza dei presupposti delle due confische evidenzia come provvedimenti ablativi di cui si discute rappresentino delle vere e proprie sanzioni, accessorie eppure obbligatorie, conseguenti alla condanna il che impedisce la duplicazione dell'ablazione del profitto a carico dello stesso ente commerciale; in secondo luogo, pur in assenza nel decreto n. 231 di una norma analoga all'art. 12-bis d. lgs. n. 74 del 2000, la giurisprudenza è pervenuta a medesime conclusioni, escludendo, in tema di responsabilità degli enti, che l'utilità economica ricavata dalla persona giuridica a seguito della consumazione dell'illecito possa essere confiscata come profitto del reato, nemmeno per equivalente, quando la stessa sia stata già restituita al soggetto danneggiato (Cass., sez. II, 16 giugno 2015, n. 29512. Nello stesso senso, GARAVOGLIA – IMPERATO, Le novità del Diritto Penale Tributario, aumento delle pene, casi particolari di confisca, responsabilità degli Enti per i reati tributari, relazione al Convegno della Associazione Nazionale Tributaristi Italiani Sezione Del Piemonte E Della Valle d'Aosta, 30 gennaio 2020, 48).

La ratio di tale conclusioni è evidentemente il rispetto del divieto di bis in idem – profilo invece per altri aspetti non considerato dal legislatore in occasione della riforma, come vedremo nel prossimo paragrafo –, interpretato, in relazione al tema ora in oggetto nel senso che “qualora sia stato conseguito lo scopo di ripristinare lo status quo ante (per effetto di un comportamento spontaneo, come il pagamento del debito o la restituzione, ovvero per effetto di un provvedimento coattivo altrimenti eseguito), l'ordinamento non deve più avere nulla da pretendere nei confronti dello stesso soggetto” (GARAVOGLIA – IMPERATO, Le novità del Diritto Penale Tributario, cit. 50). Al contempo, tuttavia, si sostiene che tali osservazioni non debbano operare solo con riferimento all'ipotesi in cui i vari provvedimenti di confisca si indirizzino nei confronti del patrimonio di un medesimo soggetto, rappresentato nel nostro caso dalla società contribuente, ma anche quando il profitto venga coattivamente prelevato a carico del patrimonio della persona fisica che ha commesso il reato tributario e del patrimonio della persona giuridica. Riteniamo che un'obiezione di questa natura provi troppo e ciò in quanto “nel sistema delle confische, il profitto del reato rappresenta il limite assoluto ed invalicabile nell'applicazione della confisca. Così, l'ordinamento non ammette che venga espropriato un valore superiore a quello del profitto del reato. Se si ammettesse la possibilità della confisca del profitto a carico sia del patrimonio della persona fisica, sia del patrimonio della persona giuridica, il predetto limite verrebbe superato e si darebbe ingresso alla indebita duplicazione di una sanzione” (ancora GARAVOGLIA – IMPERATO, Le novità del Diritto Penale Tributario cit. 50).

Criticità della riforma. L'incoerente scelta dei reati tributari indicati come delitti presupposto della responsabilità delle società ed il problema del ne bis in idem

Non poche sono le criticità che derivano dalla scelta del legislatore del 2019.

In primo luogo, appare contraddittoria l'individuazione dei singoli illeciti che rientrano nel citato art. 25-quinquiesdecies: infatti, a fronte della circostanza che gli obblighi sovranazionali imponevano la riforma solo con riferimento alle imposte (in particolare l'IVA) che impattano sulle finanze europee e che attengono a condotte commesse in sistemi fraudolenti transfrontalieri, il legislatore ha riconosciuto la responsabilità dell'ente anche in caso di reati tributari consistenti nell'evasione di imposte sui redditi esorbitanti dalla competenza unionale e anche a prescindere dal carattere transfrontaliero della condotta, ma incredibilmente ed incomprensibilmente ha tralasciato di prendere in considerazione il delitto (di particolare gravità ed oggi di significativo impatto per le casse pubbliche) di indebita compensazione per crediti inesistenti di cui all'art. 10-quater, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, nonché i delitti (forse meno significativi sotto il profilo dell'incidenza economica, ma comunque contestati assai di frequente) di infedele dichiarazione e di omessa dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5.

Con tale scelta, da un lato secondo alcuni autori “non paiono pienamente rispettati gli obblighi sovranazionali di incriminazione, oltre che di rispetto del principio di ragionevolezza e uguaglianza” (FINOCCHIARO, In vigore la riforma, cit.), posto che quanto meno il delitto di cui al citato comma 2 dell'art. 10-quater rientra pienamente negli illeciti di frode che offendono gli interessi finanziari della UE secondo la definizione che ne dà l'art. 6 della direttiva PIF, e dall'altro, la mancata ricomprensione tra i reati presupposto degli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, con conseguente impossibilità di far fronte efficacemente a condotte di evasione mediante esterovestizione societaria, costituisce «un vulnus alla coerenza del sistema, rivelando un deficit di comprensione di alcuni dei più gravi fenomeni di evasione fiscale che avrebbero imposto una più severa risposta sanzionatoria» (RUTA, La riforma dei reati tributari, una prima lettura, in www.questionegiustizia.it), posto che le evasioni di ammontare elevatissimo sono commesse da enti esterovestiti o muniti di stabile organizzazione nel territorio dello Stato ovvero da soggetti che asseriscono di non essere localizzati nel territorio dello Stato, che quindi non assolvono gli obblighi dichiarativi realizzando così – almeno a seguire una determinata prospettazione – il delitto di cui all'art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000.

In secondo luogo, avendo il legislatore della riforma omesso ogni indicazione in proposito, è destinato prevedibilmente a riaccendersi il tema sui limiti del doppio binario e sugli effetti del ne bis in idem (con accento critico, attirando l'attenzione su un potenziale attrito con il principio del ne bis in idem e, più in generale, su di un cumulo sanzionatorio sproporzionato: INGRASSIA - CAVALLINI, Brevi riflessioni sulla relazione tra il d.lgs. 231/2001 e i reati tributari, cit., 109 ss.; CARACCIOLI, Reati tributari e responsabilità degli enti, in Riv. resp. amm. enti, 2007, I, 155; MAGNELLI, Sulla (in)compatibilità del sistema repressivo degli illeciti fiscali con lo statuto transnazionale del ne bis in idem: tra proporzionalità e 231, in Giur. Pen. Web, 2019, 12), tema assolutamente attuale tant'è che lo stesso è stato affrontato sia in giurisprudenza che dallo stesso legislatore. Con riferimento al primo punto la Cassazione si è già dovuta pronunciare due volte, sia pure in relazione riferimento ai rapporti fra procedimento n. 231 del 2001 e giudizio contabile nei confronti della medesima impresa (Cass., sez. I, 4 settembre 2018, n. 39874, in Mass. Uff., n. 273866 e più di recente Cass., sez. II, 2 agosto, 2019, n. 35462. In entrambe le decisioni si è affermato che “tema di responsabilità amministrativa degli enti per l'illecito di cui all'art. 24 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non sussiste violazione del principio del ne bis in idem nel caso in cui l'ente venga condannato, in sede penale, alle relative sanzioni amministrative con contestuale confisca per equivalente dei suoi beni in misura pari al profitto conseguito e, in sede contabile, al risarcimento del danno erariale, in quanto tali provvedimenti, pur avendo carattere sanzionatorio, perseguono differenti finalità"); quanto al legislatore, in sede di riforma operata con il d.lgs. n. 107 del 2018 della disciplina in tema di market abuse, con riferimento al concorso fra sanzioni amministrative e sanzioni penali nel caso di abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate, ha disposto con l'art. 187-terdecies d.lgs. n. 58 del 1998che quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico dell'ente una sanzione amministrativa dipendente da reato, l'autorità giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell'irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate e l'esazione della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa, rispettivamente, dall'autorità giudiziaria.

Che il problema abbia una sua ragion d'essere anche con riferimento al tema della responsabilità delle società per illeciti tributari commessi nel loro interesse è più che evidente, giacché, secondo le previsioni contenute nel d.lgs. 231/2001, è possibile che da una medesima condotta delittuosa reato possano derivare due diverse tipologie di sanzione nei confronti del medesimo soggetto ovvero la persona giuridica: infatti, con riferimento agli illeciti richiamati nella previsione di cui all'art. 25-quinquiesdecies la società avvantaggiata dall'evasione fiscale posta in essere nel suo interesse dall'amministratore potrà essere sanzionata tanto in sede fiscale che in sede penale secondo quando dispone il d.lgs. n. 231 del 2001 (a conferma di quanto si va osservando nel testo, in una recente decisione la Cassazione, sez. II, 2 agosto, 2019, n. 35462, si è trovata a verificare se il divieto di doppio giudizio non sia violato laddove una medesima società sia sanzionata per l'illecito amministrativo ai sensi dell'art. 24 commi 1 e 2 d.lg. n. 231/2001 per una truffa aggravata commessa ai danni di ente pubblico da un suo amministratore ed al contempo venga sottoposta a giudizio in sede contabile innanzi alla Corte dei conti. Per approfondimenti, SANTORIELLO, Il ne bis in idem nel processo verso le società. Un problema da porsi, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2020, 1, in corso di pubblicazione). In questo caso, pare difficile escludere che l'ente, in relazione ad una medesima vicenda, venga ad essere sottoposto ad un duplice processo di natura penale – ed eventualmente sanzionato due volte con misure repressive di carattere criminale – e contro questa conclusione non si può obiettare che non si può richiamare il divieto di bis in idem in relazione allo svolgimento di due procedimenti uno dei quali – quello innanzi alla giustizia tributaria – sicuramente di natura amministrativa e non penale (il tema è invece assai più discusso con riferimento al procedimento di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, sulla cui natura, penale o meno, si registra una varietà di accenti (per una sintesi delle diverse posizioni sia consentito rinviare a SANTORIELLO, La regola di giudizio nel processo agli enti collettivi: il criterio civilistico del “più probabile che no” o lo standard del processo penale dell'“oltre ogni ragionevole dubbio”?, in Rivista231, 1-2010, 21): come noto, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ritiene si debba ritenere essersi in presenza di un processo (e di una risposta) penale quando, a prescindere da ogni qualificazione del procedimento, la sanzione applicata all'esito dello stesso è particolarmente severa ed afflittiva, il che – sicuramente – è quanto accade tanto nell'ambito della responsabilità delle persone giuridiche, cui possono essere applicate pene pecuniarie assai incisive e soprattutto sanzioni interdittive che possono condurre alla completa paralisi dell'attività aziendale, che in relazione alla giustizia tributaria, la quale parimenti si contraddistingue per la portata severa delle relative sanzioni, sia pure aventi mera natura pecuniaria.

A fronte di queste considerazioni, le osservazioni critiche che possono muoversi nei confronti della riforma sono particolarmente severe posto che sarebbe stato ben possibile configurare l'intervento normativo in termini tali da evitare il rischio di una (illegittima) duplicazione delle sanzioni, prendendo spunto da quanto previsto dallo stesso legislatore in occasione della riforma in materia di market abuse.

In proposito, occorre tenere in considerazione che l'originaria impostazione della giurisprudenza della Corte EDU secondo cui ogni qualvolta uno stesso soggetto fosse sottoposto a due procedimenti – entrambi di natura penale, sia formalmente che sostanzialmente – per un medesimo fatto (ed a prescindere dalla concreta applicazione della sanzione in sede di decisione) determinava senz'altro una violazione del principio in questione, è stata abbandonata per accogliere una nozione del principio del ne bis in idem più articolata ed indiscutibilmente più evanescente, in cui assume un ruolo centrale le modalità con cui si articolano i rapporti fra i due procedimenti. In particolare, mentre secondo la Corte EDU (Corte europea diritti dell'uomo, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia) ciò che rileva è la connessione temporale e sostanziale fra gli stessi (da qui la particolare attenzione riservata, ad esempio, alla circostanza che il singolo non sia sottoposto per un tempo eccessivo ad un procedimento che lo vede come “accusato”), per i giudici di Lussemburgo l'elemento essenziale da prendere in considerazione è rappresentato dalla proporzionalità della risposta sanzionatoria e repressiva che lo Stato nazionale riserva alla condotta illecita, proporzionalità la cui valutazione non dipende solo dalla severità della pena che viene in concreto comminata ma anche dalla gravità dei fatti su cui si esercita la potestà punitiva dell'ordinamento nazionale (Cgue, sentenze del 20 marzo 2018, cause Menci, C-524/15, Garlsson Real Estate e a., C-537/16 e Di Puma, C-596/16 - Zecca, C-597/16).

A tale impostazione si è rifatto il legislatore nazionale in occasione della riforma in tema di market abuse. Nell'intento di evitare la violazione del principio in parola, in primo luogo si è previsto che ai fini dell'eventuale inosservanza del divieto di bis inidem è irrilevante l'ordine temporale con cui vengono adottate le sanzioni per l'adozione della condotta vietata: detto altrimenti, una possibile inottemperanza a tale principio viene rinvenuta per il solo fatto che alla medesima condotta siano applicate sanzioni amministrative e penali, sia che l'adozione delle prime preceda la comminatoria delle seconde che nel caso inverso. In secondo luogo, e sulla scorta di tale considerazione, si è previsto che in caso di ritenuta responsabilità da reato di una persona giuridica per alcuno dei reati previsti nel d.lgs. n. 58 del 1998, in caso di concorso fra sanzioni amministrative e sanzioni penali ex d.lgs. n. 231 del 2001, quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico dell'ente una sanzione amministrativa dipendente da reato, la CONSOB tenga conto, al momento dell'irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate e l'esazione della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'autorità giudiziaria; del pari, quando in sede di giudizio innanzi alla Commissione per la Borsa sia stata applicata una sanzione, il giudice penale che riconosce la responsabilità della società ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, nel comminare la pena, tenga conto della comminatoria della sanzione in sede amministrativa ed eviti di determinare una sanzione eccessivamente gravosa.

Se la medesima soluzione fosse stata adottata anche con riferimento all'introduzione dei delitti tributari fra i reati presupposto della responsabilità dell'ente almeno alcune delle criticità cui si è fatto cenno sarebbero state superate. Oggi invece il proliferare di sanzioni a carico delle società presenta profili di significativa problematicità quand'anche, nell'intento di evitare la violazione del divieto di bis in idem, le diverse autorità che procedono agli accertamenti delle violazioni prestino attenzione ad applicare pene di non eccessiva severità. E' chiaro, infatti, che il soggetto cui è demandata la valutazione circa la proporzionalità e ragionevolezza della risposta sanzionatoria apprestata dal singolo Stato nazionale – valutazione che è a sua volta il risultato di un giudizio circa l'equilibrata relazione fra due parametri parimenti indefiniti nel loro esatto significato, come quelli rappresentati dalla severità della pena e la gravità del fatto commesso – è il singolo giudice (penale o amministrativo o comunque l'autorità amministrativa con poteri punitivi) davanti al quale viene a porsi la questione e viene lamentata la lesione del diritto al ne bis in idem; ciò significa però assumere un approccio casistico e atomizzato alla questione inerente il rispetto del principio del ne bis in idem, facendo del singolo giudice l'unico soggetto, almeno in prima battuta, competente a rinvenire una violazione dell'art. 4 prot. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dell'art. 50 CDFUE, con indiscutibili conseguenze deleterie per i principi della certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie.

E si noti che tali valori della certezza e prevedibilità della decisione sono tanto più pregiudicati quando si consideri che secondo la Corte di Giustizia “il principio del ne bis in idem garantito dall'articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea conferisce ai soggetti dell'ordinamento un diritto direttamente applicabile nell'ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale”. Ciò vuol dire che d'ora in poi ogni processo sarà sottoposto alla spada di Damocle della discrezionale decisione del singolo giudice circa la severità del trattamento punitivo che nel caso di specie viene riservato al singolo con la facile pronosticabilità di una atteggiamenti difformi da parte dei diversi componenti del potere giudiziario. Alla luce di ciò, viene da domandarsi, considerato il rigore punitivo del diritto tributario sanzionatorio (che lo stesso poi non abbia una effettiva applicazione è tutt'altra questione, non rilevante in questa sede) se fosse davvero il caso di insistere nel prevedere che anche i reati fiscali rientrino nel corpus normativo del decreto n. 231.

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