La tassazione del reddito derivante dall'impiego di cripto-valute
31 Marzo 2020
La Sentenza n. 1077/2020 del 27 gennaio 2020 del TAR Lazio
Non hanno natura costitutiva dell'obbligazione tributaria delle valute virtuali, quali redditi finanziari di provenienza estera da indicare – in quanto tali – nel quadro RW, le Istruzioni dell'Agenzia delle entrate per compilazione del Modello Unico Persone Fisiche 2019, essendo le stesse meramente ricognitive di obblighi dichiarativi già esistenti e promananti dagli artt. 1 e 4 del Decreto-Legge 28 giugno 1990, n. 167 (Recante: “Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l'estero di denaro, titoli e valori” convertito in Legge 4 agosto 1990, n. 227).
Il relativo regime impositivo, inoltre, opera in forza della natura delle operazioni poste in essere mediante tali valori digitali, laddove e nella misura in cui detto utilizzo generi materia imponibile, rilevando a fini tributari una definizione “funzionale” di valuta virtuale (e non meramente tipologica), che impone di ricondurre alle pertinenti forme (già esistenti) di tassazione non il mero possesso di valute virtuali in quanto tali, bensì il loro impiego e la loro utilizzazione entro il novero delle diverse operazioni possibili. Tali principi, recentemente affermati dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda ter), con Sentenza n. 1077/2020 pubblicata lo scorso 27 gennaio 2020, con la quale ha rigettato il ricorso proposto da due associazioni di categoria, impongono una riflessione in punto di legittimità dell'imposizione delle cripto-valute secondo i cardini che informano l'ordinamento giuridico italiano, in generale, ed i presupposti d'imposta fissati dagli articoli 1 e 6 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi, TUIR), in particolare.
La controversia sottoposta al TAR
Nel giudizio in commento i giudici amministrativi si sono pronunciati su un ricorso di legittimità proposto da due associazioni di categoria (si tratta, nello specifico di Assob.it, che ha come scopo quello di favorire lo sviluppo della tecnologia blockchain, e Blockchainedu, che ha lo scopo di favorirne la diffusione in ambito universitario.) teso ad ottenere l'annullamento del provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate n. 23596/2019 del 30 gennaio 2019, recante “Approvazione del modello di ‘Dichiarazione dei redditi 2019-PF, con le relative istruzioni, che le persone fisiche devono presentare nell'anno 2019, per il periodo d'imposta 2018, ai fini delle imposte sui redditi”, nonché del provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate n. 85457/2019 del 30 aprile 2019 (per l'anno di imposta 2018), pubblicato nella medesima data, nella parte in cui il predetto atto dispone “Istruzioni per la compilazione del quadro RW” che annovera le valute virtuali nella tabella “codici investimenti all'estero e attività estere di natura finanziaria” fra le “altre attività estere di natura finanziaria” (in avanti, breviter, “Istruzioni”), avendo tali atti – a parere dei ricorrenti – assoggettato le cripto-valute ad imposizione fiscale in via amministrativa, in assenza di un fondamento normativo primario e senza un provvedimento amministrativo di attuazione.
Non solo, ulteriore (e decisivo) motivo di ricorso è l'asserita carenza, in relazione alle valute virtuali, di caratteristiche tali da consentirne l'assimilazione a redditi diversi di natura finanziaria, imponibili ai sensi dell'art. 67 del TUIR. In particolare, secondo i ricorrenti, rileverebbe in tal senso sia la mancata inclusione dei valori digitali nel numerus clausus delle categorie reddituali di cui all'art. 6 del TUIR, sia la non assoggettabilità delle stesse ai tradizionali criteri geografici utilizzabili per l'inclusione di tali valori tra le attività finanziarie di fonte estera, data la peculiare modalità di conservazione delle stesse (scilicet all'interno di wallet virtuali a-territoriali, ove la disponibilità di ricchezza virtuale coincide con il mero possesso della codice crittografico della “chiave privata”).
Di conseguenza, risulta dunque indeterminato il relativo regime di tassazione, stante – a giudizio delle associazioni ricorrenti – la natura ormai riconosciuta delle cripto-valute quali “mezzi di scambio”, privi di valore monetario, tanto che i relativi prestatori di servizi sono “operatori non finanziari” per l'espressa disposizione normativa contenuto all'interno dell'art. 3, comma 5, lett. i) del D. Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (Avente ad oggetto: “Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché' della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione”) (cd. Decreto anti-riciclaggio).
Sotto il primo profilo, costituenti il I e II motivo di ricorso, il giudice amministrativo regionale – accogliendo la tesi difensiva dell'Avvocatura dello Stato – conferma che le “Istruzioni” in parola non possiedono un carattere provvedimentale ed innovativo dell'Ordinamento, essendo meramente ricognitive della modifica del regime del monitoraggio fiscale operata per effetto del D. Lgs. 25 maggio 2017, n. 90 - recante: “Attuazione della direttiva (UE) 2015/849” (cd. V Direttiva anti-riciclaggio) -, peraltro già in vigore nell'anno precedente. In dettaglio, il TAR – nel pronunciamento in esame – recide il nesso eziologico tra il regime dichiarativo nel quadro RW imposto alle valute virtuali e l'impugnato provvedimento direttoriale recante le il Modello e le relative Istruzioni alla compilazione dei redditi (edizione 2019), rinvenendo – al contrario – la genesi normativa dell'onere in parola ne:
In tale prospettiva, con l'Interpello nr. 956-39 del 2018, l'Agenzia delle entrate aveva già espresso l'orientamento secondo il quale le valute virtuali devono essere oggetto di comunicazione attraverso il citato quadro RW, inserendo nella colonna 3 (“Codice individuazione bene”) il codice 14 (“Altre attività estere di natura finanziaria”). In tal senso, dunque, il chiarimento dell'Amministrazione finanziaria non ha introdotto un nuovo adempimento, ma meglio circostanziato un onere già esistente nel panorama normativo tributario nazionale, in ossequio al principio di trasparenza e dell'obbligo di “clare loqui” che ispira il rapporto tra Fisco e contribuente.
In sostanza, come rileva il giudice amministrativo, l'art. 1 del citato D.L. 167/1990, agisce non solo su un piano oggettivo, sottoponendo espressamente al monitoraggio fiscale sia l'utilizzo delle valute virtuali che l'utilizzo di “mezzi di pagamento” (distinti dalle prime e definiti, come meglio oltre si vedrà, all'art. 1, comma 2, lett. “s” del D.Lgs. 231/2007*), ma anche su un piano soggettivo, vincolando ai suddetti obblighi di monitoraggio sia gli operatori finanziari che gli operatori non finanziari.
* A mente del quale costituiscono “mezzi di pagamento”: “il denaro contante, gli assegni bancari e postali, gli assegni circolari e gli altri assegni a essi assimilabili o equiparabili, i vaglia postali, gli ordini di accreditamento o di pagamento, le carte di credito e le altre carte di pagamento, le polizze assicurative trasferibili, le polizze di pegno e ogni altro strumento a disposizione che permetta di trasferire, movimentare o acquisire, anche per via telematica, fondi, valori o disponibilità finanziarie” (cfr. art. 1, comma 2, lett. “s” del D. Lgs. 231/2007).
Natura giuridica delle valute virtuali
In riferimento alla natura giuridica della cripto-valute, dalla quale a corollario discende il pertinente trattamento fiscale delle stesse, in limine, il TAR evidenzia come l'approccio operativo dell'Agenzia delle entrate in materia di tassazione di valori digitali, sia sostanzialmente volto a ricondurre tali rappresentazioni di valore entro i limiti di categorie giuridico-fiscali già esistenti e consolidate all'interno del sistema normativo domestico. Dipanandosi da tale premessa, il TAR enuclea due orientamenti interpretativi radicatisi in materia tra la dottrina specialistica* e la giurisprudenza di merito, afferenti la subjecta materia e che vedono, rispettivamente, le monete digitali quali beni immateriali ai sensi dell'art. 810 del codice civile o – in alternativa – quali strumenti finanziari.
Valute virtuali come beni immateriali
Esclusa generalmente la loro natura di “moneta”, ancorché convenzionale (in quanto ritenute inidonee ad assolvere – almeno in parte - alle funzioni tipiche di “unità di conto” e “riserva di valore”, in ragione della loro estrema volatilità e della mancanza di valore legale liberatorio ai fini del pagamento), un primo orientamento riconduce le monete elettroniche al novero dei “beni immateriali” ex art. 810 cod.civ. (più precisamente nella tassonomia dei beni mobili, la cui cessione sarebbe da assoggettarsi ad IVA ed IRPEF, a seconda della natura professionale o meno dell'attività del “miner” - produttore di moneta), suscettibili pertanto di formare oggetto di diritti reali ed obbligatori. In tal senso, il TAR richiama la Sentenza n. 18 del 21 gennaio 2019 della Sezione fallimentare del Tribunale di Firenze, in cui il giudice fallimentare toscano aveva affermato che “le cripto-valute (…) possono essere considerati beni ai sensi dell'art. 810 c.c., in quanto oggetto di diritti, come riconosciuto dallo stesso legislatore nazionale [il riferimento è alla definizione normativa di “valuta virtuale” contenuta nella lettera qq) del secondo comma, art. 1 del D.Lgs. 231,2007, n.d.r.], che la considera anche, ma non solo, come mezzo di scambio, evidentemente in un sistema pattizio e non regolamentato, in cui i soggetti che vi partecipano, accettano – esclusivamente in via volontaria – tale funzione, con tutti i rischi che vi conseguono e derivanti dal non rappresentare la criptovaluta moneta legale o virtuale (…)”. Da tale configurazione, la mentovata sentenza del Tribunale fiorentino, ammetteva l'impiego della moneta virtuale (quale mezzo di scambio) a scopo speculativo, dal momento che i soggetti utilizzatori “ben possono sperare che la criptovaluta aumenti di valore quando è in loro possesso, per poi cambiarla in moneta reale (…) e lucrando sulla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, e cioè tra quanto inizialmente ‘investito' e quanto ‘ricavato' alla fine dell'operazione”. Come noto, inoltre, il riconoscimento della moneta elettronica come “bene giuridico” ha trovato un ulteriore endorsement oltreoceano, ove l'Internal Revenue Service ha reputato, con Notice n. 2014-21, la moneta virtuale tassabile come “proprietà” ( Un modello parzialmente analogo a quello statunitense, è quello canadese, dove lo scambio di moneta virtuale è trattato come una permuta; il sistema anglosassone nel quale la valuta virtuale è considerata rappresentativa di un credito).), il cui valore è determinato secondo il fair market value, in dollari statunitensi,alla data di negoziazione. La conseguenza fiscale sarà che il contribuente dovrà dichiarare un capital gain or loss qualora il valore digitale sia detenuto come capital asset (i.e. come un'immobilizzazione finanziaria, analogamente a titoli azionari o obbligazionari) o, al contrario, qualora il bene digitale sia detenuto per la negoziazione, un ordinary gain or loss, con i risvolti impositivi tipici del sistema tributario americano. Coerentemente, dunque, secondo l'Amministrazione finanziaria statunitense, costituirà un ricavo d'esercizio il valore – in dollari – del coin minato dal contribuente e lo stesso (rectius: il suo equo valore di mercato espresso in valuta avente corso legale) potrà essere impiegato quale salario per remunerare i lavoratori dell'azienda, assoggettato in quanto tale alle ritenute previdenziali ed altri oneri contributivi previsti dal Federal Insurance Contributions Act. Si tratta, a ben vedere, del medesimo approccio metodologico seguito dall'Amministrazione finanziaria italiana in precedenza richiamato, teso ad assimilare un fenomeno nuovo e magmatico – come quello delle valute digitali – a schemi giuridici tradizionali e consolidati (cd. “cubby-hole approach”). Valute virtuali come strumenti finanziari
Alternativa al primo impianto giuridico, che vede le valute virtuali assimilate a beni immateriali, è la tesi secondo la quale le stesse dovrebbero accostarsi alla categoria degli strumenti finanziari. Tale qualificazione tende, come evidente, a valorizzare la componente di “riserva di valore” delle valute digitali che, almeno in parte, può caratterizzare le cripto-monete e che consente di attribuire a queste ultime una “finalità d'investimento”. A tal fine, consentirebbe l'accesso a tale opzione esegetica la duttilità della nozione di “prodotto finanziario”, che appare astrattamente capace di abbracciare non solo gli “strumenti finanziari” elencati nella Sezione C dell'Allegato I del D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (recante “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”, TUF - a mente del quale costituiscono "prodotti finanziari" “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria; non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari”.) ma anche “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria” (cfr. la nozione di cui alla lettera u) dell'art. 1 del citato TUF)[2]. In tal senso la consolidata giurisprudenza di legittimità ha incluso nella definizione di prodotto finanziario “ogni conferimento di una somma di danaro da parte del risparmiatore con un'aspettativa di profitto o remunerazione, vale a dire di attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite nell'intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con un rischio” (cfr. Cass. sez. II, 5 febbraio 2013, n. 2736). Conformemente, difatti, la Corte di Cassazione, ha avuto modo di chiarire che “gli investimenti di natura finanziaria, per essere assoggettati ai controlli (…) in quanto prodotti finanziari, debbono rispondere a caratteristiche economico – giuridiche che, se pur non tali da consentirne la riconduzione alla gamma delle fattispecie tipiche (di strumenti finanziari) elencate nel citato comma 2 (dell'art. 1 del TUF), siano quanto meno oggettivamente analoghe” (vgs. Cass. 15 aprile 2009, n. 8947). In tal senso, allora, anche le valute virtuale possono lecitamente candidarsi ad essere qualificate come “prodotto finanziario”, ponendosi come uno strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o rappresentato, purché rappresentativo di un impiego di capitale. In tal senso, a parere del TAR, l'equiparazione esegetica tra valute digitali e gli strumenti finanziari non sarebbe neanche ostacolata dal dettato dell'art. 1, comma 4, del TUF, secondo cui “i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari”, posto che le valute virtuali sarebbero riconducibili a quelle operazioni finanziarie che risultano connotate da “utilizzo di capitale”, “assunzione di un rischio connesso al suo impiego” ed “aspettativa di un rendimento di natura finanziaria” (in questo senso viene richiamato l'orientamento della CONSOB espresso nelle delibere n. 19866/2017, avente ad oggetto la sospensione dell'attività pubblicitaria per l'acquisto di pacchetti di estrazione di cripto-valute; n. 20207/2017, afferenti al divieto dell'offerta di portafogli di investimento in cripto-monete; n. 20720/2018 e 20742/2018, concernenti l'ordine di porre termine alla violazione dell'art. 18 del TUF). Tale impostazione, evidenzia lo stesso giudice amministrativo nella sentenza in commento, avrebbe il pregio di porsi a protezione dei consumatori e dell'integrità dei mercati finanziari, come paradigmaticamente affermato dalla sentenza emessa dal Tribunale Civile di Verona, n. 195 del 24 gennaio 2017, che ha ritenuto applicabile alle fattispecie in esame l'art. 50 del D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (cd. Codice del Consumo). In breve, quindi, l'assimilazione delle valute virtuali a strumenti finanziari, consentirebbe l'estensione delle tutele previste per il consumatore di prodotti finanziari agli utilizzatori di cripto-valute, tra cui quelle sancite nel richiamato art. 50 del Codice del Consumo, recante i requisiti formali per i “contratti negoziati fuori dei locali commerciali”, nonché quelle previste da Authority di settore, come ad esempio nel regolamento CONSOB n. 18592 del 26 giugno 2013 contenente i caveat imposti ai fornitori di servizi finanziari al fine di accrescere il livello di consapevolezza dell'investitore sull'alto rischio derivante da investimenti illiquidi in strumenti finanziari emessi da start up innovative (cfr. art. 67 sexies e ss. del Codice del Consumo). Il fondamento normativo della tassazione
Precipitando su un piano strettamente normativo la questione che ci occupa, la sentenza del TAR, al termine di una pregevole trama argomentativa, si interroga sulle ragioni giustificative dell'imposizione di valori digitali nell'ordinamento giuridico italiano, investigandone – come conseguenza – anche il più appropriato trattamento tributario. A tal riguardo, il giudice amministrativo – abbandonando ogni tentativo di definizione tipologica di ricchezza digitale – esalta una qualificazione “funzionale” di “valuta virtuale” fondata, cioè, non già sul mero possesso della stessa, bensì sul suo impiego ed utilizzo entro il novero delle diverse operazioni possibili. La ricostruzione del Tribunale capitolino si fonda, in particolare, sulle modifiche apportate all'art. 1, secondo comma, del D. Lgs. 231/2007, dal D.Lgs. 4 ottobre 2019, n. 125, laddove si incardinano le definizioni di:
Ebbene, come agevolmente inferibile, la nozione di cui alla lett. “qq” sopra riportata, non si limita a qualificare la moneta virtuale quale “mezzo di scambio”, ma contempla espressamente la possibilità che tramite il suo impiego si compiano operazioni di “acquisto beni e servizi” oppure con “finalità di investimento”, recependo – al contempo – sia la caratteristica plasmabilità delle “rappresentazioni digitali di valori” che consente a queste ultime di veicolare più tipologie di operazioni e scambi (aspetto, del resto, che le stesse parti ricorrenti evidenziano nella loro esposizione preliminare ai motivi di ricorso), sia i connotati di elaborazione pretoria degli strumenti finanziari atipici, in precedenza richiamati. Una definizione che collima, inoltre, con l'ultimo periodo della richiamata descrizione di “mezzo di pagamento” rilevante per la normativa anti-riciclaggio, ovvero “ogni altro strumento a disposizione che permetta di trasferire, movimentare o acquisire, anche per via telematica, fondi, valori o disponibilità finanziarie”, senza che ciò rappresenti un limite (a parere del Tribunale adito) ai sensi del richiamato quarto comma dell'art. 1 del TUF. Invero, l'accoglimento di una nozione “funzionale” della moneta virtuale, nell'indicata prospettiva, conduce il giudice amministrativo romano a ritenere che non sia soggetta a tassazione la moneta virtuale come mezzo finanziario in sé, bensì l'utilizzo della moneta virtuale ai diversi fini che essa rende possibili (ovvero di investimento finanziario o di acquisto di beni e servizi, a seconda dei casi).
Emerge quindi una qualificazione teleologica delle valute virtuali, che ne legittima l'incisione di imposta qualora impiegate come strumenti di pagamento anche con finalità di investimento (inglobanti, dunque, una componente finanziaria). Tuttavia, chiarisce il TAR, l'utilizzo della moneta virtuale non costituisce di per sé “titolo” per la formazione di una particolare categoria di reddito tra quelle elencate all'art 6 del TUIR, rilevando al contrario unicamente la ricchezza sorgiva dall'impiego di moneta digitale per finalità di investimento o di scambio di beni e servizi, con conseguenza possibilità di realizzazione di plusvalenze o altri redditi tassabili in base alla loro natura.
Da questa prospettiva, conclusivamente (e sillogisticamente) il giudice amministrativo definisce una petitio principi l'argomento secondo cui l'utilizzo di moneta virtuale in rapporto ad investimenti esteri non genererebbe materia imponibile secondo il TUIR in Italia, unicamente per la constatazione che quest'ultimo non ne annovera la fonte entro l'elencazione “chiusa” di delle tassonomie reddituali di cui all'art. 6 del Testo Unico. Il trattamento fiscale delle valute digitali in Italia
Tanto detto, il TAR non riviene elementi per escludere il trattamento fiscale dell'uso della moneta virtuale, ai fini della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche, entro il novero dell'art. 67 del TUIR, come indicato nelle impugnate Risoluzioni dall'Agenzia delle Entrate sopra indicate, a mente delle quali:
Tali redditi, se percepiti da parte di un soggetto persona fisica al di fuori dell'esercizio di attività d'impresa, devono essere indicati nel quadro RT del Modello Redditi – Persone Fisiche e sono soggetti ad imposta sostitutiva con aliquota del 26% (l'orientamento dell'Agenzia delle Entrate è stato, inoltre, confermato nella risposta n. 14 del 28 settembre 2018). In conclusione, il trattamento fiscale dell'utilizzo delle cripto-valute opera in forza della natura delle operazioni poste in essere mediante detti valori (oltre che, naturalmente, in base alla natura dei soggetti utilizzatori e delle relative attività, imprenditoriali o meno), laddove (e nella misura in cui) detto utilizzo generi materia imponibile.
L'importante pronunciamento del TAR legittima l'imposizione del quid novi patrimoniale generato dall'impiego di cripto-valute – in coerenza con la declamata definizione “funzionale” delle stesse – a prescindere dalla loro inclusione nelle categorie di reddito previste dall'art. 6 del TUIR. Una visione che trova il proprio fondamento nella riconosciuta componente finanziaria insita nel design tecnico e concettuale delle valute virtuali, assimilate – nel giudizio del Tribunale amministrativo – a prodotti finanziari quali strumenti finanziari atipici, prevendendo gli stessi: (i) l'impiego di capitale; (ii) l'aspettativa di rendimento di natura finanziaria; (iii) l'assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all'impiego di capitale.
Tale ricostruzione, a parere di chi scrive, oblitera tuttavia la peculiare nozione di “possesso” informante la materia tributaria nell'ordinamento italiano e legittimante – non ultimo su un piano squisitamente dogmatico – la pretesa impositiva erariale sulla capacità contributiva espressa dai consociati. Come asseverato dalla più celebre dottrina gius-tributaria (G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Milano, 2018,), la locuzione di possesso rilevante in materia fiscale individua difatti la relazione giuridica, che non ha carattere dogmaticamente omogeneo non essendo omogenei gli elementi costitutivi essenziali del concetto di reddito, che deve sussistere tra reddito e soggetto passivo di imposta al quale esso va ascritto o imputato (possedere un reddito fondiario, fiscalmente è una situazione diversa, ad esempio, di possedere un reddito di impresa o un reddito di lavoro subordinato).
In particolare, il reddito è rappresentato dall'incremento di patrimonio ed il patrimonio, a sua volta, è il complesso degli elementi attivi e passivi valutabili in denaro che fanno capo o appartengono ad una persona. In tale contesto, il possesso designa il vincolo di appartenenza, che assume connotazioni differenti in relazione alla differente natura giuridica dei rapporti di diritto reale o di obbligazioni che compongono il patrimonio.
In quest'ottica le valute virtuali rivestono un rilievo tributario anche in quanto “possedute” patrimonialmente e non solo in quanto “impiegate” per produrre reddito, come invece il Tribunale amministrativo romano sembrerebbe suggerire. In altri termini, la conclusione del giudice amministrativo è anfibologica nel momento in cui antepone il problema dell'assimilazione del reddito digitale entro una delle categorie enucleate all'art. 6 del t.u. a quello dell'asseverazione di un effettivo possesso di valute virtuali dal parte del soggetto passivo di imposta, ignorando in ciò lo stesso dettato normativo dell'art. 1 del TUIR, ove è apertis verbis affermato che “presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'articolo 6”. Una conclusione che, inoltre, pone seri dilemmi di compatibilità costituzionale rispetto al principio di capacità contributiva sacramentato all'art. 53 della Carta Costituzionale dal momento che, nella Weltanschauung del TAR, è tassato non chi possiede cripto-valute ma solo chi le utilizza in veste di strumenti finanziari. Orbene, in tale prospettiva diventa ancora una volta dirimente non solo ai fini di un'imposizione coerente con i principi costituzionali, ma anche ai fini della disciplina del monitoraggio fiscale, l'esatta perimetrazione della nozione di possesso di moneta digitale che – nel caso di specie – si sostanzia nel possesso della cd. private key. Solo una volta individuato l'effettivo possessore della chiave privata sarà infatti possibile determinare, da un lato, la territorialità delle disponibilità finanziarie digitali (con il conseguente onere di compilazione del quadro RW qualora le stesse risultino detenute all'estero) e, dall'altro, stabilire l'esistenza stessa del presupposto impositivo del reddito assimilato – a seconda delle caratteristiche soggettive del detentore del virtual money, riscontrate nel caso concreto – ad una delle categorie tipizzate all'art. 6 del TUIR.
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