Codice Civile art. 1571 - Nozione.

Gian Andrea Chiesi

Nozione.

[I]. La locazione è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo [1573, 1574], verso un determinato corrispettivo [180 trans.].

Inquadramento

Secondo la definizione legislativa, contenuta all'art. 1571 c.c., la locazione è il contratto con il quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo: si tratta, dunque, di un contratto in virtù del quale si assiste ad uno scambio tra la concessione in godimento di una cosa (la norma discorre di “cosa mobile o immobile”, così portando ad escludere la possibilità che possa concedersi in locazione l'esercizio di un diritto) ed il pagamento di un corrispettivo (il cd. canone o pigione), i cui predicati portano, in via di prima approssimazione, a discorrere di un a) contratto consensuale, b) ad effetti meramente obbligatori, c) a prestazioni corrispettive, d) oneroso e e) di durata (cfr. infra).

“Il codice vigente, dunque, non distingue – se non per alcuni marginali aspetti – tra locazione immobiliare e locazione mobiliare, reputando le due figure, considerate nella loro astrattezza, pressoché integralmente assimilabili. Ma, guardando al rilievo sociale dei fenomeni, è intuitivamente enorme il peso della locazione immobiliare, mentre è più che modesto quello della locazione mobiliare” (Di Marzio, Falabella, 5). Cionondimeno, discostandosi dal codice del 1865 e dalla tradizione romanistica, il legislatore del '42 ha separato le sorti di locatio rerum, operis e operarum, limitando la nozione di locazione in senso proprio al solo contratto che abbia ad oggetto il godimento temporaneo, per l'appunto, di un bene ed inserendo nel libro V (dedicato al rapporto di lavoro) la diversa disciplina della locatio operis et operarum.

Al di fuori del codice civile, poi, la disciplina della locazione immobiliare è stata oggetto di una ulteriore normazione di dettaglio, che si è sviluppata in tre fasi: la prima, della legislazione cd. vincolistica (v., in specie, le l. n. 351/1974 e n. 363/1975), protrattasi dal secondo dopoguerra e fino alla l. n. 392/1978, caratterizzata dal regime del c.d. blocco dei fitti; la seconda, “dominata” dalla l. n. 392 (c.d. sull'equo canone), dal 1978 al 1998, con riguardo alle locazioni abitative ed ancora in essere per ciò che concerne le locazioni ad uso diverso; la terza – ed ultima – introdotta dalla l. n. 431/1998, concernente le sole locazioni abitative ed ancora oggi in vigore.

Quanto al rapporto tra le disposizioni codicistiche e quelle provenienti dalla legislazione speciale, esso sembra sottrarsi all'applicazione del modello “genere a specie”, nel senso che le leggi speciali – che pure presuppongono e danno per scontata la nozione di locazione quale si trae dal codice civile – non rappresentano, in materia, delle temporanee deroghe ed eccezioni al codice civile quanto, piuttosto, “autonomi e separati sistemi destinati a sopravanzare, a marginalizzare – mercé l'impatto della carta costituzionale sul sistema delle fonti – lo stesso codice civile” (Di Marzio, Falabella, 8).

Le caratteristiche del contratto di locazione: contratto consensuale, ad effetti obbligatori e sinallagmatico

Si è detto, nel delineare le caratteristiche del contratto di locazione, che si versa in presenza di un a) contratto consensuale, b) ad effetti meramente obbligatori, c) a prestazioni corrispettive, d) oneroso e e) di durata.

Quanto alla prima caratteristica, il contratto si conclude per effetto del consenso legittimamente manifestato dalle parti, non costituendo la consegna del bene elemento per il perfezionamento dell'atto quanto, piuttosto, l'oggetto di una delle obbligazioni principali gravanti sul locatore e derivanti dalla conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 1575, n. 1), c.c.

La conclusione è, invero, del tutto pacifica in giurisprudenza, laddove si chiarisce che la locazione è contratto consensuale che si perfeziona con l'accordo delle parti, si che la consegna della cosa non rientra nella fase formativa del rapporto, ma costituisce il primo ed ineliminabile obbligo del locatore, che condiziona la nascita degli obblighi e delle responsabilità ulteriori nonché il consolidarsi della posizione del conduttore quale titolare di un diritto personale di godimento (Cass. III, n. 766/1970); conforme è Cass. III, n. 10563/2002, per cui in base al principio consensualistico, il contratto di locazione si perfeziona con il semplice accordo delle parti, laddove l'effettiva consegna del bene locato, o la privazione temporanea del godimento di esso da parte del locatore non incidono né sulla formazione del contratto né, tanto meno, sulla durata di esso, che è determinata dalla volontà delle parti o dalla legge, potendo rilevare solo, la prima, come inadempimento o di legittimazione del conduttore al ricorso alla tutela possessoria, e, la seconda, come fonte del diritto alla riduzione del canone o, eccezionalmente, causa di scioglimento del contratto su iniziativa del conduttore.

Meno univoca è stata, invece, sul punto la dottrina, divisa tra chi (Bucci, Malpica, Redivo, 67; Mirabelli, 10; Tabet, 1982, 1003) ha condiviso tale impostazione e chi (Satta, 1954, 12; Satta, 1950, 335), al contrario, ha sostenuto la natura reale del contratto, sulla base di quanto previsto dall'art. 1380 c.c., norma che risolve il conflitto tra più diritti personali di godimento a favore di chi abbia conseguito per primo il godimento del bene e dunque, in ultima analisi, di chi per primo abbia ricevuto la consegna della cosa.

Su tale rilievo, si fonda la distinzione tra figure apparente simili: così, ad esempio, la locazione si distingue dal deposito (e dalle figure ad esso riconducibili), per la semplice considerazione che nel deposito, avente natura reale, la consegna della cosa è necessaria per il perfezionamento del contratto (Cass. III, n. 7493/2007); analogamente è stato chiarito (Cass. III, n. 22598/2004) che al contratto di parcheggio (o di posteggio), che rientra nella categoria dei contratti atipici, deve ritenersi applicabile la disciplina del deposito, con conseguente responsabilità ex recepto del gestore, di talché l'eventuale clausola di esonero dalla responsabilità di quest'ultimo, nel caso di furto del veicolo, avendo carattere vessatorio, deve ritenersi inefficace, se non specificamente approvata per iscritto. Il contratto di posteggio privo dell'obbligo di custodia integra, difatti, gli estremi di una fattispecie o di contratto nullo per difetto di causa, ovvero di locazione (o comodato) del “posto auto”, consistente nella messa a disposizione, per un tempo determinato o indeterminato, di una porzione del bene immobile di proprietà del locatore (o del comodante) affinché sia goduta al solo fine della sosta del veicolo, senza alcun altro obbligo a carico del dante causa (c.d. posteggio incustodito).

Una volta, poi, che il contratto di locazione si sia perfezionato con il consenso delle parti, possono essere determinati per relationem la durata ed il momento della consegna della cosa locata, senza che ciò dia luogo ad indeterminatezza dell'oggetto, della durata e della misura delle prestazioni a carico delle parti, se queste abbiano preventivamente previsto, nell'ambito dell'autonomia loro riconosciuta dall'art. 1322 c.c., un meccanismo per la determinazione di tali elementi, in presenza del quale deve escludersi la nullità comminata dall'art. 1418, comma 2, c.c. (Cass. I, n. 11477/1993).

Si discute, infine, se, a dispetto della definizione normativa, che qualifica espressamente la locazione in termini di “contratto”, il rapporto negoziale possa prescindere dalla esistenza di un valido contratto e possa fondare, piuttosto, su una situazione di mero fatto, quale quella contemplata dall'art. 13, comma 5, originaria formulazione, l. n. 431/1998 (“Nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'art. 2 ovvero dal comma 3 dell'art. 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'art. 1, comma 4...”): la soluzione affermativa sembra debba riposare su quanto affermato da Corte cost., n. 22/1989, la quale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 42 e 3 Cost. – dell'art. 2 d.l. n. 393/1987, convertito dalla l. n. 478/1987, che prevede che il conduttore di un immobile urbano adibito ad uso non abitativo non è tenuto a corrispondere al locatore alcun aumento di canone né il risarcimento del danno ex art. 1591 c.c., per il periodo di occupazione dell'immobile intercorso fra la data di scadenza del regime transitorio ex lege n. 392/1978 e la data fissata giudizialmente per il rilascio, ovvero la data di stipulazione del nuovo contratto ex art. 69 della l. n. 392/1978 nel nuovo testo introdotto dal d.l. n. 832/1986, convertito in l. n. 15/1987, ha chiarito che “il giudice remittente sopravvaluta la retroattività della sent. n. 108/1986, la quale, avendo ripristinato le scadenze previste dall'art. 67 della l. n. 392/1978 (e prorogate di un biennio dalla l. n. 94/1982), ha rimosso per i contratti scaduti durante l'interregno delle l. n. 377/1984 e n. 118/1985 il titolo contrattuale che legittimava la protrazione del godimento del conduttore, ma non può mettere nel nulla il fatto che, nel periodo compreso tra la scadenza del regime transitorio e la pubblicazione della sentenza, le parti si sono comportate come conduttore e locatore, in conformità della proroga legale del contratto allora vigente, l'una godendo l'immobile a titolo di locazione, l'altra percependo i canoni di affitto. Questo comportamento, concretante un rapporto di “locazione di fatto”, esclude, per la contraddizione che non lo consente, che la sent. n. 108 possa avere l'effetto di costituire il conduttore in mora ora per allora, rendendolo responsabile per i danni da ritardato rilascio dell'immobile. In ordine al periodo suddetto il significato normativo dell'art. 2 in esame delinea una figura di “contratto di fatto”, che non è un istituto di carattere generale, ma trova già nel nostro ordinamento cospicue e ben note applicazioni (artt. 2126 e 2332 c.c.; art. 3, comma 2, della l. n. 756/1964). Ciò comporta, oltre alle conseguenze specificamente indicate dall'art. 2, l'applicabilità di tutto il regime della locazione, e così, per esempio, dell'art. 1577 c.c., e non delle norme sulla gestione di affari, se il conduttore abbia eseguito direttamente riparazioni urgenti che non sono a suo carico, o dell'art. 1588 c.c., e non dell'art. 2043 c.c., qualora siano avvenuti deterioramenti dell'immobile”.

Analoghe questioni pone, poi, la disciplina fissata dall'art. 1600 c.c., norma che trova applicazione relativamente a quelle locazioni prive di data certa, ma rispetto alle quali la detenzione da parte del conduttore sia anteriore al trasferimento della proprietà in favore del terzo: eccezionalmente, dunque, la prova dell'anteriorità della locazione – che pure può essere data con ogni mezzo – non è tratta dalla data certa o dalla trascrizione, ma dalla situazione di fatto preesistente al trasferimento della cosa locata.

La prova della anteriorità della locazione viene desunta, in via eccezionale, da una situazione di fatto che preesiste alla alienazione della cosa (Provera, 439); la detenzione anteriore al trasferimento si pone, in altri termini, quale forma sostitutiva della pubblicità del contratto rispetto allo scritto (Trifone, 531).

Quanto alle ulteriori caratteristiche, si tratta, come detto, di un contratto ad effetti obbligatori ed a prestazioni corrispettive, giacché dalla sua conclusione deriva l'insorgenza, a carico di entrambe le parti, di reciproche obbligazioni, cristallizzate in via prioritaria, oltre che nello stesso art. 1571 c.c., negli artt. 1575 c.c. (previsione che individua le obbligazioni principali del locatore, il quale deve consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione, mantenerla in istato da servire all'uso convenuto e garantirne il pacifico godimento durante la locazione) e 1587 c.c. (disposizione che, nel disciplinare le obbligazioni principali del conduttore, le individua nella presa in consegna della cosa, nell'osservare della diligenza del buon padre di famiglia, nel servirsene per l'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze e nel pagare il corrispettivo nei termini convenuti).

Sulla natura sinallagmatica delle obbligazioni scaturenti dalla conclusione di un contratto di locazione non vi sono dubbi in giurisprudenza: così, ad esempio, Cass. III, n. 13245/2010 chiarisce che in tema di locazione ad uso non abitativo, non altera di per sé l'equilibrio contrattuale, in modo da configurare una elusione dell'art. 79 della l. n. 392/1978, la previsione pattizia che pone a carico del conduttore, quali obbligazioni entrambi principali ed avvinte da nesso sinallagmatico, il pagamento del canone e l'esecuzione di talune opere di miglioramento e di addizione dell'immobile locato, là dove l'obbligazione di pagamento, nel rispetto dell'art. 32 della citata legge, sia determinata tenuto conto dell'altra prestazione, giacché, da un lato, ai sensi della medesima l. n. 392/1978, la determinazione del canone è libera e, dall'altro, le disposizioni di cui agli artt. 1592 e 1593 c.c., in quanto non imperative, sono derogabili dalle pattuizioni contrattuali, non costituendo, altresì, l'art. 1587 c.c. un ostacolo all'autonomia contrattuale nell'inserimento di altre obbligazioni di natura “principale” nell'unico contratto di locazione.

L'efficacia meramente obbligatoria del contratto di locazione ha però determinato l'insorgenza, in dottrina come in giurisprudenza, di un'annosa questione circa l'ammissibilità di un preliminare di contratto di locazione, tematica che si inquadra nella più ampia discussione concernente l'ammissibilità di un preliminare di contratto ad effetti meramente obbligatori.

La tematica si incrocia, evidentemente, con il più ampio problema concernente l'ammissibilità del preliminare del preliminare (quale contratto ad effetti meramente obbligatori), relativamente al quale si sono scontrate due tesi opposte: a) secondo un primo orientamento, la possibilità di concludere un preliminare di preliminare va riconosciuta in ragione della piena esplicazione dell'autonomia negoziale, alla quale non possono porsi limiti ove siano perseguiti interessi in concreto meritevoli di tutela; sicché non è escluso, in astratto, che possa esservi un interesse specifico a stipulare un iniziale accordo obbligatorio in cui si fissano i primi punti del futuro contratto definitivo, che non è passibile ancora di esecuzione in forma specifica, cui segua la stipulazione di un successivo accordo che contenga tutti gli ulteriori elementi del futuro contratto definitivo, passibile questa volta di esecuzione in forma specifica (Chianale, 285); b) secondo una diversa impostazione, al contrario, a fronte della previa determinazione degli elementi essenziali del contratto, non vi sarebbe spazio per l'ammissibilità di figure estranee rispettivamente ad un preliminare vero e proprio ovvero ad un'intesa precontrattuale, in base al fatto che ricorra o meno la volontà di obbligarsi alla conclusione del contratto definitivo; in questa prospettiva, una mera duplicazione del preliminare sarebbe priva di giustificazione causale (Rascio, 174).

La questione è stata recentemente risolta, in senso favorevole alla conclusione di un contratto preliminare di preliminare, da Cass. S.U., n. 4628/2015, la quale ha chiarito che la stipulazione di un contratto preliminare di preliminare (nella specie, relativo ad una compravendita immobiliare), ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori (e con l'esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) è valido ed efficace, e dunque non è nullo per difetto di causa, ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale.

La giurisprudenza, ad ogni modo, dà ormai per pacifica la suddetta conclusione, come è dato evincere dai numerosi interventi sul tema: Cass. III, n. 2037/2019, ad esempio, chiarisce che in tema di locazione, l'obbligo di registrazione previsto dall'art. 1, comma 346 l. n. 311/2004, non si applica al contratto preliminare, atteso che, da un lato, detta norma si riferisce ai contratti di locazione ed a quelli che “comunque costituiscono diritti reali di godimento” e, pertanto, ai soli contratti definitivi che attribuiscono ad una delle parti l'effettiva disponibilità del bene; dall'altro, la finalità antielusiva della stessa non è configurabile rispetto al mero preliminare di locazione, dal quale non sorge l'obbligo di pagamento del canone; Cass. VI-3, n. 8607/2015 evidenzia come, in tema di preliminare di locazione, la sentenza ex art. 2932 c.c., che tenga luogo del contratto non concluso, non ha efficacia retroattiva e vale solo per il futuro, sicché è inidonea ad assicurare tutela al promittente locatore per il periodo pregresso relativamente ai canoni non percepiti, che possono, invece, essere ottenuti tramite le domande di risarcimento del danno o indennità d'occupazione (nella specie, la Suprema Corte ha confermato il rigetto dell'azione ex art. 2932 c.c. con riferimento ad un preliminare di locazione a termine con scadenza anteriore alla data dell'eventuale sentenza); ancora, in tema di contratto preliminare di locazione, trovando applicazione, ai sensi dell'art. 1183 c.c., la regola dell'immediata esigibilità della prestazione per il caso della mancata determinazione del tempo della medesima, non può ritenersi che la mancanza di un esplicito accordo sul termine entro il quale si sarebbe dovuto stipulare il contratto definitivo sia di per sé sufficiente ad escludere l'esistenza di un contratto preliminare (così Cass. III, n. 11371/2010); Cass. I, n. 581/2003, infine, evidenzia che tra le controversie “in materia di locazione”, attribuite dagli artt. 21 e 447-bis c.p.c. alla competenza territoriale inderogabile del giudice in cui si trova l'immobile, devono ritenersi comprese, data l'ampiezza della nozione di “materia”, tutte le controversie comunque collegate alla materia della locazione, e quindi anche quelle nelle quali si controverte in ordine ad un rapporto ancora da costituire, ma di cui si invoca la costituzione ai sensi dell'art. 2932 c.c. sulla base di un contratto preliminare.

Va però segnalato che, sul regime disegnato dall'art. 1599 c.c. – che rinnega l'antico principio emptio tollit locatum, il quale rappresentava un vero e proprio punto fermo nella tradizione del diritto romano, che dalla premessa della relatività del diritto di godimento attribuito al conduttore traeva l'inevitabile conseguenza logica per cui il terzo acquirente del bene locato non fosse tenuto a rispettare il contratto di locazione, a lui del tutto estraneo, in quanto res inter alios acta – si è retta la tesi (Lazzara, 136) in base alla quale il diritto di godimento spettante al conduttore sarebbe ormai qualificabile alla stregua di un diritto reale: tale impostazione è, però, smentita dalla dogmatica più rigorosa (Provera, 21) per la quale, la circostanza che venga imposta ex lege una forma di opponibilità del rapporto locatizio a determinati terzi ben qualificati è altro dal conferire alla posizione del conduttore un meccanismo di tutela operante erga omnes e, perciò, riconducibile allo schema del diritto reale. Si osserva, inoltre, che, dovendo l'attribuzione del godimento ed il corrispettivo essere determinati o, quantomeno, determinabili, sin dalla conclusione del contratto di locazione, il contratto di locazione si presenta come contratto (non aleatorio ma) commutativo, essendo le parti in grado di prevedere, con sufficiente approssimazione l'entità dei rispettivi vantaggi e sacrifici (Mirabelli, 17): ciò peraltro paleserebbe un'ulteriore differenza tra locazione e comodato precario, caratterizzato, al contrario, dalla aleatorietà della durata.

Così inquadrata, sono dunque applicabili alla locazione, al pari degli altri contratti a prestazioni corrispettive, le norme sulla risoluzione per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.), sull'impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 ss. c.c.), sull'eccezione di inadempimento, (art. 1460 c.c.); e sulla risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.).

Analoga è la posizione della giurisprudenza che, sulla corrispettività delle obbligazioni delle parti costruisce la disciplina del rapporto: così, ad esempio, Cass. III, n. 24459/2011, per cui costituiscono vizi della cosa locata agli effetti dell'art. 1578 c.c.la cui presenza non configura un inadempimento del locatore alle obbligazioni assunte ai sensi dell'art. 1575 c.c., ma altera l'equilibrio delle prestazioni corrispettive, incidendo sull'idoneità all'uso della cosa stessa e consentendo la risoluzione del contratto o la riduzione del corrispettivo, ma non l'esperibilità dell'azione di esatto adempimento – quelli che investono la struttura materiale della cosa, alterandone l'integrità in modo tale da impedirne o ridurne notevolmente il godimento secondo la destinazione contrattuale, anche se eliminabili e manifestatisi successivamente alla conclusione del contratto di locazione (conformemente, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 22 novembre 2019); del pari Cass. VI-3, n. 13887/2011, la quale esclude che il conduttore di un immobile possa astenersi dal versare il canone, ovvero ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, quand'anche tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore, essendo tale sospensione totale o parziale dell'adempimento dell'obbligazione del conduttore legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo essa, altrimenti, un'alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti (ma su tale profilo cfr. amplius sub art. 1587 c.c.).

Segue. Le caratteristiche del contratto di locazione: contratto oneroso e di durata

Si tratta, ancora, di un contratto oneroso, giacché la costituzione del diritto personale di godimento in favore del conduttore (e, dunque, la cessione del godimento del bene) è “compensata” dal pagamento del canone.

Il predicato dell'onerosità consente di differenziare la locazione dal comodato. Così, ad esempio, Cass. III, n. 13920/2005 chiarisce che, in ordine alla corretta qualificazione di un contratto come comodato o come locazione di immobili, il carattere di essenziale gratuità del comodato non viene meno se si inserisce un modus, posto a carico del comodatario, purché esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto, ponendosi come corrispettivo del godimento della cosa ed assumendo quindi la natura di una controprestazione. Del pari, Cass. III, n. 1935/1983, per cui con riguardo al contratto con il quale il locatario di immobile ceda ad altri il godimento di una porzione del bene, ancorché senza prefissione di scadenza, deve negarsi la ricorrenza di un comodato, e ravvisarsi un rapporto di sublocazione (parziale), qualora risulti che il cessionario non si limiti a concorrere nelle eventuali spese riferibili all'uso del bene (riscaldamento, pulizia, ecc.), ma versi un corrispettivo, che si traduca per il cedente in un risparmio sui propri esborsi di locatario, mediante proporzionale recupero del canone dovuto al locatore, sicché resti esclusa la sussistenza di una causa gratuita, sia pure con l'imposizione di oneri modali, ed emerga la previsione di reciproche prestazioni legate da vincolo di corrispettività. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 21 marzo 2019 aggiunge (riprendendo Cass. III, n. 1330/2006) che l'attore in restituzione, che produca un contratto avente, in quanto gratuito, le caratteristiche proprie del rapporto di comodato, per dimostrare la sussistenza di un contratto di locazione, che è essenzialmente oneroso, ha l'onere di provare la simulazione della clausola relativa alla gratuità, dovendo altrimenti il giudice, nell'esercizio del potere-dovere di qualificare il contratto, negare la sussistenza del rapporto di locazione.

La distinzione tra locazione e comodato oneroso permane, poi, anche in caso di comodato di immobile senza determinazione di durata (c.d. precario) oneroso, tale figura essendo caratterizzata dalla concessione in godimento di un bene immobile che, pur remunerata (normalmente in maniera parziale), sia provvisoria, revocabile e finalizzata alla custodia del bene e distinguendosi, pertanto, dalla locazione per la possibilità riconosciuta al concedente di far cessare in qualsiasi momento il godimento (v. infra) (Cass. III, n. 6146/1986). L'elemento della durata non è, però, il solo elemento differenziale del precario immobiliare oneroso dalla locazione, dovendosene evidenziare anche il particolare carattere dell'onerosità e la finalità di custodia: così, ad esempio, Trib. Modena 17 gennaio 2013, sottolinea che Il precario immobiliare oneroso è negozio atipico con finalità di custodia e conservazione, in cui il corrispettivo di godimento è necessariamente modesto e non adempie a funzione causale corrispettiva, a differenza della locazione. Più in generale, si è osservato che l'obbligo del precarista di versare somme di danaro o di eseguire altre prestazioni non è in rapporto di corrispettività con l'obbligo del concedente di far godere la cosa, per il semplice fatto che un simile obbligo non sussiste affatto (Cass. III, n. 52/1958). In relazione, invece, alla custodia del bene Cass. III, n. 1695/1953, chiarisce che la speciale configurazione del precario immobiliare oneroso ricorre soltanto quando la concessione in uso, pur accompagnata da remunerazione in favore del concedente, abbia luogo al fine – che entrambe le parti si propongono di realizzare, l'una conscia del conforme intento dell'altra, e che assurge perciò, riguardo alla atipicità di tale convenzione, a causa negotii – di far sì che, attraverso l'uso da parte del concessionario, si attui una custodia dell'immobile in maniera che questo non versi in condizioni di abbandono, particolarmente pericolose in date contingenze. Quando invece una situazione di fatto sia accertata come denotante unicamente il fine diretto dello sfruttamento economico, da conseguirsi a cura e a rischio del concessionario, in unità di tempo pur esigue, ma tali da consentire in linea pratica la realizzazione dell'uso appositamente qualificato dalle parti a proposito della concessione dell'immobile, e sia altresì pacifica la completa mancanza dell'intento (che ha luogo nel comodato) di venire incontro a una contingente necessità altrui col conferire un uso personale e transeunte della cosa, ma accompagnato, stante la gratuità, dallo ius restituendi, tutto ciò fa sì che il rapporto debba essere ricondotto negli schemi giuridici del contratto di locazione.

La locazione è, infine, un contratto di durata ovvero, seguendo le definizioni codicistiche, ad esecuzione continuativa o periodica, nel senso che la protrazione “per un dato tempo” (v. l'art. 1571 c.c.) del rapporto rappresenta condizione essenziale affinché il contratto possa realizzare la sua funzione.

In tal senso, è chiara anche la posizione della giurisprudenza (Cass. III, n. 3019/1996), la quale ha evidenziato che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, non concretandosi il contratto locatizio nella mera corresponsione del canone ma integrandosi anche nel godimento del bene (protrattosi nel tempo), sicché si rivela inconferente la circostanza che i canoni vengano corrisposti quando ormai è stata pronunziata la risoluzione della locazione.

Dalla riconduzione della locazione a tale categoria di contratti conseguono alcuni effetti, quali 1) la non retroattività degli eventi che producono scioglimento del vincolo rispetto all'esecuzione già avvenuta, 2) la risolubilità per eccessiva onerosità sopravvenuta, 3) la sospensione della controprestazione nel caso di non esecuzione parziale della prestazione per causa non imputabile, 4) la decorrenza della prescrizione, nell'ipotesi di prestazione reiterata, dalle singole scadenze, 5) l'applicabilità della rinnovazione tacita e della proroga.

Così, ad esempio, oltre a quanto già esposto nel precedente paragrafo in ordine alle conseguenze derivanti dalla riconosciuta natura sinallagmatica del rapporto, Cass. III, n. 3971/2019, in applicazione della regola di cui all'art. 1458 c.c., ha recentemente ribadito che, qualora un contratto di locazione sia dichiarato nullo, pur conseguendo in linea di principio a detta dichiarazione il diritto per ciascuna delle parti di ripetere la prestazione effettuata, tuttavia la parte che abbia usufruito del godimento dell'immobile non può pretendere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo per tale godimento, in quanto ciò importerebbe un inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore (conforme Cass. III, n. 4849/1991); mentre Trib. Sondrio 14 gennaio 1980 ha, invece, affermato l'ammissibilità del rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità del contratto di locazione, trattandosi di contratto ad esecuzione continuata per il quale è particolarmente avvertita dal legislatore l'esigenza di mantenere fermo l'equilibrio delle prestazioni.

A tale riguardo, poi, se l'art. 1573 c.c. prevede che, salvo diverse norme di legge, la locazione non possa stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni, con la conseguenza che, ove stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, la durata del rapporto è ridotta al termine suddetto, la disciplina speciale ha invece dettato termini di durata diversi, a seconda della tipologia di locazione conclusa tra le parti.

Rinviando per un approfondimento, al commento agli artt. 1573 c.c., 1 e 27 della l. n. 392/1978, nonché 1, 2 e 5 della l. n. 431/1998, il quadro complessivo della disciplina di durata delle locazioni ad uso abitativo può essere riassunto nei termini che seguono: a) ricadono sotto l'ambito di operatività della l. n. 431/1998, in combinato disposto con le previsioni non abrogate della l. n. 392/1978 e le norme del codice civile, i contratti conclusi ex artt. 1, comma 3, 2, commi 1 e 3, nonché 5, commi 1, 2 e 3 della l. n. 431/1998; b) ricadono sotto l'ambito di operatività della l. n. 431/1998, in combinato disposto con le sole norme del codice civile, le locazioni relative ad immobili storici e vincolati ex lege n. 1089/1939, nonché rientranti nelle categorie catastati A/1, A/8 e A/9; c) ricadono sotto l'ambito di operatività delle norme del codice civile, in combinato disposto con le previsioni di leggi speciali diverse dalla n. 431 e dalla n. 392, le locazioni relative ad alloggi turistici destinati ad uso turnario di godimento, di natura non reale e di durata non inferiore a tre anni, nonché quelle aventi ad oggetto alloggi di edilizia residenziale pubblica; d) ricadono sotto l'ambito di operatività delle sole norme del codice civile le altre locazioni ad uso abitativo, diverse da quelle in precedenza enumerate (Sirotti Gaudenzi, 12; Chiesi, 60). Per quanto attiene invece, alla durata delle locazioni industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili (c.d. ad uso diverso), la disciplina è contenuta all'art. 27 della l. n. 329/1978.

Influisce, tuttavia, sulla riconduzione del contratto a ciascuna delle menzionate discipline l'accordo transattivo con cui le parti del contratto di locazione di un immobile urbano definiscanole liti giudiziarie fra loro pendenti circa la durata del rapporto e l'ammontare del canone, stabilendo, fra l'altro, una determinata scadenza per il rilascio dell'immobile ed un certo corrispettivo per il suo ulteriore godimento: chiarisce Cass. III, n. 4947/2023che il nuovo rapporto che origina dalla transazione, ancorché di natura locatizia, trova la sua inderogabile regolamentazione nei patti del negozio transattivo e, in via analogica, nella normativa generale delle locazioni urbane, ma si sottrae - data la sua genesi e l'unicità della causa che avvince il complesso rapporto - alla speciale disciplina giuridica che regola la materia delle locazioni (leggi di proroga legale, legge cosiddetta dell'equo canone e successive modificazioni) cui è assolutamente insensibile, con l'ulteriore precisazione per cui anche il precedente rapporto, che deve ritenersi convenzionalmente estinto alla data della transazione, resta regolato - per quanto riguarda il suo svolgimento e la sua cessazione - dallo stesso negozio transattivo ovvero, in mancanza di patti contrari, dalla normativa ordinaria e da quella speciale previgenti (in particolare, in applicazione di tale principio la Suprema Corte ha escluso la nullità ex art. 79 l. n. 392 del 1978, della rinuncia all'indennità di avviamento contenuta in un accordo, trasfuso nel verbale di conciliazione concluso tra le parti a definizione di un precedente contenzioso tra le stesse).

Deroghe alla previsione contenuta nell'art. 1573 c.c. si rinvengono, inoltre, anche nel codice civile, con precipuo riferimento alle fattispecie disciplinate dagli artt. 1607 (che consente, nell'ipotesi di case per abitazione, la stipulazione di contratti di locazione per tutta la durata della vita dell'inquilino e per i due anni successivi alla sua morte) e 1629 c.c. (che prevede, nel caso di affitto di fondi rustici destinati al rimboschimento, un termine massimo di novantanove anni).

Quanto all'art. 1607 c.c., la ratio della previsione va rinvenuta nella considerazione che i due anni previsti dalla norma servono ai conviventi del conduttore defunto per trovare un altro alloggio; si tratta di una norma inderogabile (siccome, diversamente opinando, si aggirerebbe il divieto posto dall'art. 1573 c.c.) e di carattere speciale, siccome tale insuscettibile di applicazione estensiva o analogica; essa, inoltre determina la riconduzione della locazione così convenuta sotto l'ambito di operatività dell'art. 1572, comma 1, c.c., quanto a requisiti di validità ed efficacia del relativo patto (sicché, in ultima analisi, si verserebbe in presenza di un atto eccedente l'ordinaria amministrazione).

Conforme è la posizione delle dottrina, la quale a) individua in quella innanzi esposta la giustificazione della previsione codicistica (Vitali, 435), b) parifica la norma in commento, quoad effectum (e, dunque, ai fini dei requisiti del patto, della relativa opponibilità e dell'inquadramento tra gli atti di straordinaria amministrazione), alla locazione ultranovennale (Tabet, 1972, 266; Vitali, 435) e c) esclude che essa possa trovare applicazione a casi diversi da quello della locazione delle case destinate ad uso di abitazione (Vitali, 434). A tale ultimo proposito, anzi, si è affermato che, ove durante la locazione si verifichi un mutamento di destinazione, riprenderebbe vigore la disciplina generale fissata dall'art. 1573 c.c., con conseguente riduzione del termine massimo a quello trentennale fissato da tale ultima disposizione (Mirabelli, 351).

Sempre nell'ottica della insuscettibilità di interpretazione estensiva o analogica dell'art. 1607 c.c., ove la durata della locazione fosse ragguagliata alla vita di un terzo e già non del conduttore, tornerebbe a trovare applicazione la disciplina generale fissata dall'art. 1573 c.c.

Nel caso, poi, di locazione che presenti una parte plurisoggettiva a latere conductoris (v. infra), si ritiene che il contratto duri fino alla morte del più longevo dei conduttori, secondo un meccanismo analogo a quello contemplato per l'ipotesi di usufrutto congiuntivo (Giannattasio, 311).

Avuto riguardo, invece, alla fattispecie contemplata dall'art. 1629 c.c., l'affitto di fondi rustici destinati al rimboschimento può essere stipulato per un termine massimo di novantanove anni: la ratio di tale previsione è abbastanza facile a comprendersi e va agganciata alla lentezza del ciclo produttivo del bosco.

Si ritiene in dottrina (Bivona, 169) che, stante la natura eccezionale della norma, essa sia sottratta alla disciplina generale prevista per i contratti di affitto dagli artt. 1, comma 2 e 41 della l. n. 203 del 1982: donde la classificazione del contratto in tal modo stipulato tra gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, con conseguente necessità del rispetto della forma scritta ad substantiam.

Anche tale norma è inderogabile, con la conseguenza che ove l'affitto sia convenuto per una durata maggiore ai novantanove anni, ovvero in perpetuo, il termine deve intendersi ridotto entro il limite previsto dalla norma, ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.

I soggetti del contratto di locazione

La locazione si configura quale contratto bilaterale, le cui parti prendono il nome, rispettivamente, di locatore (con tale accezione intendendosi colui che concede il godimento del bene verso il pagamento del canone) e di conduttore o locatario (colui che versa il corrispettivo a fronte del godimento del bene): traccia evidente di tali definizioni si rinviene nei già richiamati artt. 1575 e 1587 c.c., disposizioni che, rispettivamente, individuano le obbligazioni principali del locatore e del conduttore.

La struttura bilaterale del contratto è pacifica in giurisprudenza, la quale se ne è occupata a proposito delle ipotesi di rinnovazione e di cessione del contratto: così, Cass. III, n. 15297/2002 ha chiarito che la rinnovazione tacita della locazione integra un nuovo negozio giuridico bilaterale, con la conseguenza che, trattandosi di immobile sottoposto a sequestro giudiziario, è richiesta l'autorizzazione del giudice, per effetto del combinato disposto degli artt. 560, comma 2, e 676 c.p.c. (conforme Cass. III, n. 1639/1999); analogamente, in tema di cessione del contratto, Cass. III, n. 152/1991 ha evidenziato che, qualora si controverta sull'avvenuto perfezionamento – con il consenso del locatore ceduto – di un contratto di locazione, parti necessarie nel processo sono il terzo preteso cessionario, il locatore preteso ceduto ed il conduttore preteso cedente, sussistendo, tra costoro, litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., atteso che devesi accertare che, perfezionatosi o meno l'atto negoziale di cessione, modificativo, sotto il profilo soggettivo, del rapporto bilaterale di locazione (costituito con il contratto originario), parte in tale rapporto, insieme al locatore, sia il terzo preteso cessionario o l'originario conduttore preteso cedente; il quale accertamento deve essere effettuato con autorità di giudicato nei confronti di tutti questi soggetti.

La parte (locatrice o conduttrice) può essere, poi, plurisoggettiva, nel senso che, come la concessione del godimento del bene può provenire da più soggetti, così il godimento può essere riconosciuto ed il pagamento del canone può provenire da più soggetti: in altri termini, vi può essere una pluralità di locatori e/o di conduttori.

Quanto alla prima evenienza, l'eventuale pluralità di locatori integra una parte comunque unica, al cui interno i diversi interessi vengono regolati secondo i criteri che presiedono alla disciplina della comunione: sicché, sugli immobili oggetto di comunione concorrono, in difetto di prova contraria, pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri o quanto meno della maggioranza dei partecipanti alla comunione. Cass. III, n. 845/2020 ha ulteriormente valorizzato tale assunto, chiarendo che la presunzione che ciascuno dei comunisti operi con il consenso degli altri non è esclusa dal fatto che uno di loro sia incapace di intendere e di volere, poiché tale presunzione prescinde da un'indagine sullo stato soggettivo degli ulteriori comproprietari e va intesa - in senso oggettivo - quale mancanza di dissenso da parte degli stessi.

 

 

La presunzione non opera, al contrario, per le locazioni di durata ultranovennale, per la cui conclusione – trattandosi di atto eccedente l'ordinaria amministrazione, ai sensi dell'art. 1572, comma 1, c.c. – il combinato disposto degli artt. 1108 e 1350, n. 8) c.c. richiede l'unanimità dei consensi dei comunisti consacrata in un atto avente forma scritta ad substantiam, secondo un procedimento di formazione della volontà che, in base al combinato disposto degli artt. 2729, comma 2 e 2725 c.c., vieta la presunzione ove la forma scritta sia imposta anche solo ad probationem (così, in motivazione, Cass., 24489/2017).

Con riferimento a tale ultima fattispecie, Cass. III, n. 30619/2018 ha recentemente chiarito (sia pure con riferimento ai contratti di locazione ad uso non abitativo contemplati dall'art. 27 della l. n. 392/1978) che la rinuncia del locatore alla facoltà di diniego di rinnovo alla prima scadenza non determina la trasformazione del contratto in ultranovennale, con conseguente applicazione della relativa disciplina formale, essendo necessario, allo scopo, che entrambe le parti siano vincolate a tale durata. Contra, però, Cass. III, n. 10779/1993 per cui la stipulazione di una locazione di immobile per uso diverso dall'abitazione, disciplinata dagli artt. 27 ss. della l. n. 392/1978, configura un atto di straordinaria amministrazione solo quando raggiunga una durata ultranovennale per effetto della preventiva rinuncia del locatore alla facoltà di diniego della rinnovazione del rapporto accordatagli dagli art. 28 e 29 della stessa legge.

Più in generale sulle tematiche appena trattate, invece, l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari, sì da non poter essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di chi appariva agire per tutti (Cass. III, n. 1986/2016); peraltro, in tale evenienza di comprovata gestione non rappresentativa del bene comune, Cass. S.U., n. 11135/2012 ha anche evidenziato che, rientrando la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari nell'ambito della gestione di affari, è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all'art. 2032 c.c., sicché il comproprietario non locatore può ratificare l'operato del gestore e, ai sensi dell'art. 1705, comma 2, c.c., applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa.

Il principio generale di cui si è detto trova il proprio fondamento nella considerazione per cui tra i partecipanti alla comunione esiste un reciproco rapporto di rappresentanza, in virtù del quale ciascuno di essi può procedere alla locazione della cosa comune ed agire per la cessazione o la risoluzione del contratto e la consegna del bene locato, anche nell'interesse degli altri partecipanti alla comunione, trattandosi di atti di utile gestione rientranti nell'ambito dell'ordinaria amministrazione della cosa comune, per i quali è da presumere, salvo prova contraria, che il singolo comunista abbia agito anche con il consenso degli altri (Cass. II, n. 4005/1995; Cass. II, n. 1309/1987). La medesima regola della reciproca rappresentanza vale, poi, in relazione alla fase terminale del contratto, non occorrendo che la disdetta(artt. 3 della l. n. 431/1998 e 29 della l. n. 392/1978) sia sottoscritta da tutti i comproprietari, in quanto si è pur sempre in presenza di una parte unica a latere locatoris: si ritiene pertanto sufficiente che alla disdetta provveda anche un solo condomino (Cass. II, n. 10394/2002; Cass. II, n. 5518/1985).

 

Sulla base di tali pacifici principi Cass. III, n. 19929/2008 (in senso conforme cfr. anche Cass. II, n. 1986/2016 e Trib. Siena, 3 dicembre 2020)ne trae la conclusione per cui il singolo comunista può stipulare il contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile in comunione e ciascun comunista è legittimato ad agire per il rilascio del detto immobile, trattandosi di atto di ordinaria amministrazione per il quale deve presumersi sussistente il consenso già indicato, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri e, quindi, l'integrazione del contraddittorio (su tale profilo si rinvia ulteriormente a Cass. III, n. 17933/2019, nonché Trib. Grosseto, 13 luglio 2018).

 

Del medesimo tenore Cass. III, n. 18069/2019 (conformi Cass. III, n. 5014/2017 e Cass. III, n. 14530/2009), la quale chiarisce, in proposito, che qualora in un contratto di locazione la parte locatrice sia costituita da più locatori, ciascuno di essi è tenuto, dal lato passivo, nei confronti del conduttore alla medesima prestazione, così come, dal lato attivo, ognuno degli stessi può agire nei riguardi del locatario per l'adempimento delle sue obbligazioni, applicandosi in proposito la disciplina della solidarietà di cui all'art. 1292 c.c., che non determina, tuttavia, la nascita di un rapporto unico ed inscindibile e non dà luogo, perciò, a litisconsorzio necessario tra i diversi obbligati o creditori. Inevitabile precipitato del principio che precede è la conclusione per cui, in ipotesi di sopravvenuta pluralità di locatori, conseguente al decesso dell'originario locatore, ciascuno di essi può agire, singolarmente, per ottenere la risoluzione del contratto a seguito di inadempimento del (comune) conduttore, ovvero intimare, nei confronti di quest'ultimo, sfratto per morosità ovvero sfratto o licenza per finita locazione, presumendosi il consenso degli altri (v. Cass. III, n. 1582/1985; Cass. III, n. 7471/1986; Cass. III, n. 4261/1991; Cass. III, n. 2363/1992; Cass. III, n. 10732/1993; Cass. III, n. 8550/1999; Cass. III, n. 14530/2009). Analogamente è stato chiarito da Cass. III, n. 12386/2016 che, nel caso di affitto di fondo rustico da parte di una pluralità di affittanti, uno dei quali sia abilitato a ricevere il pagamento per conto di tutti, la quietanza totalmente liberatoria rilasciata dallo stesso al conduttore per un importo inferiore al canone pattuito fa presumere, a fronte della contestuale diminuzione dell'ampiezza del terreno affittato, per intervenuta alienazione di parte di esso a terzi, la riduzione del canone, avendo ciascuno degli affittanti, indipendentemente dalla natura solidale o meno della loro obbligazione, pari e disgiunti poteri gestori sulla cosa, in virtù della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri.

Relativamente al caso della pluralità di conduttori, invece, l'unicità del rapporto non è scontata, nel senso che occorre distinguere a seconda che un unico bene sia stato, indistintamente, concesso in locazione ad una pluralità di conduttori da quella in cui lo stesso bene sia stato dato in locazione ai detti conduttori, per quote divise.

Solo nel primo caso, infatti, sussiste – per le controversie relative – la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i conduttori, certo essendo che una pronuncia relativa all'unico contratto non può che essere resa nei confronti di tutti i conduttori; nella seconda delle prospettate ipotesi, invece, ancorché – per ipotesi – il contratto sia stato stipulato con un unico documento, si è di fronte a distinti, autonomi, contratti, sì che la cessazione (la declaratoria di nullità o l'annullamento o, anche, la risoluzione) di uno di essi non produce alcun effetto nei confronti degli altri (così Cass. III, n. 19925/2008, in tema di affitto di fondi rustici).

La plurisoggettività dei conduttori rileva anche in relazione all'operatività del limite massimo di durata della locazione, fissato dall'art. 1573 c.c. in trenta anni (si rinvia, per un approfondimento al relativo commento): è qui sufficiente osservare che in tal caso, il contratto dura fino alla morte del più longevo dei conduttori, secondo un meccanismo analogo a quello contemplato per l'ipotesi di usufrutto congiuntivo (Giannattasio, 311).

Segue. Una peculiare ipotesi di parte locatrice plurisoggettiva: la locazione in ambito condominiale

Applicazione particolare di quanto appena esposto, in relazione alla conclusione di un contratto di locazione da parte di più soggetti a latere locatoris, si rinviene in ambito condominiale, con precipuo riferimento alla locazione di beni comuni.

L'art. 1102, comma 1, prima parte, c.c. consente al condomino di servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; la seconda parte del medesimo comma prevede, poi, la possibilità, per il singolo condomino/comunista, di apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il [proprio] migliore godimento della cosa.

Il rispetto della norma richiede, quindi, l'osservanza di una duplice condizione: a) non devono essere realizzate modificazioni (nel senso che il comunista non può da solo né stabilire, né alterare la destinazione originaria della cosa comune); b) deve essere rispettato il pari godimento degli altri condomini. A rendere illecito l'uso basta, pertanto, il mancato rispetto dell'una o dell'altra prescrizione (Cass. II, n. 14633/2012; Cass. II, n. 19205/2011; Cass. II, n. 3188/2011), mentre, ove tali limiti siano rispettati, il singolo condomino può servirsi del bene comune anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità (Cass. II, n. 6458/2019).

In aggiunta (o, meglio, in sostituzione) all'utilizzazione ordinaria (siccome contestuale e perfettamente paritetica) dei beni comuni va dato conto dell'esistenza di modalità d'uso “alternative” di essi, sinteticamente descrivibili in termini di uso “frazionato”, “turnario” ed “indiretto”.

Con tale ultima locuzione si intende indicare, in senso proprio, l'eventualità per cui i condomini, considerata la natura della cosa comune (ad esempio, un appartamento, in cui, evidentemente, non si può pretendere che i contitolari del diritto abbiano la voglia o la possibilità di convivere), non possono godere direttamente del bene e, pertanto, addivengono ad una soluzione diversa, preferendo, piuttosto, una sua utilizzazione indiretta (così, nell'esempio proposto, i condomini decidono di locare l'abitazione ad un terzo, dividendo tra di loro il provento della locazione in misura proporzionale al valore della quota di ciascuno). Detto in altri termini, l'impossibilità di uso diretto del bene comune da parte di tutti i comproprietari – anche attraverso frazionamenti spazio/temporali – rappresenta il presupposto giustificativo del ricorso a questa forma di uso dei beni comuni, che può essere disposto per consenso unanime dall'assemblea a maggioranza dei partecipanti alla comunione, o eventualmente, dall'autorità giudiziaria, cui ciascun comunista può ricorrere. L'uso indiretto ha, dunque, carattere residuale, nel senso che può essere disposto con deliberazione a maggioranza dei partecipanti alla comunione (o, in mancanza, dal giudice, cui ciascuno di questi può ricorrere) soltanto quando non sia possibile l'uso diretto dello stesso bene per tutti i partecipanti alla comunione, proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente ovvero con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi, con conseguente nullità, ove assunta in mancanza di tali condizioni della delibera assembleare che, a semplice maggioranza, disponga l'uso indiretto della cosa in comunione (Cass. II, n. 22435/2011; Cass. II, n. 15460/2002; Cass. II, n. 4131/2001; Cass. II, n. 6010/1984), in quanto adottata in violazione dell'art. 1102 c.c. a mente del quale ciascun comproprietario ha diritto all'uso diretto del bene. Ove, al contrario, ricorrano i suddetti presupposti, la delibera può essere assunta a maggioranza – sempre che quello oggetto della delibera si configuri in termini di atto di ordinaria amministrazione (esempio: locazione infranovennale del bene comune: Cass. II, n. 4131/2001).

Caso classico di uso indiretto della cosa comune è rappresentato, per l'appunto, dalla locazione di essa ad un solo condomino ovvero a terzi: in tale evenienza, trovando applicazione il dettato di cui all'art. 1108 c.c., ove si tratti di locazioni aventi durata ultranovennale, occorre il consenso di tutti i partecipanti alla comunione mentre per la conclusione di locazioni di durata infranovennale è stata ritenuta sufficiente anche la volontà di uno solo dei condomini, senza la necessità di alcun passaggio assembleare, in virtù del principio della concorrenza – in difetto di prova contraria – di pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, sulla base della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri (Cass. II, n. 1986/2016; Cass. II, n. 9113/1995), rispondendo, peraltro, a regole di comune esperienza che uno o alcuni dei comproprietari gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, mentre l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di colui o di coloro che apparivano agire per tutti.

Il principio ha trovato conferma, peraltro, anche in materia tributaria, essendosi chiarito che, in ipotesi di locazione stipulata da un solo comproprietario, alla richiesta di registrazione del contratto, nonché al pagamento della relativa imposta, sono tenuti, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. a), 10, comma 1, lett. a), e 57, comma 1 del d.P.R. n. 131/1986, tutti i contraenti, in solido tra loro, dovendosi intendere per tali anche gli altri comproprietari dell'immobile concesso in locazione, presumendosi, fino a prova contraria, che la locazione sia stata stipulata con il consenso di tutti e, quindi, sia, ex latere locatoris, unitaria (Cass. V, n. 4580/2015). Ciò implica che l'unico limite alla libertà negoziale del singolo condomino va individuato nel rispetto di una diversa e contraria volontà della maggioranza dei compartecipi (Cass. II, n. 2363/1992).

Tale doppio regime si spiega, in particolare, attraverso il richiamo all'art. 1572 c.c., che individua nella locazione ultranovennale un atto eccedente l'ordinaria amministrazione: il che implica, mediante una lettura a contrario della norma, che la locazione infranovennale deve considerarsi quale atto di ordinaria amministrazione, con l'ulteriore conseguenza che ne discende per cui, in assenza di norme derogative, trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 1105, comma 1, c.c. e, in virtù del quale tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune.

Cionondimeno, sono stati comunque ritenuti efficaci i contratti di locazione stipulati dal singolo comunista, anche se con durata ultranovennale, con la precisazione, però, che seppure in tal caso la locazione della cosa comune sorge validamente, resa comunque salvo il diritto degli altri comproprietari ad agire per il risarcimento dei danni nei contri del condomino-locatore, ove la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione (Cass. II, n. 5890/1982).

Può accadere, ancora, che il contratto di locazione di un bene comune venga concluso direttamente dall'amministratore, in assenza di specifico mandato assembleare: ove si tratti di locazione infranovennale e, dunque, di un atto di ordinaria amministrazione, la Suprema Corte ha concluso per l'efficacia e la validità del contratto, essendo possibile conseguire la finalità del miglior godimento delle cose comuni (art. 1106 c.c.) anche attraverso l'accrescimento dell'utilità del bene mediante la sua utilizzazione indiretta.

Peraltro, ove l'amministratore del condominio abbia locato il bene condominiale in assenza di un preventivo mandato che lo abilitasse a tanto, è valida la ratifica del suddetto contratto di locazione disposta dall'assemblea dei condomini con deliberazione adottata a maggioranza semplice e non qualificata (Cass. II, n. 10446/1998).

Può darsi, ancora, il caso che la stipulazione del contratto di locazione avvenga tra il condominio ed uno dei condomini (dunque, un soggetto che non può certamente considerarsi terzo rispetto alla parte locatrice).

In una simile evenienza, la giurisprudenza è estremamente chiara nel precisare che, quand'anche venga pronunciata risoluzione del contratto per scadenza del termine o inadempimento del conduttore, questi – avendo diritto al godimento dello stesso in proporzione della sua quota di proprietà – non può essere condannato al rilascio del bene medesimo agli altri comproprietari, restando, invece, ai comunisti la facoltà di disciplinare l'ordinaria amministrazione della cosa comune senza privare alcuno dei contitolari del bene delle sue facoltà di godimento (Cass. n. 6405/1999; Cass. n. 8110/1991).

Regime giuridico particolare, infine, è quello che si delinea per la concessione al portiere (ma anche al guardiano o al custode, v. Cass. III, n. 3680/1984) di un alloggio sito all'interno dello stabile condominiale ed all'uopo destinato che, ove non appartenente in proprietà esclusiva ad alcuno dei condomini, si “presume” comune, ex art. 1117, n. 2) c.c.

Lungi dal potersi configurare, in tal caso, un rapporto locatizio tipico, si ritiene comunemente essersi in presenza di una prestazione accessoria al contratto di portierato, del quale segue le sorti essendo a questo funzionalmente collegata, costituendone un parziale corrispettivo (Cass. lav., n. 18649/2012). Tale patto accessorio, dunque, non integra gli estremi di un autonomo contratto di locazione, ma segue le sorti del contratto cui accede, con conseguente obbligo di rilascio dell'immobile al momento della cessazione del rapporto di lavoro (Trib. Milano 6 dicembre 2016; Trib. Firenze 13 gennaio 2015), potendo il condominio, in persona dell'amministratore pro tempore eventualmente agire con la speciale procedura prevista dall'art. 659 c.p.c. (Cass. III, n. 1768/2012; Cass. III, n. 7162/1991; Cass. III, n. 4780/1985).

In altri termini, la concessione in uso dell'alloggio per l'espletamento delle mansioni di portierato o di pulizia dello stabile costituisce una prestazione accessoria del rapporto di lavoro, la quale perde automaticamente la sua obbligatorietà e non è più dovuta con la cessazione del medesimo rapporto, che ne è il necessario presupposto (Celeste, 224).

Da tale peculiare inquadramento della fattispecie e dalla sua non riconducibilità allo schema della locazione (o del comodato) consegue l'inapplicabilità della relativa disciplina, anche per quanto concerne la fissazione della data dell'esecuzione del provvedimento di rilascio, ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392/1978 (Pret. Salerno-Eboli 12 giugno 1997; Pret. Bologna, 4 giugno 1981) o per la previa disdetta (Cass. III, n. 330/1973; Trib. Napoli, 20 giugno 1985) o per le disposizioni dell'art. 1597 c.c. in tema di rinnovazione tacita (Cass. lav., n. 1674/1986): né ciò determina una possibile discriminazione rispetto agli altri tipi di rapporti locatizi, con conseguente profilarsi di una questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 3 Cost., giacché – come detto – il godimento trova la sua fonte nel contratto del lavoro e non in un contratto di locazione, sì che resta giustificata la diversità di trattamento assicurata delle rispettive normative.

La cessazione del rapporto, peraltro, può avvenire per qualunque causa, sia che si tratti, dunque, del licenziamento o del decesso del portiere (in questo caso l'azione di rilascio, in caso di mancata spontanea restituzione, andrà proposta contro gli eredi), che della soppressione del servizio di portierato o sostituzione con altro similare, al fine di destinare aliunde i relativi locali.

In relazione al licenziamento, il relativo potere rientra tra le attribuzioni dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 2), c.c., con possibilità, per l'assemblea chiamata a ratificarne l'operato, di revocare il licenziamento. Il licenziamento, deciso dall'amministratore o deliberato dall'assemblea, va comunque comunicato per iscritto al portiere, e non posto direttamente in esecuzione con il suo allontanamento, altrimenti spettando al lavoratore stesso, che abbia continuato ad offrire la prestazione al condominio, le retribuzioni non percepite (Cass. lav., n. 14949/2000). Avuto riguardo alla soppressione del servizio, invece, la giurisprudenza è ondivaga, nel senso che, mentre in alcuni casi si è ritenuto che solo l'assemblea, con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 5, c.c., possa deliberare la modificazione (o la soppressione) del servizio di portierato – nel rispetto, peraltro, dei principi fissati dall'art. 1120 c.c. per le innovazioni e senza arrecare a taluno dei condomini vantaggi o svantaggi diversi rispetto agli altri (Cass. II, n. 88/2002; Cass. II, n. 5083/1993; Cass. II, n. 4437/1985), in altri frangenti si è sostenuto che, qualora il servizio di portierato sia previsto nel regolamento di condominio, comportando la sua soppressione una modificazione del regolamento, occorre la maggioranza ex art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. II, n. 12290/2001; Cass. II, n. 3708/1995).

Nel delineare il perimetro operativo dell'art. 659 c.p.c. la giurisprudenza ha avuto anzitutto modo di chiarire che sull'esecuzione della conseguente obbligazione restitutoria non può incidere il mancato adempimento, da parte del datore di lavoro, alla obbligazione, derivante da una particolare pattuizione che lo vincoli a concedere in locazione all'ex dipendente un'altra abitazione o, in caso di non disponibilità di alloggi, a corrispondergli un'indennità sostitutiva, giacché la mancata restituzione dell'alloggio di servizio non ha alcuna fonte di legittimazione, dato che il lavoratore può solo vantare il diritto alla stipulazione di un contratto di locazione relativamente ad un diverso immobile, mentre mancano i presupposti per la proposizione da parte sua di un'eccezione di inadempimento, poiché un nesso di corrispettività è configurabile solo nell'ambito di un medesimo rapporto contrattuale. D'altra parte, il godimento dell'abitazione rimarrebbe privo di causa e neanche potrebbe farsi valere un diritto di ritenzione, facoltà giuridica non rispondente ad un principio generale e prevista dalla legge, in via eccezionale, solo in fattispecie determinate (Cass., sez. lav., n. 8477/1996). La particolare procedura ex art. 659 c.p.c. è, inoltre, applicabile anche quando il datore di lavoro conceda al lavoratore il godimento di un immobile con contratto distinto rispetto a quello di lavoro subordinato, purché sussista un collegamento tra i due contratti, il cui accertamento è riservato all'apprezzamento di fatto del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione concreta, coerente e completa (Cass. III, n. 6800/2003). È stato infine controverso, nel passato, se la speciale procedura monitoria potesse applicarsi in ogni caso di cessazione del rapporto, dovuto a qualunque motivo, o solo ai casi di scadenza del termine del contratto ovvero anche nel caso di licenziamento nel contratto a tempo indeterminato. Intervenuta sul punto, Corte cost., n. 238/1975 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non distingueva tra le varie ipotesi di cessazione del rapporto e, specificamente, tra quella di scadenza del termine e quella di licenziamento illegittimo, affermando che, “in entrambi i casi, il rilascio dell'immobile, osservandosi la procedura speciale dell'art. 659 c.p.c., può essere ordinato solo quando, relativamente allo scioglimento, non esista più contestazione”: il che, detto in altri termini, implica che, in ipotesi di licenziamento, prima di iniziare il procedimento ex art. 659 c.p.c. il rapporto deve essere dichiarato estinto irrevocabilmente in altra sede e, in particolare, l'inadempimento causa del licenziamento del portiere deve essere stato accertato. Così si è ritenuto che la pendenza, innanzi al giudice del lavoro, della controversia relativa alla legittimità del licenziamento, con richiesta di condanna del datore di lavoro alla “riassunzione entro 3 giorni o al risarcimento del danno”, non configuri in concreto elemento ostativo alla pronuncia provvisoria di rilascio, in quanto, anche in caso di accoglimento della domanda del lavoratore, questi non avrebbe diritto comunque alla reintegra nel posto di lavoro, dal momento che “la riassunzione sarebbe comunque alternativa al risarcimento del danno, con opzione in favore dello stesso datore di lavoro eventualmente soccombente” (così Trib. Roma 31 gennaio 2005).

L'irrilevanza della titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale in capo al locatore

Il rapporto che nasce dal contratto di locazione e che si instaura tra locatore e conduttore ha natura personale: ne consegue che chiunque abbia la disponibilità di fatto del bene, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederlo in locazione, non rilevando che il locatore non sia anche il proprietario o il titolare di altro diritto reale sul bene. Ciò non implica che sia ammessa la locazione di cosa altrui o che la mancanza di titolarità del diritto reale sul bene sia sempre e comunque irrilevante: tuttavia, la dimostrazione della sussistenza del diritto reale non può essere pretesa dal conduttore per sottrarsi all'adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto (così come, simmetricamente, non potrebbe essere opposta dal locatore per rendersi a sua volta inadempiente verso il conduttore).

Chiara in proposito è Cass. III, n. 27021/2016 (in senso conforme, cfr. anche Cass. III, n. 22346/2014), per cui la natura personale del rapporto che si instaura tra locatore e locatario consente a chiunque abbia la disponibilità di fatto del bene, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, di concederlo validamente in locazione, compreso il nudo proprietario, la cui legittimazione a chiedere l'adempimento dell'obbligo di versamento dei canoni non può essere pertanto contestata dal conduttore convenuto, adducendo l'esistenza della posizione dell'usufruttuario, in quanto essa è estranea al rapporto personale di godimento insorto con la locazione. Del pari, la legittimazione a locare un immobile è stata riconosciuta anche in capo al detentore di fatto, a meno che la detenzione non sia stata acquistata illecitamente e, a maggiore ragione, a chi, acquistato il possesso (o la detenzione) sulla scorta di un valido ed efficace titolo giuridico, abbia conservato tale possesso, non opponendosi il proprietario, dopo la scadenza dell'efficacia di tale titolo (Cass. III, n. 8411/2006; Cass. III, n. 15443/2011).

Conseguono a tali affermazioni due importanti principi di carattere processuale: 1) colui che sia convenuto in giudizio dal locatore per la restituzione dell'immobile locato non può, avvalendosi di un'eccezione de iure tertii, contestare la legittimazione dell'attore allegando la mancanza del diritto reale sul bene in capo al medesimo ovvero il trasferimento a terzi della proprietà del bene, o, ancora, la perdita da parte del medesimo della relativa disponibilità (Cass. III, n. 1940/2004); 2) in caso di simultanea pendenza di un giudizio relativo al rilascio di un immobile concesso in locazione e di altro relativo alla proprietà dello stesso bene in capo al locatore, non ricorrono i presupposti per la sospensione necessaria del primo di essi poiché l'accertamento della proprietà dell'immobile locato non integra una questione pregiudiziale in ordine alla legittimazione a locare (Cass. VI-3, n. 15788/2014; conforme Cass. VI/III, n. 13423/2015).

In dottrina si sostiene, invece, che sono legittimati a locare, senza che ciò leda alcun diritto di terzi, oltre al proprietario, anche l'usufruttuario, l'enfiteuta, il superficiario, il creditore anticretico, il sequestratario e lo stesso conduttore (Guarino, 32; Tabet, 1982, 1004).

Residua, nondimeno, un ambito in cui il diritto di proprietà del locatore assume rilievo: ciò avviene quando alla controversia centrata sui rapporti meramente personali fra locatore e conduttore si sovrappongano o si aggiungano questioni che investano la titolarità del diritto reale sul bene locato, come accade, ad esempio, allorché vi sia controversia fra il locatore e il terzo che si affermi proprietario dell'immobile e si debba decidere dei conseguenti effetti sul rapporto locativo (Cass. III, n. 8411/2006).

Stante il divieto espresso contenuto all'art. 1024 c.c. è, invece, preclusa la stipulazione di contratti di locazione al titolare di un diritto d'uso o di abitazione. Del pari è esclusa la possibilità di una locazione di cosa propria o, più correttamente, di cosa di cui si abbia il godimento in base a titolo diverso dalla locazione (ad es., la locazione a favore dell'enfiteuta, del superficiario, dell'usufruttuario): da un lato, infatti, si verserebbe in presenza di un contratto nullo per impossibilità dell'oggetto; dall'altro, verrebbe a mancare la funzione di scambio (godimento verso pagamento del canone) in cui si sostanzia la causa stessa del contratto.

L'estensione “impropria” della nozione di conduttore

Quanto alla posizione del conduttore, in dottrina si distingue tra la posizione del soggetto contraente in senso proprio e quella dei soggetti che, di fatto, usufruiscono della cosa unitamente al conduttore cui, indipendentemente dal rapporto li lega al conduttore, viene unanimemente negata la qualifica di parte contraente (Tabet, 1982, 1006).

Tali soggetti, al più, godono di diritti che promanano dal rapporto di convivenza con il conduttore, quale, ad esempio, la successione nel contratto di locazione a seguito del decesso del conduttore con cui convivono, istituto disciplinato dall'art. 6 della l. n. 392/1978 (al cui commento si rinvia).

In proposito preme segnalare la difficoltà di coordinamento tra l'art. 6, comma 1, della l. n. 392/1978, per cui, in caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi e l'art. 1607 c.c., disposizione che, benché la presupponga (v. supra), non indica espressamente la convivenza dei familiari quale elemento condizionante l'efficacia della clausola che contempli una durata del contratto ulteriore di due anni rispetto alla morte del locatore.

Su tale tema – che pure in dottrina ancora presenta soluzioni difformi, nella contrapposizione tra la tesi che attribuisce la qualità di conduttori agli eredi iure successionis secondo la norma dell'art. 1614 c.c. e la soluzione che prospetta la estinzione del rapporto, nel caso in cui non sussista alcuno dei soggetti indicati nella norma dell'art. 6 della l. n. 392/1978 – la giurisprudenza di legittimità esprime ormai da tempo l'indirizzo costante della inapplicabilità della norma codicistica in rapporto alla tipicità della locazione abitativa, che giustifica la tipicità della relativa disciplina successoria: sicché, l'erede non convivente – mentre risponde, secondo i principi generali, delle obbligazioni scadute al momento dell'avvenuta successione e già non soddisfatte dal suo dante cause, tra esse anche quelle relative al rapporto di locazione estinto con la morte del conduttore – per il resto, quanto all'immobile locato, non subentra nella detenzione qualificata del conduttore defunto, ma viene a trovarsi con la res locata nella relazione di mero fatto di detenzione precaria che, comunque, gli deriva dalla sua qualità di successore del defunto e che, facendone un occupante senza titolo, rende esperibile nei suoi confronti l'azione di rilascio (Cass. III, n. 6965/2001; Cass. III, n. 26670/2017).

L'oggetto del contratto di locazione

Dall'art. 1571 c.c. si ricava che l'oggetto della locazione è duplice, nel senso che esso consiste, a latere locatoris, nel canone percepito e, a latere conductoris, nel “godimento” di un bene: in senso ampio, invece, si conviene che l'oggetto della locazione debba essere individuato proprio nel godimento del bene locato, quale possibilità di suo utilizzo (c.d. uti) o di sfruttamento (c.d. frui).

Si afferma, in dottrina, che l'uti costituisce oggetto della locazione in senso stretto, mentre il frui quello dell'affitto, categoria che si pone in rapporto di species a genus rispetto alla locazione (Tabet, 1982, 56).

Oggetto del godimento può essere, come esposto in apertura, una cosa mobile o immobile, mentre si esclude che possano esser fatte rientrare nella nozione le cose consumabili, il cui godimento non sarebbe possibile senza pervenire alla loro distruzione, con conseguente impossibilità, per il conduttore, di adempiere all'obbligazione primaria di restituzione. Al contrario, è ammessa la locazione di cose semplicemente deteriorabili. Ancora, può essere oggetto di locazione un immobile abusivo ovvero privo del certificato di abitabilità o agibilità.

Afferma Cass. III, n. 22231/2007 che il carattere abusivo dell'immobile locato ovvero la mancanza di certificazione di abitabilità non importa nullità del contratto locatizio, non incidendo i detti vizi sulla liceità dell'oggetto del contratto exart. 1346 c.c. (che riguarda la prestazione) o della causa del contratto exart. 1343 c.c. (che attiene al contrasto con l'ordine pubblico), né potendo operare la nullità ex art. 40 l. n. 47/1985 (che riguarda solo vicende negoziali con effetti reali): ne consegue l'obbligo del conduttore di pagare il canone anche con riferimento ad immobile avente i caratteri suddetti (conforme Cass. III, n. 22312/2007). Il principio è stato, però, recentemente precisato da Cass. III, n. 16918/2019 che ha chiarito che il mancato conseguimento del certificato di agibilità che non dipenda da intrinseche caratteristiche dell'immobile locato, ma dall'inerzia della parte tenuta a farne richiesta – la quale, salvo diversa previsione contrattuale, va individuata nel locatore – ovvero dallo svolgimento negligente o comunque erroneo della relativa procedura, non determina la nullità del contratto per impossibilità dell'oggetto. Del medesimo tenore Cass. III, n. 13651/2014, per cui nella locazione di immobile per uso diverso da quello abitativo, il locatore è inadempiente ove non abbia ottenuto – in presenza di un obbligo specifico contrattualmente assunto – le autorizzazioni o concessioni amministrative che condizionano la regolarità del bene sotto il profilo edilizio (e, in particolare, la sua abitabilità e la sua idoneità all'esercizio di un'attività commerciale), ovvero quando le carenze intrinseche o le caratteristiche proprie del bene locato ostino all'adozione di tali atti e all'esercizio dell'attività del conduttore in conformità all'uso pattuito.

Non è invece possibile, attraverso la conclusione di un contratto di locazione, disporre del godimento di un diritto, giacché la locazione conclusa dal titolare di un diritto su cosa altrui ha ad oggetto il bene che, a sua volta, costituisce oggetto del diritto reale e non il diritto reale medesimo.

Tale conclusione trova conferma nella giurisprudenza di legittimità chiamata a pronunziarsi sul caso dell'usufruttuario che disponga del proprio diritto di usufrutto concedendolo in locazione: in relazione a tale ipotesi, Cass. III, n. 11687/1992 ha affermato che l'usufruttuario può cedere – sì – temporaneamente l'esercizio del suo diritto, conferendo al cessionario tutti i poteri inerenti e caratterizzanti il suo diritto reale, ma non il solo godimento di tale diritto, mediante un contratto di locazione che, ai sensi dell'art. 1571 c.c., può avere oggetto solo una cosa mobile o immobile.

Allorché il contratto abbia ad oggetto una cosa produttiva non si versa in ipotesi di locazione quanto, piuttosto, di affitto, pur sussistendo tra le due ipotesi un rapporto di genere a specie, nel senso che ove la fattispecie non trovi precipua regolamentazione nelle norme dettate per l'affitto, si fa ricorso alla disciplina generale sulla locazione di cose (Cass. III, n. 24371/2006; Cass. III, n. 10946/2003).

Il criterio di distinzione tra contratto di affitto e contratto di locazione è oggettivo e soggettivo ad un tempo, nel senso che, perché si configuri un contratto di affitto, è necessario non solo che il contratto abbia ad oggetto una cosa produttiva, ma anche che la disponibilità del bene sia concessa al fine di consentire all'affittuario la gestione produttiva dello stesso. In particolare nell'ipotesi di un immobile costituito da fabbricato ed annesso fondo rustico è necessario stabilire la prevalenza o meno, nell'economia del contratto, del godimento del fabbricato o meno, nell'economia del contratto, del godimento del fabbricato e del terreno annesso – che pure può comportare un'attività di coltivazione preordinata alla produzione e percezione dei frutti – ovvero della coltivazione del fondo, intesa come oggetto essenziale di una “gestione produttiva” costituente oggetto di obbligo, prima ancora che di diritto, dell'affittuario (Cass. III, n. 592/1995). Nel medesimo senso si sono espresse, più recentemente, Cass. III, n. 1375/2012; Cass. III, n. 250/2008; Cass. III, n. 2919/1998; Cass. III, n. 8856/1996; Cass. III, n. 3724/1996.

Il canone

Il corrispettivo per il godimento del bene locato prende il nome di “canone” o “pigione” e, ai sensi dell'art. 1587, n. 2), c.c. deve essere corrisposto dal conduttore al locatore nei termini convenuti: esso viene ricompreso tra i frutti civili dall'art. 820 c.c.

In considerazione di tale ultima precisazione, posto che i frutti si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (v. l'art. 821 c.c.), si è sostenuto, in dottrina (Tabet, 1982, 297), che il corrispettivo, dovendo essere ragguagliato alla durata del godimento, non può che avere ad oggetto una cosa suscettibile di frazionamento (anche se non necessariamente una somma di denaro), con la conseguente esclusione della prestazione di dare una cosa infungibile ed unitariamente valutata, ovvero di fare o non fare.

La giurisprudenza, al contrario, fornisce una nozione decisamente ampia di “corrispettivo”: Cass. III, n. 1909/1965 ritiene che esso possa consistere in qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, anche se di misura modesta, perché ove tale utilità economica mancasse o fosse irrisoria il contratto risulterebbe stipulato nello esclusivo interesse di chi riceve la cosa e sarebbe, quindi, qualificabile come concessione gratuita di uso o come precario, o come contratto atipico, ma non come locazione (Cass. III, n. 627/1962), mentre Cass. III, n. 385/1965 ricomprende in tale nozione anche la prestazione di un'opera o un servizio (Cass. III, n. 385/1965); adde Cass. III, n. 424/1962, per cui il corrispettivo, oltre che in un canone periodico, anche in un'utilità corrisposta una tantum in relazione alla prevista durata del contratto.

Si è detto che il corrispettivo può consistere anche nella prestazione di un servizio: ipotesi peculiare è quella in cui il godimento di un immobile venga concesso quale corrispettivo di una prestazione di lavoro.

Le ipotesi enucleate in giurisprudenza sono, in realtà, due: a) il corrispettivo di un rapporto di lavoro è costituito, in tutto o in parte, dalla messa a disposizione del lavoratore, da parte dei datore di lavoro, di un alloggio: in tal caso (v. supra, a proposito della concessione in godimento al portiere dello stabile condominiale dell'alloggio), la possibilità dei lavoratore di risiedere in un appartamento adiacente, o compreso nel complesso dei locali da custodire, costituisce non soltanto una comodità per il lavoratore, ma anche un modo per perseguire in modo appropriato e continuativo la funzione stessa dei contratto e in definitiva determina un vantaggio anche per il datore di lavoro; b) nella pratica può, tuttavia, verificarsi anche un rapporto diverso, e per un certo aspetto opposto e, cioè, che in un rapporto di locazione il proprietario corrisponda all'inquilino una somma per una attività da quest'ultimo prestata: questa richiesta di prestazioni può essere saltuaria, ma può anche assumere aspetto continuativo o addirittura assumere il carattere di un obbligo che l'inquilino deve adempiere come corrispettivo per il godimento dell'alloggio. In tale ultimo caso, dunque, si verifica una situazione opposta a quella precedente: nella prima il godimento dei locali costituiva parte della retribuzione del lavoratore, nella seconda l'attività del conduttore costituisce parte del canone della locazione (Cass. III, n. 4937/1977; Cass. III, n. 943/1963; Cass. III, n. 4897/1988). La distinzione tra le due ipotesi consiste nella diversa importanza delle prestazioni nella economia generale del contratto: nel caso della locazione oggetto principale del contratto è il godimento dell'immobile e la prestazione del conduttore è solo una parte dei corrispettivo dovuto; nel caso dei rapporto di lavoro oggetto principale è la prestazione di lavoro e il godimento dell'alloggio è solo una parte della retribuzione (Cass., sez. lav., n. 12871/1998).

Trattandosi dell'oggetto del contratto – sicché la determinazione del corrispettivo del godimento della cosa è requisito essenziale per la valida costituzione del rapporto locatizio – il canone deve infine considerarsi esistente anche quando, sebbene non fissato nel suo preciso ammontare, sia semplicemente determinabile (Cass. n. 4897/1988; Cass. n. 4937/1977), potendo essere stabilito anche in epoca successiva alla stregua di elementi predisposti all'atto della stipulazione, senza bisogno di un ulteriore consenso da parte dei contraenti, come nella ipotesi delle pigioni a riferimento, o quando le parti rimettano la fissazione dell'estaglio a un terzo con effetto vincolante (Cass. III, n. 4039/1957).

Questione particolarmente dibattuta, infine, è stata quella concernente l'ammissibilità di un canone cd. a scalare o a misura crescente, problematica affrontata ex professo n tema di locazioni di immobili ad uso non abitativo.

Nel passato, Cass. III, n. 6896/1987 aveva affermato che la clausola contrattuale avente ad oggetto la preordinata maggiorazione annuale del canone – in misura fissa o differenziata, anno per anno, a partire dal primo dopo la stipulazione di un contratto di durata legale – doveva ritenersi illegittima alla luce dell'originaria formulazione dell'art. 32 della l. n. 392/1978, norma che, nel porre rigidi limiti cronologici e quantitativi alla convenzione di aggiornamento del canone per rivalutazione monetaria (aggiornamento biennale a partire dal primo giorno del quarto anno dall'inizio della locazione con riferimento al 75 per cento delle variazioni ISTAT del biennio precedente), tende a conservare un attenuato sistema di blocco dei canoni. Il principio ha, però, subìto un primo colpo di senso contrario a seguito di Cass. III, n. 8377/1992 che, pur reputando in astratto nulla tale pattuizione, cionondimeno faceva salva l'ipotesi in cui le maggiorazioni fossero collegate sinallagmaticamente all'ampliamento della controprestazione. A questa hanno fatto seguito una serie di decisioni conformi le quali, ribaltando l'originaria impostazione di senso contrario, hanno affermato il principio per cui la clausola che prevede la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell'arco del rapporto, ovvero prevede variazioni in aumento in relazione ad eventi oggettivi predeterminati (del tutto diversi e indipendenti rispetto alle variazioni annue del potere d'acquisto della moneta), deve ritenersi legittima ex artt. 32 e 79 della legge sull'equo canone, salvo che non costituisca un espediente diretto a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria (v., ex multis, Cass. III, n. 4474/1993; Cass. III, n. 5360/1996; Cass. III, n. 10500/2006; Cass. III, n. 5349/2009; Cass. III, n. 11608/2010; Cass. III, n. 10834/2011; Cass. III, n. 22908/2016). Il medesimo principio è stato applicato, da ultimo, da Trib. Milano, 4 marzo 2013 anche in relazione alle locazioni ad uso abitativo.

Canone libero e canone predeterminato ex lege

Nulla dice il codice in relazione alla determinazione dell'ammontare del canone, diversamente da quanto operato, per il passato e per le locazioni ad uso abitativo, dalla legislazione vincolistica e dalla l. n. 392/1978 (c.d. equo canone).

Non essendo più attuali le questioni insorte sotto la vigenza di tale legislazione speciale (stante l'avvenuta liberalizzazione del canone, operata dall'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998 anche per le locazioni ad uso abitativo, con la sola parziale eccezione rappresentata dai contratti ad uso abitativo di durata infraquadriennale previsti dall'art. 3, comma 3 della medesima legge), il vero problema concerne la sorte dei contratti stipulati sotto la vigenza della l. n. 392/1978 e rinnovatisi nel regime introdotto dalla l. n. 431/1998, relativamente alla clausola – non conclusa ai sensi dell'art. 11 della l. n. 222/1992 – che prevedesse la corresponsione di un canone maggiore rispetto a quello equo.

In proposito, Trib. Monza, 12 maggio 2004, ha evidenziato come la pattuizione del canone in misura superiore a quello legale, eventualmente contenuta nel contratto, continua ad essere nulla anche dopo la tacita rinnovazione del rapporto in epoca successiva all'entrata in vigore della l. n. 431/1998, in virtù di quanto previsto dagli artt. 79 della l. n. 392/1978 e 14, comma 5 della l. n. 431/1998 (v. anche Trib. Cagliari 15 febbraio 2006; Trib. Salerno 10 ottobre 2008). Pertanto, il conduttore, nonostante l'abrogazione degli artt. 12 e 79 della l. n. 392/1978, può esercitare l'azione, ai sensi del citato art. 79, diretta a rivendicare l'applicazione al contratto, fin dall'origine, del canone legale e la sostituzione imperativa di esso al canone convenzionale, con effetto anche relativamente al periodo successivo alla rinnovazione tacita avvenuta nella vigenza della l. n. 431/1998 (Cass. III, n. 12996/2009; Cass. III, n. 3596/2015; contra, però, Trib. Milano, 4 aprile 2000; Trib. Palermo, 20 febbraio 2001; Trib. Palermo, 12 luglio 2002; Trib. Firenze, 13 marzo 2008).

Questione affatto diversa concerne la possibilità che il contratto di locazione contenga una clausola che attribuisca al conduttore l'obbligo di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, manlevando conseguentemente il locatore.

La tematica è stata recentemente affrontata da Cass. S.U., n. 6882/2019 la quale ha escluso la nullità, per contrasto con l'art. 53 Cost. – configurabile quando l'imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito ma da un soggetto diverso, obbligatosi a pagarla in vece e conto del primo – di tale clausola, qualora essa sia stata prevista dalle parti come componente integrante la misura del canone locativo complessivamente dovuto dal conduttore e non implichi che il tributo debba essere pagato da un soggetto diverso dal contribuente, trattandosi in tal caso di pattuizione da ritenersi in via generale consentita in mancanza di una specifica diversa disposizione di legge.

La forma del contratto di locazione

Quanto, infine, alla forma del contratto di locazione, dalla disciplina codicistica e, in specie, dall'art. 1350, n. 8), c.c., si ricava la regola generale della forma scritta ad substantiam per le locazioni di beni immobili che abbiano durata superiore a nove anni (le quali, peraltro, devono essere altresì trascritte, ai sensi dell'art. 2643, n. 8 c.c.) e, quale argomentum a contrario, della forma libera per tutte le altre locazioni e, in specie, quelle relative ai beni mobili (che, in virtù della mancata sottoposizione ad oneri di forma, tanto ad substantiam quanto ad probationem, possono essere provate anche per facta concludentia, con riferimento ad entrambi i loro elementi costitutivi – godimento della cosa e pagamento del corrispettivo; così Cass. II, n. 12304/1997).

Chiarisce in proposito Cass. III, n. 30619/2018 che, in tema di contratto di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, la rinuncia del locatore alla facoltà di diniego di rinnovo alla prima scadenza, di cui all'art. 29 della l. n. 392/1978, non determina la trasformazione del contratto in ultranovennale, con conseguente applicazione della relativa disciplina formale, essendo necessario, allo scopo, che entrambe le parti siano vincolate a tale durata. In senso contrario, però, si è pronunziata, nel passato, Cass. III, n. 10779/1993, per cui la locazione di un immobile ad uso diverso da quello di abitazione, della durata di sei anni con possibilità di rinnovo per altri sei qualora manchino le condizioni previste dall'art. 29 della l. n. 392/1978 per il diniego di rinnovo, configura un atto di straordinaria amministrazione, al pari della locazione ultranovennale, solo quando raggiunge una tale durata per effetto della preventiva rinuncia del locatore alla facoltà di diniego della rinnovazione del rapporto.

Tale regola generale va, tuttavia, conciliata con la disciplina speciale rappresentata, per le locazioni ad uso abitativo, dall'art. 1, comma 4 della l. n. 431/1998 e, per tutti i contratti costitutivi di diritti personali di godimento di durata superiore ai 30 giorni, dall'art. 1, comma 346 della l. n. 311/2004: tali disposizioni prevedono rispettivamente, per le locazioni ad uso abitativo, la necessità della forma scritta ad substantiam e, in generale, per i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, la necessità – a pena di nullità – della registrazione nella ricorrenza dei presupposti (ciò che evidentemente presuppone la redazione in forma scritta).

Sicché, afferma Cass. S.U., n. 18214/2015, il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4 della l. n. 431/1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d'ufficio, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all'evasione fiscale, salvo nel caso previsto dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore.

Solo per completezza, va comunque evidenziato che i contratti di locazione di durata inferiore ai trenta giorni (cd. locazioni brevi), pur non essendo soggetti a registrazione, sono tuttavia soggetti ad una nuova forma di tassazione, introdotta dall'art. 4 del d.l. n. 50/2017, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 96/2017: in relazione a tali contratti sussiste l'obbligo, in capo agli intermediari immobiliari e ai gestori dei portali telematici, di applicare una ritenuta a titolo d'acconto del 21%, sui redditi derivanti da tali contratti; si applica la disciplina prevista dall'art. 3 del d.lgs. n. 23/2011 sicché è possibile per il locatore optare per la già citata cedolare secca con aliquota al 21% e, quindi, soggiacere all'imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle relative addizionali, nonché delle eventuali imposte di registro e di bollo sul contratto di locazione, laddove registrato.

Ulteriore deroga al principio della libertà delle forme è rappresentato, poi, dalla conclusione di contratti di locazione con la Pubblica Amministrazione: in tal caso, in applicazione del principio generale per cui, anche quando agisce iure privatorum, la P.A. “parla” attraverso atti aventi la forma scritta (cfr. gli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440/1923), il contratto di locazione concluso con la stessa, indipendentemente dalla destinazione dell'immobile (abitativa o meno), dalla durata del rapporto (infra ovvero ultranovennale) e dalla posizione assunta dall'amministrazione (locatrice ovvero conduttrice) va redatto in forma scritta, pena nullità dello stesso, rilevabile d'ufficio (Cass. III, n. 12253/2016). Nella giurisprudenza di merito cfr. Trib. Roma, 1 giugno 2020, il quale osserva che la forma scritta ad substantiam è uno strumento di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, sia nell’interesse del cittadino sia nell’interesse della stessa Pubblica Amministrazione).

Così, ad esempio, Cass. III, n. 20387/2016 afferma che il principio per cui chiunque abbia la disponibilità di fatto di un bene, in forza di titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente locarlo, avendo il rapporto tra locatore e conduttore natura personale (v. supra), non soffre eccezioni nel caso il concedente sia un ente pubblico, costituendo la stipula del contratto nella forma scritta, imposta dalla legge per l'ente pubblico, e la consegna dell'immobile al conduttore altrettanti indici di detta disponibilità in capo all'ente medesimo; in applicazione del medesimo principio, Cass. III, n. 19410/2016 esclude la possibilità di una rinnovazione tacita, per facta concludentia, del contratto di locazione concluso con la P.A. posto che, altrimenti, si perverrebbe all'effetto di eludere il requisito formale suddetto: nella medesima occasione, tuttavia, si è altresì precisato che, quando la rinnovazione dell'originario contratto di locazione immobiliare stipulato in forma scritta sia prevista da apposita clausola contrattuale per un tempo predeterminato e sia subordinata al mancato invio di una disdetta del contratto entro un termine dalle parti prestabilito, la rinnovazione tacita per l'omesso invio di tale disdetta deve reputarsi ammissibile, in quanto la previsione della clausola, da un lato, non elude la necessità della forma scritta, e, dall'altro, attesa la predeterminazione della durata del periodo di rinnovazione, consente agli organi della P.A., deputati alla valutazione degli impegni di spesa e dei vincoli di bilancio correlati all'eventuale rinnovazione, di considerare l'opportunità, o meno, di avvalersi della disdetta.

Segue. L'omessa registrazione del contratto di locazione

Quanto, invece, all'ipotesi di omessa registrazione nei termini di legge, nei casi in cui questa sia dovuta, il contratto di locazione è nullo ai sensi dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004 ma, in caso di tardiva registrazione, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, sia pure limitatamente al periodo di durata del rapporto indicato nel contratto successivamente registrato

Così, Cass. S.U., n. 23601/2017 ha precisato che il contratto di locazione di immobili, sia ad uso abitativo che ad uso diverso, contenente ab origine l'indicazione del canone realmente pattuito (e, dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell'art. 1, comma 346 della l. n. 311/2004 ma, in caso di tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, può comunque produrre i suoi effetti con decorrenza ex tunc, atteso che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” è coerente con l'introduzione nell'ordinamento di una nullità (funzionale) “per inadempimento” all'obbligo di registrazione. Nei medesimi termini, a proposito dei contratti ad uso abitativo, Cass. III, n. 32934/2018 e Cass. VI, n. 20858/2017, per cui la mancata registrazione del contratto determina, ai sensi dell'art. 1, comma 346 della l. n. 311/2004, una nullità per violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c., la quale, in ragione della sua atipicità, desumibile dal complessivo impianto normativo in materia ed in particolare dalla espressa previsione di forme di sanatoria nella legislazione succedutasi nel tempo e dall'istituto del ravvedimento operoso, risulta sanata con effetti ex tunc dalla tardiva registrazione del contratto stesso, implicitamente ammessa dalla normativa tributaria, coerentemente con l'esigenza di contrastare l'evasione fiscale e, nel contempo, di mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti, nonché con il superamento del tradizionale principio di non interferenza della normativa tributaria con gli effetti civilistici del contratto, progressivamente affermatosi a partire dal 1998.

In relazione alle locazioni ad uso abitativo disciplinate dalla l. n. 431/1998, va infine segnalato che l'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015 (c.d. legge di stabilità 2016) ha completamente riscritto l'art. 13 della l. n. 431/1998, decisamente innovando rispetto alle conclusioni precedentemente raggiunte da dottrina e giurisprudenza – sulla base dell'originario ordito normativo – in relazione, da un lato, alle interferenze tra diritto tributario e diritto civile e, dall'altro, alla rilevanza dei rapporti negoziali di fatto insorgenti da un contratto di locazione nullo.

In sintesi, il novellato art. 13 a) pone a carico del locatore l'obbligo di provvedere alla registrazione del contratto entro il termine perentorio di trenta giorni e b) estende l'ambito di operatività dell'azione di riconduzione ai casi in cui il locatore non provveda alla registrazione (superando, così, la necessità della prova – gravante sul conduttore – che l'instaurazione di un rapporto di fatto sia dipesa dall'inosservanza della forma scritta per volontà e coercizione del locatore).

Come osservato in dottrina (Padovini, 987), “il risultato perseguito dal legislatore sembra comportare il rovesciamento dei principi tradizionali: la violazione della regola tributaria incide sulla validità del contratto; l'invalidità del titolo può essere recuperata con l'azione cosiddetta di riconduzione, che consente al conduttore di trovare tutela giudiziale per il rapporto di fatto grazie all'applicazione di un canone calmierato”.

In particolare, la novella del 2015 ha introdotto un secondo periodo al comma 1 dell'art. 13, ponendo a carico del locatore l'obbligo – anzitutto – di provvedere alla registrazione del contratto di locazione entro il termine perentorio di trenta giorni.

La connotazione del “termine” in questione quale perentorio induce ad escludere, diversamente dal passato, che una registrazione tradiva possa produrre effetti sananti sull'invalidità del contratto derivante dall'omessa registrazione; peraltro, la norma – così come scritta – pone un o specifico obbligo di facere in capo al locatore, rilevante non solo sul piano tributario, ma anche su quello civilistico quale inadempimento di cui il locatore può – in tesi – essere chiamato a rispondere nei confronti del conduttore il quale, corrispettivamente, è titolare di un diritto avente questo contenuto nei confronti del locatore.

Nei primi interventi della giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 18 dicembre 2017) è stato in proposito osservato che “è noto l'ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale sviluppatosi sugli effetti della tardiva registrazione – ossia oltre il termine di trenta giorni, previsto dalla normativa tributaria e, per quanto riguarda le sole locazioni abitative, dall'art. 13 della l. n. 431/1998 – del contratto di locazione, dibattito in merito al quale si richiama, per evidenti esigenze di economia processuale, la diffusa ed esaustiva disamina effettuata, da ultimo, dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sent. n. 23601 del 9 ottobre 2017. Intervenendo sulla questione, la Corte ha con tale pronuncia affermato, con approfondite ed articolate argomentazioni che, per quanto concerne le locazioni ad uso diverso, in mancanza di norme espresse che qualifichino come perentorio il predetto termine, la tardiva registrazione del contratto consente di sanare l'originaria nullità e ciò con effetti ex tunc, ossia decorrenti dalla data inizio del rapporto. Quella prevista dall'art. 1, comma 346 della l. n. 311/2004, è infatti una nullità “impropria o atipica”, che presenta caratteri peculiari che non consentono di applicare ad essa i tradizionali istituti e canoni ermeneutici stabiliti dal codice civile in tema di nullità. Pur avendo sancito tali principi con riguardo alle locazioni ad uso diverso, l'impianto motivazionale della Corte ed il richiamo ivi fatto, a contrario, alla perentorietà del termine per la registrazione, stabilito dall'art. 13 della l. n. 431/1998 (come introdotto dalla legge di stabilità per il 2016, l. n. 208/2015, ed in vigore dal 1° gennaio 2016), consentono di ritenere che analoga sanabilità non sia consentita, al locatore, per le locazioni abitative che soggiacciono alla disciplina dettata dal citato art. 13, nel testo modificato attualmente vigente (la perentorietà del termine sembra circoscritta alla condotta del solo locatore), ed esclusivamente al fine di far operare la correlata possibilità per il conduttore di ottenere la conformazione del contratto (altrimenti nullo perché non registrato nel termine) al canone autoritativamente predeterminato, come previsto dalla nuova disposizione. Ma ciò, si ripete, per i soli contratti ad uso abilitativo”: § 15 della sentenza citata). Tuttavia, come si è anticipato, la perentorietà del termine per la registrazione delle locazioni abitative è stata introdotta con disposizione entrata in vigore il 1° gennaio 2016 e trova conseguentemente applicazione con esclusivo riguardo alle locazioni stipulate a partire da tale data. Il comma 7 dell'art. 13 – secondo cui tale nuova disciplina si applica “a tutte le ipotesi ivi previste insorte sin dall'entrata in vigore della presente legge” – ad avviso della scrivente – non può essere interpretato diversamente, sia perché non è logicamente configurabile un obbligo che decorre retroattivamente, non potendosi evidentemente pretendere l'osservanza di una prescrizione quando essa non è ancora stata posta, sia perché è previsto dalla normativa tributaria, che il termine de quo decorre dalla stipulazione del contratto (termine che perciò è ampiamente scaduto per tutte le locazioni anteriori, stipulate fino al 1° dicembre 2015), e quindi, a maggior ragione, non si può sanzionare un'omissione in forza di una disposizione introdotta quando il termine per l'adempimento era orai scaduto”.

Grava, inoltre, sul locatore l'obbligo di dare documentata comunicazione di tale adempimento, nei successivi sessanta giorni, al conduttore ed all'amministratore del condominio: quest'ultima previsione, in particolare, va coordinata con l'art. 1130, n. 6) c.c. e, in specie, con l'obbligo di tenuta ed aggiornamento del registro di anagrafe condominiale. Sotto tale profilo, però, va rimarcato come le due previsioni sostanzialmente di duplichino, nel senso che la norma codicistica già impone all'amministratore di “curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento [quindi, anche dei conduttori], comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza delle parti comuni dell'edificio”, prescrivendo, altresì, l'obbligo, in capo ai condomini, di comunicare all'amministratore, in forma scritta entro sessanta giorni, qualsiasi variazione dei dati.

La vera novità introdotta dal legislatore della novella concerne, però, l'azione di riconduzione, spostata dal comma 5 al nuovo comma 6 e completamente riscritta nei presupposti applicativi: ed infatti, la novella ne estende l'ambito di applicazione, abbandonando il presupposto (in precedenza prescritto) dell'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto per l'inosservanza – imposta dal locatore – della forma scritta. Diversamente dal passato, l'azione è consentita nei casi in cui il locatore non abbia provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine di cui al comma 1: con la conseguenza che se ne trae per cui a) il locatore non può più avvantaggiarsi di una registrazione tardiva (produttiva di effetti ex tunc) b) la sanabilità è consentita al solo conduttore, ma effetti, “a valle”, sul canone, giacché “nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il giudice determina il canone dovuto, che non può eccedere quello del valore minimo definito ai sensi dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'art. 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati”.

Si è osservato in dottrina (Padovini, 989) come “il legislatore intende, verosimilmente, offrire protezione al conduttore che subisce il difetto della registrazione, movendo dal presupposto, errato, che l'invalidità per difetto di registrazione assorba la nullità per difetto di forma scritta, quasi che la regola sulla (omessa) registrazione abbia valore esaustivo, poiché la registrazione è generalmente dovuta. In realtà, il legislatore trascura l'ipotesi della locazione orale, per certo nulla in ragione del contrasto con l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998: nullità non sanabile con l'adempimento del dovere fiscale della registrazione”.

Il risultato che ne discende è che la violazione della regola tributaria incide sulla validità del contratto.

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