Contagio da COVID-19 in ambiente lavorativo: responsabilità penale del datore di lavoro e dell'ente ex d.lgs. 231/2001

15 Aprile 2020

Il presente contributo si propone di analizzare la rilevanza penale delle condotte ascrivibili ai datori di lavoro, per il mancato rispetto degli standard di sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché le correlate ricadute sull'ente, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. A tal proposito è opportuno sottolineare che non vi è dubbio alcuno che il contagio da Covid nei luoghi di lavoro vada considerato alla stregua di un vero e proprio infortunio sul lavoro.
Premessa. I profili di responsabilità penale per la diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro

Come noto, in seguito alla diffusione dell'agente patogeno denominato Corona Virus (da cui l'acronimo COVID-19), sono stati adottati una serie di provvedimenti volti a contrastare la diffusione del predetto Virus anche negli ambienti di lavoro.

In particolare, già a far data dal 3 febbraio 2020, il Ministero della Salute, con circolare n. 3190, forniva, a tutti gli operatori che per ragioni lavorative sono quotidianamente a contatto con il pubblico, le seguenti indicazioni: "Si ritiene sufficiente adottare le comuni misure preventive della diffusione delle malattie trasmesse per via respiratoria, e in particolare:

• lavarsi frequentemente le mani;

• porre attenzione all'igiene delle superfici;

• evitare i contatti stretti e protratti con persone con sintomi simil influenzali;

• adottare ogni ulteriore misura di prevenzione dettata dal datore di lavoro.”

Non mancava, infine, il Ministero di invitare tutti i datori di lavoro coinvolti in servizi/esercizi a contatto con il pubblico a diffondere tali misure ai propri lavoratori dipendenti.

Successivamente sono stati emanati diversi decreti del Presidente del Consiglio, tra cui quello del 22 marzo 2020, che comprende il pacchetto di misure di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica, finalizzato a contrastare e contenere il diffondersi del COVID-19 attraverso, la sospensione di tutte le attività commerciali e industriali - il regime introdotto è stato prorogato, da ultimo, sino al 3 maggio 2020 -, dal D.P.C.M. del 10 aprile 2020 -, fatta eccezione per quelle individuate nell'allegato 1 del D.P.C.M.: restano, pertanto, in essere, a titolo esemplificativo, le attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità, le edicole, le farmacie, le parafarmacie, la ristorazione con consegna a domicilio, i servizi bancari, finanziari, assicurativi, l'attività del settore agricolo, comprese le filiere che ne forniscono beni e servizi.

Per tutte le attività lavorative elencate in tale allegato sono state imposte una serie di precauzioni finalizzate a tutelare quella categoria di lavoratori costretta a proseguire la propria attività.

In questo senso, è stato adottato, altresì, il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure anti-contagio negli ambienti di lavoro, firmato, il 14 marzo 2020, dal Governo e dal Presidente di Confindustria, volto a “coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative” secondo la “logica della precauzione”, che ha fornito importanti indicazioni comportamentali per le Società, non solo in ambito igienico sanitario, ma anche in quello organizzativo in senso lato.

In primo luogo, si prevede, ove possibile, la riduzione o la sospensione dell'attività lavorativa, anche mediante il ricorso ad ammortizzatori sociali o a congedi retribuiti e, in alternativa, lo svolgimento del lavoro agile (c.d. smart working); in secondo luogo, solo laddove ciò non fosse attuabile, è prevista la prosecuzione delle attività lavorative, alla condizione, però, che vengano assicurati adeguati livelli di protezione per i lavoratori.

All'interno di tale documento sono state previste, tra le diverse misure, la sanificazione nei luoghi di lavoro, l'adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio, l'utilizzo di specifici DPI, il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro, nonché la limitazione degli spostamenti all'interno dei siti e degli accessi agli spazi comuni.

Il quadro sin qui delineato rende opportuna e doverosa una riflessione sulle questioni giuridiche di rilevanza penale e amministrativa, ex d.lgs. 231 del 2001, che potrebbero sorgere dallo svolgimento di attività in presenza di condizioni che non rispettino gli adeguati livelli precauzionali stabiliti dalle diverse fonti normative.

Il presente contributo si propone, quindi, di analizzare la rilevanza penale delle condotte ascrivibili ai datori di lavoro, per il mancato rispetto degli standard di sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché le correlate ricadute sull'ente, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001.

A tal proposito è opportuno sottolineare che non vi è dubbio alcuno che il contagio da Covid nei luoghi di lavoro vada considerato alla stregua di un vero e proprio infortunio sul lavoro.

Una conferma di quanto appena affermato si ricava dall'art. 42, comma 2, del decreto legge n. 18, del 17 marzo 2020 (cosiddetto Decreto Cura Italia), secondo cui il contagio da Coronavirus deve essere trattato dal datore di lavoro pubblico e privato e dall'Inail come un infortunio.

Ancora più chiare sul punto sono le indicazioni fornite dall'Inail con la circolare n. 13, del 3 aprile 2020, secondo cui “la norma di cui al citato articolo 42, secondo comma, chiarisce alcuni aspetti concernenti la tutela assicurativa nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), avvenuti in occasione di lavoro. In via preliminare si precisa che, secondo l'indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l'Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l'aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall'Istituto…”.

Per la giurisprudenza penale, poi, “in tema di lesioni personali, costituisce "malattia" qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione. Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che costituisce malattia l'instaurazione nell'organismo di un meccanismo degenerativo, che, se non fronteggiato tempestivamente e costantemente con l'assunzione di terapia farmacologia, conduce ad ulteriori alterazioni e alla fase conclamata di AIDS.” (ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, n. 43763 del 29/09/2010, Adamo, Rv. 248778).

Da ciò discende, inevitabilmente, come verrà più diffusamente analizzato nel prosieguo, che nei casi di contrazione del Covid, da parte dei dipendenti o di terzi, all'interno dei luoghi di lavoro, potrebbe insorgere una responsabilità sia del datore di lavoro per i reati di lesioni colpose e omicidio colposo, commessi in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sia della società per violazione del d.lgs. n. 231 del 2001.

I predetti reati potranno, tuttavia, essere concretamente contestati in presenza di tre condizioni:

  1. che il contagio sia avvenuto all'interno dell'ambiente di lavoro;
  2. che vi sia stata una violazione della normativa emergenziale e/o del d.lgs. n.81 del 2008;
  3. che sussista un nesso di causalità tra l'evento dannoso (lesioni o morte) e la violazione della normativa predetta.

Difficilmente, invece, potrà configurarsi a carico del datore di lavoro una responsabilità per epidemia colposa, ai sensi dell'art. 452 c.p., in relazione al 438 c.p., che punisce “chiunque per colpa (a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) cagiona una epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”.

La giurisprudenza della Cassazione, infatti, ha escluso l'applicazione di tale norma, nel caso di mancato impedimento dell'evento, poiché il reato di epidemia colposa non è configurabile a titolo di responsabilità omissiva: “In tema di delitto di epidemia colposa, non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l'art. 438 c.p., con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni», richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40, comma 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera”. (ex plurimis, Cass.pen.,Sez. IV, 12/12/2017, n.9133).

Qualora, pertanto, dovesse essere confermato questo orientamento giurisprudenziale, non potrà essere contestata tale fattispecie al datore di lavoro, che ha omesso colposamente l'adozione di misure idonee a impedire la diffusione del virus.

La posizione di garanzia e gli obblighi del datore di lavoro relativi al contrasto del Covid

Come noto, dall'art. 2087 c.c. discende, in capo all'imprenditore, l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro ed a prevenire l'insorgenza di malattie correlate al lavoro stesso.

Il datore di lavoro, ovvero colui che riveste, all'interno del proprio ambito lavorativo, la titolarità effettiva dei poteri decisionali e finanziari, è, inoltre, ai sensi del d.lgs.n. 81 del 2008 (artt. 17 e 18), il principale soggetto responsabile della sicurezza dei lavoratori ed è tenuto a controllare personalmente, salvo rilascio di delega ai sensi dell'art. 16 del predetto decreto, la corretta attuazione delle misure di sicurezza in azienda.

In ogni caso, gli obblighi assegnati dalla normativa sulla sicurezza al datore di lavoro che non possono essere mai delegati sono:

  • la valutazione dei rischi e l'elaborazione del DVR (art. 28 T.U.);
  • la designazione dell'RSPP.

Tra gli ulteriori doveri del datore di lavoro figurano altresì la programmazione delle misure di prevenzione (successivamente alla valutazione dei rischi), la nomina di un medico competente per la sorveglianza sanitaria in azienda e la gestione delle emergenze (alla quale può provvedere nominando figure preposte come l'addetto antincendio e l'addetto al primo soccorso).

Più nello specifico, il datore di lavoro deve, per quanto qui rileva, “effettuare la valutazione dei rischi derivanti dall'esposizione agli agenti biologici presenti nell'ambiente” (art. 282, commi 1 e 2, lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008), “informare i lavoratori circa il pericolo esistente, le misure predisposte e i comportamenti da adottare” (art. 55, comma 5, lett. a), d.lgs. n. 81 del 2008), «fornire i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale» (art. 55, comma 5, lett. d), d.lgs. n. 81 del 2008), «richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti a suo carico» (art. 55, comma 5, lett. e), d.lgs. n. 81 del 2008), «richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione», programmare gli interventi da attuare «in caso di pericolo immediato» (art. 55, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 81 del 2008), in caso, poi, di affidamento di lavori a un'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda «cooperare nell'adozione di misure di prevenzione e protezione dai rischi» e «coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori» (art. 55, comma 5, lett. d), d.lgs. n. 81 del 2008).

L'omissione di tali cautele configurerà, in capo al datore di lavoro, la violazione delle contravvenzioni previste dal T.U. 81/2008, che potranno eventualmente costituire profili di colpa specifica in caso di contaminazione di soggetti entrati in contatto con l'ambiente lavorativo.

In forza di tali disposizioni, il legale rappresentante della società assume la posizione di garante della sicurezza, ovvero di soggetto tenuto a dominare una fonte di pericolo per la tutela dei beni da questa pregiudicabili, quali che siano i titolari.

In buona sostanza, l'amministratore diviene destinatario dell'obbligo giuridico di impedire che chi entra in contatto con l'ambiente lavorativo contragga il Covid.

Dal mancato rispetto di tale obbligo può discendere, in forza della cosiddetta clausola di equivalenza, di cui all'art. 40, comma 2, c.p., una responsabilità penale per le fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose, di cui agli artt. 589 e 590 c.p., commesse in violazione della normativa a tutela dell'igiene e della sicurezza sul lavoro.

L'assunzione della posizione di garanzia nonché dei conseguenti obblighi non è volta a tutelare solo i lavoratori ma anche i terzi che entrano in contatto con la realtà aziendale.

È, invero, giurisprudenza consolidata quella secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, il soggetto beneficiario della tutela è anche il terzo estraneo all'organizzazione dei lavori, sicché dell'infortunio che sia occorso all'extraneus risponde il garante della sicurezza, sempre che l'infortunio rientri nell'area di rischio definita dalla regola cautelare violata e che il terzo non abbia posto in essere un comportamento di volontaria esposizione a pericolo (così, Cass. pen., Sez. IV, 17 giugno 2014, n. 43168, Rv. 260947).

In questa prospettiva, il limite della responsabilità datoriale viene individuato nell'ambito della causalità, sostenendosi che il fatto è commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro quando, tra siffatta violazione e l'evento dannoso, sussista un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente dell'impresa obbligata al rispetto di dette norme ma un estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (Cass. pen., Sez. IV, 10 novembre 2005, n. 11360, Rv. 233662).

Accanto alla responsabilità penale del datore di lavoro, potrebbe, inoltre, affiancarsi, come sopra accennato, anche la responsabilità della società, per violazione del d.lgs. n. 231 del 2001, che nel catalogo dei reati presupposto ricomprende anche quelli di lesioni e omicidio colposo con violazione della normativa a tutela dell'igiene e della sicurezza sul lavoro, di cui al d.lgs. n. 81 del 2008.

La responsabilità della società ex d.lgs. n. 231 del 2001 per la diffusione del Covid

La mancata adozione delle misure di tutela della salute dei dipendenti e dei terzi, da parte del titolare della posizione di garanzia, potrebbe, invero, esporre anche la società a una responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001.

Come noto, infatti, la responsabilità dell'impresa per il reato commesso da una persona fisica si configura laddove si verifichino cumulativamente le seguenti condizioni:

  1. il reato presupposto sia stato commesso da un soggetto che rivesta funzione di rappresentanza, amministrazione o direzione dell'Ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria o funzionale, nonché da persone che esercitino anche di fatto la gestione o il controllo dello stesso, o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno di questi soggetti;
  2. il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'Ente;
  3. l'Ente sia sprovvisto di un adeguato Modello Organizzativo idoneo alla prevenzione del reato presupposto.

Come già osservato, nel novero dei reati presupposto della responsabilità di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, sono, ricomprese, all'art. 25-septies, le fattispecie di cui agli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) c.p., commesse in violazione della normativa a tutela dell'igiene e della sicurezza sul lavoro, di cui al d.lgs. 81 del 2008.

La compatibilità tra i reati di natura colposa, caratterizzati dalla non volontarietà dell'evento, presupposto della responsabilità dell'ente, e i concetti di interesse e vantaggio, che evocano invece la direzione finalistica della condotta, è stata da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite.

La vicenda giudiziaria che ha offerto alle Sezioni Unite la possibilità di pronunciarsi sulla questione è quella relativa al caso Thyssenkrupp Acciai Speciali Terni S.p.A. (Cass. pen., sent. n. 38343/2014). I Giudici, nell'occasione, hanno confermato la responsabilità dell'ente, affermando che i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d'evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all'esito antigiuridico, ritenendo, perciò, integrati gli stessi ogniqualvolta si persegua un risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza, la velocizzazione dell'attività produttiva o l'aumento di produttività non ostacolata dal costante rispetto della normativa prevenzionale.

Ciò sta a significare che nel caso di contagio da Covid all'interno dell'ambiente lavorativo, l'interesse o il vantaggio dell'ente potrebbero essere ravvisati, ad esempio, nel risparmio conseguente al mancato acquisto dei dispositivi di protezione individuali (DPI) specifici (guanti, mascherine, gel igienizzante, ecc.), oppure nella mancata riduzione dell'attività produttiva, che si sarebbe, invece, verificata in caso di adozione delle misure prescritte per Legge (distanziamento, divieto di assembramenti, scaglionamenti, ecc.).

In caso di riconoscimento della colpa di organizzazione all'ente potrebbero essere applicate, ex art. 9, d.lgs. n. 231 del 2001, sanzioni pecuniarie, interdittive, patrimoniali (confisca) nonché la pubblicazione della sentenza di condanna.

Le misure precauzionali che possono incidere positivamente sulla responsabilità del datore di lavoro e dell'ente

Per ridurre significativamente il rischio di una responsabilità penale per il datore di lavoro e, ex d.lgs. n. 231 del 2001, per l'ente, le società devono adottare tutte le misure possibili atte a contenere la diffusione del Covid all'interno dell'ambiente lavorativo.

Anzitutto sarà opportuno aggiornare il documento di valutazione dei rischi (DVR), che rappresenta il punto di partenza indispensabile per innalzare il livello di sicurezza aziendale, per rendere effettivo l'onere di prevenzione che grava sul datore lavoro e per adeguare le misure di sicurezza alle nuove esigenze di contrasto al virus.

A tale proposito, vale la pena ricordare che il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione di suddetto documento non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata.

Basti ricordare che il datore di lavoro è tenuto a redigere e a sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi, previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale deve indicare, in modo specifico, i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori.

A tal fine, è utile e necessario un primo consulto con il medico aziendale, per pianificare tutte le azioni concrete che devono essere messe in campo per adottare, dopo una adeguata valutazione dei rischi specifici e delle attività sensibili, un protocollo di sicurezza anti-contagio che dovrà integrare le misure già in essere.

Ulteriori misure precauzionali, che devono essere adottate per la riduzione del rischio di contagio, sono indicate nelle linee guida contenute nel soprarichiamato Protocollo del 14 marzo 2020, siglato tra Governo e Confindustria.

In particolare, sono tredici i punti del Protocollo dove sono contenute le misure precauzionali da adottare per ridurre il rischio di contagi; misure che possono essere integrate o sostituite “con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali”.

La società dovrà disciplinare le modalità di ingresso e di uscita da parte del personale dipendente, nonché di terzi (fornitori, clienti, visitatori, ospiti, utenti), che dovranno ridurre le occasioni di contatto e garantire il distanziamento sociale. Inoltre, dovrà sempre essere controllata la temperatura corporea di chi fa ingresso nella struttura, mediante strumenti di rilevamento termico a distanza.

Ulteriore misura da porre in essere, poi, è costituita dall'effettuazione della pulizia e della sanificazione dei locali nonché dall'approntamento delle precauzioni igieniche e sanitarie, come, ad esempio, i prodotti antibatterici, che l'azienda deve mettere a disposizione dei lavoratori, ma anche dei terzi che fanno ingresso nell'ambiente lavorativo.

Inoltre, devono essere impiegati dispositivi di protezione individuale, quali mascherine, guanti, occhiali, tute, cuffie, camici. Tali dispositivi devono essere messi a disposizione dei dipendenti nonché dei terzi che accedono alla struttura aziendale.

Devono essere, altresì, elaborate procedure di gestione delle persone sintomatiche, nel rispetto della normativa sulla privacy e sul trattamento dei dati personali, avendo cura di garantire il corretto isolamento delle stesse e la riduzione del rischio di contagio di altri dipendenti o di terzi.

Da ultimo, la società dovrà fornire informazioni riguardanti i rischi specifici dell'impresa, le prescrizioni igienico-sanitarie e di autoregolamentazione di cui la stessa si è dotata, l'importanza di agire in conformità delle misure di prevenzione e protezione adottate nonché le conseguenze che il mancato rispetto di tali misure può provocare sul piano disciplinare. Tali informazioni dovranno essere veicolate e pubblicizzate all'interno del contesto aziendale, affinché risultino conoscibili e comprensibili da parte di chiunque.

Dovranno pertanto essere predisposti e adottati dei protocolli aziendali,possibilmente di concerto con i sindacati, che recepiscano tali indicazioni e che consentano un'operatività aziendale conforme ai requisiti di sicurezza anti Covid.

Tali protocolli andranno ad integrare i sistemi di compliance aziendale già esistenti in materia di infortuni sui luoghi di lavoro nonché il modello di organizzazione e gestione che dovrà essere quindi aggiornato.

Il ruolo chiave dell'organismo di vigilanza

In questo contesto assume grande importanza il ruolo dell'Organismo di Vigilanza, che, pur non avendo compiti gestori, è chiamato a supportare l'imprenditore, attivandosi per verificare il corretto funzionamento e l'osservanza del Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo, come previsto dall'art. 6, del d.lgs. n. 231 del 2001.

Sarà, infatti, compito principale di tale Organismo verificare che la Società adotti tutte le misure idonee a tutela della salute dei propri dipendenti e dei terzi e, laddove vengano rilevate carenze procedurali, dovrà sollecitare il management aziendale all'adozione immediata di tutte le opportune cautele, così da scongiurare il rischio di incorrere nella responsabilità di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

In particolare, l'OdV sarà chiamato a:

  1. interloquire con il datore di lavoro, l'RSPP, il medico competente e tutti i soggetti in grado di riferire sulle misure adottate, al fine di verificare le azioni già intraprese per far fronte all'emergenza e valutare l'eventuale adozione di altre;
  2. valutare l'eventuale istituzione di comitati di crisi con cui coordinarsi per l'adozione e la verifica del rispetto dei protocolli;
  3. gestire le segnalazioni (es: mancanza di DPI o inadeguata attività di sanificazione degli ambienti) ricevute tramite procedura whistleblowing e supportare i vertici aziendali nell'adozione delle misure correttive;
  4. verificare l'adeguatezza del MOGC e suggerire al CDA eventuali modifiche.
La difficoltà di accertamento del nesso di causalità

L'aspetto certamente più difficoltoso per l'accertamento della responsabilità penale, sarà rappresentato dalla prova del nesso di causalità, tra la condotta omissiva del garante della sicurezza ed i singoli episodi di contaminazione.

Anzitutto, andrà dimostrato che i sintomi o il decesso sono causa dell'esposizione al virus e non conseguenza di altre patologie cliniche. Tale prova non sarà facile da fornire, atteso che in moltissimi casi non sono stati nemmeno eseguiti esami scientificamente idonei a dimostrare l'avvenuto contagio.

In considerazione dell'ampia diffusione del virus nell'ambiente, poi, sarà difficile accertare se lo stesso sia stato contratto in azienda e a causa di specifiche omissioni del management, oppure se al di fuori di essa.

In tema di reati omissivi l'accertamento del nesso di causalità richiede, del resto, che, ipotizzandosi l'effettuazione dell'azione doverosa omessa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, si possa concludere, con elevato grado di credibilità razionale, che l'evento non avrebbe avuto luogo. Si tratta, in altre parole, del cosiddetto giudizio controfattuale.

In particolare, in tema di lesioni colpose o omicidio colposo, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto sussistente il nesso causale tra ambiente di lavoro insalubre ed affezioni morbose contratte dal lavoratore non solo quando emerge con certezza che l'adozione delle norme precauzionali avrebbe scongiurato il prodursi dell'evento dannoso, ma anche nei casi in cui, pur non potendosi escludere in assoluto la possibilità di un diverso meccanismo causale, non risultino dotate di ragionevole concretezza ipotesi alternative dell'insorgere dei processi morbosi per cause, ovvero concause, del tutto indipendenti dall'accertata insalubrità dell'ambiente (Cass. pen., Sez. IV, 14 luglio 2006, n. 41939, Rv. 235162).

Sarà, pertanto, davvero compito arduo quello di riuscire a dimostrare che le lesioni o la morte sono derivate dal Covid e che lo stesso è stato contratto, con ragionevole concretezza, all'interno dei luoghi di lavoro e non al di fuori di essi, dove è parimenti diffuso.

Vi sono, tuttavia, situazioni, come quelle all'interno degli ospedali e delle RSA, dove si è verificato un alto numero di contagi e di decessi tra il personale medico e infermieristico, i ricoverati e gli ospiti delle case per anziani, in cui l'accertamento del nesso di causalità sarà meno problematico, soprattutto per queste due ultime categorie di persone che, salvo rare eccezioni, non sono mai fuoriuscite dalle strutture.

In tali casi, laddove sia provato che non vi è stato contatto con altri ambienti, sarà pertanto possibile escludere che il contagio da Covid sia avvenuto altrove.

Dovrà, tuttavia, sempre essere dimostrato che le lesioni o il decesso siano avvenuti per contagio da Covid e che, il contatto con l'agente patogeno, sia avvenuto per la mancata adozione di idonee misure anti Covid e non, invece, per condotte abnormi o esorbitanti dei dipendenti o di terzi, capaci di recidere il nesso di causalità e escludere quindi la responsabilità delle strutture sanitarie.

È opportuno ricordare, a tal proposito, che nella giurisprudenza di legittimità è considerata “interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell'area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro” (Cass. pen., Sez. IV, 16 febbraio 2015, n. 6741).

Con riferimento alla responsabilità penale del datore di lavoro delle strutture sanitarie o sociosanitarie deve segnalarsi, tuttavia, che è stato presentato un emendamento al decretolegge17 marzo 2020, n.18, nel quale viene previsto che: “1. Le condotte dei datori di lavoro di operatori sanitari e sociosanitari operanti nell'ambito o a causa dell'emergenza COVID-19, nonché le condotte dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio non determinano, in caso di danni agli stessi operatori o a terzi, responsabilità personale di ordine penale, civile, contabile e da rivalsa, se giustificate dalla necessità di garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell'assistenza sanitaria indifferibile sia in regime ospedaliero che territoriale e domiciliare.

2. Dei danni accertati in relazione alle condotte di cui al comma 1, compresi quelli derivanti dall'insufficienza o inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale, risponde civilmente il solo ente di appartenenza del soggetto operante ferme restando, in caso di dolo, le responsabilità individuali.

Qualora, quindi, tale emendamento dovesse essere recepito nella Legge di conversione, non potrà essere riconosciuta alcuna responsabilità penale ai legali rappresentanti delle società sanitarie o sociosanitarie.

Guida all'approfondimento

Alla luce di quanto osservato, è evidente che, in una situazione emergenziale come quella che stiamo vivendo, il datore di lavoro è chiamato, più che mai, ad adottare misure necessarie a prevenire e a contenere il rischio di malattie in azienda.

Del resto, le conseguenze, in caso di omessa attivazione, potrebbero comportare, come sopra illustrato, pesanti responsabilità per lo stesso e per la società.

Si ritiene, tuttavia, che chi sarà chiamato a valutate le condotte dei datori di lavoro, dovrà, in primo luogo, tenere conto che, quantomeno nella prima fase dell'emergenza (sino a febbraio circa), circolassero informazioni distorte e poco chiare sul Covid (si pensi alle affermazioni di alcuni rinomati politici e affermati virologi secondo cui si trattava di una semplice influenza o poco più), che hanno inevitabilmente inciso sulla consapevolezza di ciò che stava accadendo e, conseguentemente, sulle misure adottate e sulla loro tempestività.

In secondo luogo, occorrerà considerare che, per lungo tempo, il reperimento sul mercato di liquidi igienizzanti nonché di adeguati dispositivi di protezione personale fosse quasi impossibile, con la conseguenza che nessun rimprovero potrà essere mosso, quantomeno a chi sarà in grado di dimostrare di aver tentato di acquistare tali dispositivi nonché di non aver potuto interrompere l'operatività aziendale, rientrando la stessa tra quelle indispensabili (ad esempio ospedali/RSA, società alimentari).

Tali circostanze, in molti casi, potranno ridurre significativamente, se non addirittura escludere, la colpa del datore di lavoro che non ha adeguato il livello di sicurezza aziendale agli standard richiesti dall'emergenza Covid.

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