Rito abbreviato e impugnazione dell'imputato non comparso: un codice poco chiaro e non coordinato crea problemi e giustifica compressioni dei diritti
05 Maggio 2020
Abstract
Tra gli effetti della novella sul processo “in absentia”, che ha spazzato via l'istituto della contumacia, va annoverato l'orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto incompatibile, e perciò tacitamente abrogata per incompatibilità, nel 2014, la normativa che imponeva la notifica della sentenza, resa in abbreviato, all'imputato non comparso. Qualche confusione tra “non comparso” e “contumace” e qualche interpretazione non impeccabile hanno nel tempo animato dubbi sull'obbligo di notifica della sentenza e, conseguentemente, sulla decorrenza del termine per impugnare. Frattanto, gli artt. 442, comma 3,c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p. hanno continuato a figurare in un testo non coordinato, fonte di dubbi e di errori dalle conseguenze drammatiche per gli imputati non comparsi. Nel 2019, le Sezioni Unite penali della Suprema Corte hanno ricostruito e chiarito l'intera vicenda, i cui prodromi vanno rinvenuti nella norma che estese al rito abbreviato della figura del contumace. La 6° sezione penale della Corte, oggi, non si discosta; ma aggiunge un monito. Senza dubbio alcuno, l'ormai datata novella introdotta con la l. 67/2014, abrogando la contumacia e introducendo l'assenza dell'imputato, ha rivoluzionato un modo di pensare e di gestire il processo penale. La regola previgente imponeva che, in ogni stato e grado, l'imputato fosse puntualmente informato del procedere della vicenda processuale e che la sua eventuale, mancata comparizione fosse quindi solo il risultato di una libera e cosciente scelta. Le norme sulla verifica della costituzione delle parti, sulla rinnovazione degli avvisi, la libera valutazione della probabilità che l'imputato non avesse avuto conoscenza dell'ultima notifica e l'impedimento a comparire per caso fortuito o forza maggiore, valutabili, però, dal giudice anche in termini di probabilità, seppur in un regime generale di poco garantista incertezza, imponevano la considerazione di un diverso valore da riconoscersi in termini generali all'effettività della partecipazione dell'imputato al processo. La contumacia poteva dichiararsi, e il processo poteva quindi procedere, solo quando l'imputato avesse ricevuto notizia di quanto accaduto e, nonostante ciò, avesse scelto di non comparire. Come detto, la novella ha capovolto i termini della questione, introducendo il processo all'assente, validamente celebrato perfino nei confronti di chi non abbia avuto notizia della prima udienza, ma sia comunque a conoscenza della pendenza del procedimento per esser stato arrestato o fermato, per aver eletto domicilio, per aver nominato un difensore di fiducia. Dall'onere dello Stato di notiziarlo passo per passo, all'onere dell'imputato, se conscio d'esser tale, di informarsi e attivarsi. Dalla contumacia all'assenza. Tralasciando il resto, tra gli effetti espressamente previsti dalla novella, vi è la soppressione della parola “contumace” dal testo degli articoli 490, 513 e 520 del codice di rito. Poco cambia, rispetto al passato: non esiste più l'accompagnamento dell'imputato contumace, non possono leggersi le dichiarazioni dell'imputato contumace e non possono più farsi, a quest'ultimo, nuove contestazioni. Tutto scontato: il contumace non esiste più. Altrettanto espressa la modifica imposta al testo dell'art. 548c.p.p.: è stato soppresso l'obbligo, che figurava al terzo comma, di notificare all'imputato contumace l'avviso di deposito e l'estratto della sentenza.
Più gravida di effetti, apparentemente gravosi per l'imputato, l'abrogazione del quarto comma dell'art. 603 del codice di rito, che prevedeva la rinnovazione dell'istruttoria a richiesta dell'imputato contumace, il quale ne facesse richiesta provando, al contempo, di non aver avuto conoscenza del decreto di citazione o richiamandosi alla sussistenza di una causa di forza maggiore che lo avesse costretto a non presentarsi. La normativa, vigente a seguito dell'abrogazione in argomento, non prevede un analogo diritto in favore dell'assente, il quale peraltro è tale solo se ha avuto conoscenza della pendenza del procedimento. In caso la sua assenza non gli sia addebitabile, gli rimane la possibilità di chiedere la rescissione del giudicato, nuovo istituto sistemato all'art. 625-ter del codice di rito, che può produrre la revoca della sentenza di condanna, il rinvio degli atti al giudice di primo grado e la remissione in termini. Nel caso l'imputato si presenti in corso di dibattimento di primo grado, invece, dimostrando che la mancata conoscenza non gli è addebitabile, l'imputato otterrà la revoca della dichiarazione di assenza e, soprattutto, una sostanziale remissione in termine (art. 420-bisc.p.p.) anche per la richiesta di prove. Sostanzialmente analogo il rimedio, previsto dall'art. 604 c.p.p. con il nuovo comma 5-bis, a chi è stato ingiustamente giudicato assente e si presenta in corso di giudizio di appello: annullamento della sentenza e invio degli atti al giudice di primo grado. Anche l'art. 605 è stato espressamente modificato, mediante introduzione del nuovo comma 5-bis, a mente del quale l'imputato, ove ingiustamente ritenuto assente e giudicato, ottiene l'annullamento della sentenza, il rinvio degli atti al giudice di primo grado e la remissione in termini. Fin qui le modifiche espresse. La novella non ha tenuto in considerazione che l'obbligo di notifica all'imputato non comparso (letterale: non contumace e non assente) dell'avviso di deposito e dell'estratto di sentenza non riguardava solo il processo in rito ordinario. Essa, infatti, è tutt'ora, almeno formalmente, prevista dall'art. 442, comma 3, c.p.p., nel testo “La sentenza è notificata all'imputato che non sia comparso”. Nonché dall'art. 134 disp. att. c.p.p. “La sentenza emessa nel giudizio abbreviato è notificata per estratto all'imputato non comparso, unitamente all'avviso di deposito della sentenza medesima”. La riforma, semplicemente, non contiene espressa considerazione delle due norme appena richiamate, che non risultano, quindi, espressamente modificate o abrogate. Letteralmente relative al “non comparso”, e non al contumace, esse appaiono da sempre vigenti e hanno causato problemi interpretativi di non poco momento. Sono state, infatti, richiamate negli atti di impugnazione di chi riteneva, e potrebbe ancora ritenere, che una norma è vigente fino a quando non sia espressamente abrogata. E che il non comparso e il contumace siano una sola, identica figura. La questione riguarda, evidentemente, la decorrenza del termine per impugnare: se la notifica dell'estratto di sentenza, con l'avviso di deposito, fosse ancora obbligatoria per legge a garanzia dei diritti dell'imputato non comparso, il termine per impugnare decorrerebbe dalla notifica. In caso contrario, il dies a quo coinciderebbe con la data prevista per il deposito della sentenza. In questo secondo caso, oggi, vigente il regime dell'absentia, chi non ha saputo della prima udienza del processo – pur conoscendo la pendenza del procedimento – e non è comunque comparso all'udienza, subirebbe comunque la tagliola di un termine per impugnare che decorre da un deposito di cui non ha e non avrà notizia. Dovrà dunque sperare che il Difensore decida di informarlo (adempiendo peraltro all'obbligo di lealtà derivante dal mandato difensivo), o che proponga appello comunque tempestivo. Così non è stato nel caso esaminato dalla Suprema Corte, Sez. VI penale, con sentenza 10659 del 20 febbraio 2020 che è l'oggetto principale di questa discussione.
La sentenza della Cassazione penale, Sesta Sezione, n. 10659/2020. Il Tribunale di Avezzano, il 15 febbraio 2017, emise sentenza di condanna di un imputato, dichiarato assente e giudicato secondo le forme del rito abbreviato. Il termine per il deposito della motivazione veniva indicato in novanta giorni. Il termine per impugnare, per conseguenza di legge, era di 45 giorni. Tutto chiaro; tranne la decorrenza di tal termine. Era anche allora, infatti, almeno apparentemente vigente il mai espressamente abrogato art. 442 c.p.p., terzo comma, norma specifica che riguarda la notifica della sentenza, emessa in processo celebrato con rito abbreviato, “all'imputato che non sia comparso”. Come detto, la norma figura ancor oggi nel testo del codice di rito. Altrettanto dicasi per il mai espressamente abrogato art. 134 disp. att. c.p.p., dall'analogo e garantistico contenuto in favore dell'imputato non comparso. Si badi bene che la previsione letterale delle due norme, tra loro fortemente connesse, non può sembrare soggetta a un'abrogazione che, pur non essendo esplicitamente dichiarata, si volesse far discendere dal testo della novella del 2014 e dall'espressa soppressione del termine “contumace”; in esse, infatti, è citato l'imputato non comparso e non il contumace. Ciò ha potuto ingenerare confusioni e, soprattutto, anche nei più avveduti, il convincimento che la mancata, espressa abrogazione fosse il risultato di una precisa scelta di un Legislatore che avesse voluto tutelare un più ampio diritto di impugnazione. Peraltro, sebbene i due concetti siano tutt'altro che coincidenti nel linguaggio doverosamente tecnico-giuridico del codice, anche l'assente può esser considerato come chi non è comparso. Ad ogni buon conto, il Tribunale di Avezzano ha proceduto alla notifica dell'avviso di deposito e dell'estratto di sentenza all'imputato assente, come fosse un non comparso. Con ciò, probabilmente, facendo sorgere più di un dubbio all'imputato e, soprattutto, al Difensore. Quest'ultimo ha proposto impugnazione entro il termine di 45 giorni dalla notifica, che solo oggi sappiamo certamente non dovuta, avvalendosi del disposto dall'art. 585, comma 2, lett. d), c.p.p. La Corte di Appello di L'Aquila ne ha però dichiarato l'inammissibilità, motivando sulla irrilevanza della notifica dell'estratto di sentenza, non dovuta, peraltro, anche per la tempestività del deposito della motivazione entro il termine dichiarato di novanta giorni. Il Difensore ha quindi impugnato avanti la Suprema Corte, eccependo un unico motivo di inosservanza della legge penale e vizio di motivazione: la mai avvenuta abrogazione dell'art. 442, comma 3, c.p.p. e la conseguente tempestività dell'impugnazione in appello, proposto nel termine di 45 giorni dalla notifica dell'estratto all'imputato non comparso. La sesta sezione penale della Corte, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla questione della obbligatorietà della notifica dell'estratto di sentenza all'imputato “non comparso”, inviava gli atti alle Sezioni Unite. Queste, però, restituivano gli atti perchè avevano già deciso identica questione con sentenza n. 698 del 24 ottobre 2019. Il caso esaminato dalle Sezioni Unite
In quel caso, l'imputato propose appello, per tramite del difensore, in netto ritardo sui termini decorrenti dal deposito della sentenza; sostenne, però, che il termine per impugnare non aveva ancora avuto decorrenza perchè non era stato ancora notificato al condannato l'avviso di deposito con l'estratto contumaciale.
Sostenne quindi, con ricorso per Cassazione, che il termine per l'impugnazione non aveva ancora avuto decorrenza e non poteva pertanto esser spirato; così, chiedeva che la dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione ex art. 591 c.p.p. fosse annullata perchè illegittima.
Il ricorso giunse alle Sezioni Unite Penali per contrasto tra precedenti decisioni. Tra le tesi opposte, una prima rilevava che la notifica dell'avviso e dell'estratto, nel caso di tempestivo deposito della sentenza, non sarebbero più dovute all'imputato non comparso, perchè la novella sul processo in absentia e la norma ex art. 420-bisc.p.p., entrambe pacificamente applicabili anche al rito abbreviato, sanciscono che l'imputato è rappresentato dal Difensore, munito di procura speciale. Per conseguenza, gli articoli 442 comma 3 c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p. sarebbero da ritenersi implicitamente abrogati così come, ma espressamente, è stato abrogato l'art. 548,comma 3,c.p.p., che regolava analoga situazione nel rito ordinario.
Tale orientamento era stato espresso nelle sentenze Cass. pen., n.19713 del 18.3.2019; Cass. pen., n.22831 del 22.3.2019; Cass. pen., n. 7100 del 16.1.2019; Cass. pen., n.8011 del 26.10.2018.
La tesi opposta si basava, invece, sulla mancanza di elementi di certezza per i quali si potesse attribuire a una svista – e, quindi, a un mancato coordinamento – quello che ben poteva essere invece l'effetto della precisa volontà del Legislatore di lasciar sopravvivere quell'obbligo di legge; e, ancora, sulla considerazione che far discendere una sanzione, produttiva di effetti deleteri per l'imputato, da un'interpretazione che ritiene tacitamente abrogata una norma di favore, violerebbe i principii del giusto processo – che richiede, per norme penali e processuali penali, interpretazioni restrittive e in favor rei – e quelli dell'interpretazione logica – che ha per presupposto la prevedibilità della norma penale e processual-penalistica.
Quest'ultimo orientamento è rinvenibile in Corte EDU, Grigoriades c/ Grecia, 25.11.1997 e nelle sentenze Cass. pen., n. 29286 del 22.3.2015 e Cass. pen., n. 32505 del 19.1.2018, entrambe della III Sezione.
Le Sezioni Unite fissarono la questione di diritto così come segue: «Se, dopo la riforma del processo in absentia, debba essere notificato all'imputato assente l'estratto di sentenza ai sensi degli artt. 442, comma 3, c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p.».
La decisione ebbe per presupposto la considerazione che il codice di rito non prevedeva, al suo esordio e fino a tutto il 1999, la contumacia nel giudizio abbreviato; per conseguenza, non essendo applicabile il disposto dell'art. 548 comma 3, c.p.p. che fa riferimento esplicito ed esclusivo al solo rito ordinario, la sentenza resa in rito abbreviato non andava notificata all'imputato contumace. Il Legislatore provvide ben presto a eliminare l'incongruità di una normativa tanto ingiustificatamente difforme da quella generale, introducendo la figura del contumace nel giudizio abbreviato e le regole dell'art. 420-bisc.p.p. e 134 disp. att. c.p.p. con la legge 479 del 1999.
Quindi, divenuta legge l'opportunità di trattare in modo uniforme la questione della notifica della sentenza all'imputato contumace, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si uniformò, riconoscendo la funzione di garanzia della normativa complessivamente ormai vigente perchè finalizzata ad agevolare il diritto all'impugnazione e ritenendo, quindi, dovuta la detta notifica persino a esito di processo trattato, in appello e in camera di consiglio, ex art. 599 c.p.p. (SS.UU. n. 1/2000; Tuzzolino).
Successivamente, i ripetuti richiami della Corte EDU circa la violazione dei principii del giusto processo, consistenti nella presunzione non verificata di conoscenza del processo da parte dell'imputato, presupposto della sua contumacia, condussero il Legislatore a tentare un rimedio con la legge 67/2014, che ha abrogato la contumacia e introdotto l'assenza dell'imputato, da dichiararsi solo se possa dirsi provata la sua conoscenza del procedimento.
Da allora, soppressa la contumacia, l'imputato può essere solo presente o assente: è presente anche quando lo è stato durante una sola udienza; è assente quando, certamente a conoscenza quantomeno del procedimento, non è comparso. In tale secondo caso è in tutto rappresentato dal difensore.
Si argomentò, allora, che ciò faceva perdere giustificazione alla notifica della sentenza a chi era stato presente o era stato comunque in tutto rappresentato dal Difensore. E infatti, la stessa legge abrogò la norma contenuta all'art. 548 comma 3 c.p.p., che riguardava però il solo rito ordinario.
Sull'apparente equivalenza della posizione dell'imputato assente in rito ordinario o abbreviato, e considerato che il secondo si celebra solo se vi è una procura speciale che a maggior ragione comprova la conoscenza del processo in capo all'imputato, la Giurisprudenza successiva della Suprema Corte ha ritenuto di superare il principio di diritto espresso con la sentenza Tuzzolino, sopra richiamata. In buona sostanza, si legittimava l'interpretazione che sosteneva avvenuta un'abrogazione tacita per incompatibilità della previgente normativa con quella nuova. Con ciò, però, poteva anche dirsi violato il principio del giusto processo, che mal sopporta una abrogazione tacita, foriera di compromissione di diritti dell'imputato, di norme che gli attribuivano vantaggi.
La sentenza 698/2019 delle Sezioni Unite Penali.
Le Sezioni Unite, invece, pervennero allo stesso risultato di dire non dovuta la notifica della sentenza resa in abbreviato a carico di imputato assente, mostrando però una ben più profonda raffinatezza di ragionamento: l'abrogazione degli artt. 442, comma 3c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p. non fu tacito effetto della l. 67/2014, che ha introdotto la figura dell'assente, bensì effetto di una abrogazione tacita per rinnovazione della materia ad opera della l. 479/2000, che introdusse l'istituto della contumacia anche nel rito abbreviato e, per conseguenza, rese applicabile anche a tal rito l'art. 548, 3° comma c.p.p.
Per effetto della legge richiamata, lo status giuridico dell'imputato era, infatti, divenuto identico, nel giudizio abbreviato come nel rito ordinario; il combinato disposto degli artt. 442 comma 3° c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p., che riguardavano l'imputato “non comparso”, non era più applicabile a chi poteva ormai essere solo presente o contumace.
A far data dall'entrata in vigore della l. 479/2000, dunque, agli imputati giudicati in rito abbreviato e dichiarati contumaci divenne applicabile solo la regola dell'art. 548 comma 3c.p.p. e non più il combinato disposto delle due norme sopra più volte richiamate, tacitamente abrogate in un sistema che non prevedeva più la figura del “non comparso”.
Com'è noto, e come sopra si è sottolineato, la legge 67/2014 ha poi soppresso la contumacia ed espressamente abrogato l'art. 548 comma 3c.p.p., che dunque non è più vigente.
Non è dunque fondato sostenere che la l. 67/2014 abbia abrogato l'art. 442 comma 3 c.p.p. e l'art. 134 disp. att. c.p.p., che in effetti risultano abrogati già dal 2000.
Così come non è corretto sostenere che le due norme, per effetto di una mancata abrogazione espressa da parte della novella del 2014, possano aver avuto una reviviscenza; questa, infatti, non è automatica e si verifica solo se viene abrogata una norma che ne aveva espressamente abrogato un'altra, o se la reviviscenza è espressamente disposta da una legge o, infine, se viene abrogata una norma speciale e, per conseguenza, una norma generale, che da quella era limitata, si riespande.
A conclusione, le Sezioni Unite hanno quindi enunciato il principio di diritto: «A seguito della riforma della disciplina sulla contumacia, l'estratto della sentenza emessa in giudizio abbreviato non deve più essere notificato, ai sensi degli artt. 442 comma 3 c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p., all'imputato assente».
Per conseguenza diretta, deve affermarsi che il termine per l'impugnazione della sentenza resa, in abbreviato, a carico di imputato assente decorre dall'ordinario termine di 15, 30 o 45 giorni dalla lettura del dispositivo; e quindi non da una notifica che non è dovuta e non va disposta.
Sentenza e monito.
La Sesta Sezione penale della Suprema Corte, che come abbiamo visto è stata chiamata a pronunciarsi su questione assolutamente analoga a quella decisa dalle Sezioni Unite, espressamente dichiarando di non vedere motivo per decidere diversamente e, quindi, implicitamente affermando il convincimento di piena fondatezza di quell'arresto, non si è discostata da esso e dal principio di diritto enunciato. Inoltre, ha disconosciuto la possibilità che valesse per il caso in esame il principio, affermato dalla giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui un mutamento imprevedibile di un orientamento consolidato di legittimità, relativo a norme regolatrici del processo, non può produrre effetti giudiziali pregiudizievoli come nullità, decadenze e inammissibilità. Ciò sulla considerazione che una decisione assunta a Sezioni Unite non può costituire mutamento imprevedibile di un orientamento, perchè interviene a decidere un contrasto tra orientamenti diversi, tutti meritevoli di considerazione proprio perchè costitutivi di contrasto. Neppure nel caso sia dichiarato legittimo l'orientamento più restrittivo, da cui derivino compressioni del diritto di parti processuali. Si legge, inoltre, e in ciò il monito sopra annunziato, che sarebbe stato onere dell'imputato, in una situazione di incertezza sui termini per l'impugnazione, aderire all'interpretazione più restrittiva tra quelle che avevano trovato accoglimento nelle sentenze in contrasto, visto anche che, tra le due, non v'era interpretazione dominante ma semplice duplicità di interpretazione, da risolvere – come in effetti è stato – rivolgendosi alle Sezioni Unite. Volessimo celiare su argomenti tanto seri, potremmo forse sostenere che la Corte ha inteso bacchettare quell'imputato, e soprattutto il suo difensore, invitandoli – in uno, però, all'intera classe forense italiana – a scegliere sempre, tra due soluzioni apparentemente accoglibili per via di una giurisprudenza non univoca, quella che appaia come la più restrittiva, quella che impone maggior sacrificio o impegno, quella che concede il minor termine. Perchè, non si sa mai, la giurisprudenza potrebbe cambiare. E, ancora celiando, la classe forense italiana potrebbe rispondere che i Tribunale non dovrebbero, nell'incertezza su quale tra due norme contrastanti possa dirsi vigente, utilizzarle entrambe ed effettuare una notifica non dovuta e irrilevante, che ingenera dubbi e causa errori. In conclusione
Senza più alcuna celia, va detto comunque che l'argomentazione espressa dalle Sezioni Unite Penali con la sentenza più sopra richiamata, è chiara e logica; pur nella sua estrema raffinatezza, fa cadere ogni dubbio interpretativo: le norme di cui agli artt. 442, comma 3,c.p.p. e 134 disp. att. c.p.p. sono state tacitamente abrogate con l'entrata in vigore della norma che ha interamente innovato la materia (art. 15 preleggi), estendendo – appena un anno dopo l'entrata in vigore del “nuovo codice” – al rito abbreviato la figura del contumace.
Da quel momento, la sentenza non andava più notificata al “non comparso”, figura ormai sostituita, ma al “contumace”. Eppure, per anni, nessuno si era accorto di ciò. Neppure la stessa Corte che, nelle sue sezioni semplici, della medesima questione del termine per l'impugnazione, si è occupata in un arco di altri 10 anni. Segno del fatto che il problema non doveva essere, poi, di così semplice risoluzione. Non così semplice, comunque, come la capacità e la cultura giuridica mostrate dalle Sezioni Unite fanno trasparire. In effetti, come da anni si va sostenendo, il “nuovo codice” è venuto alla luce dopo una gestazione sofferta, frutto dell'applicazione di grandi giuristi; ad esso, però, è stata poi appiccicata una serie interminabile e ininterrotta, di riforme e riformine che ne hanno stravolto l'unità e l'uniformità del principio ispiratore.
Riforme, peraltro, che non sembrano più neppure sorrette da principii ispiratori, bensì da spinte politiche, giustificate solo dalla necessità di consenso che si esprime con elaborazione spesso isterica per offrire al pubblico proclami incomprensibili.
In un tal panorama, il monito lanciato dalla sentenza – almeno nella versione giocosa che di esso si è data sopra – sembra assolutamente giustificato: un'interpretazione può sempre cambiare, alla stessa velocità con cui si modificano leggi e principii; o se ne introducono di nuovi, non obbligatoriamente in occasione di fatti eclatanti e suggestivi.
E si tratterà, sempre, di interpretazioni doverose e logiche, direttamente discendenti da modifiche legislative che imporrebbero un coordinamento con quelle esistenti e che invece si limitano a rattoppare un tessuto – quello del codice di rito – sempre più sfilacciato
Per tal motivo, in ragione di un tuziorismo difensivo vieppiù necessario all'imputato, a fronte di una legislazione ingarbugliata, diventa necessario fare di necessità virtù e non forzare interpretazioni che espongano al rischio di una clamorosa compromissione di diritti e facoltà che il difensore deve, soprattutto, tutelare.
Seguire l'interpretazione più restrittiva può significare, in un caso come quello trattato, attivarsi in un termine temporale inferiore a quello più comodo, solo apparentemente legittimo, di cui può sentirsi la necessità; ma protegge l'imputato dalla possibilità che il termine più lungo, pur apparendo fondato e legittimo alla luce di altra interpretazione, determini una inammissibilità e, quindi, un risultato ampiamente negativo.
Nel caso del Tribunale di Avezzano e in tutti i casi analoghi che dovessero ripetersi, seppure l'errore nell'individuazione del termine possa dirsi almeno in parte conseguenza di una notifica non dovuta e perciò erronea da parte dello stesso Tribunale, non sarebbe neppure possibile ricorrere alla remissione in termini, disponendo l'art. 175 c.p.p. che tale rimedio è possibile in casi di caso fortuito o forza maggiore, assenti nell'errore ingenerato dall'Autorità.
Il monito, purtroppo, rischia di rimanere attuale anche in vista della ripresa dell'attività giudiziaria al termine, che ci si augura vicino, dell'emergenza pandemica: ci sarà da valutare le leggi di conversione – e l'auspicabile loro tempestività - dei decreti che si sono accavallati tra loro, le sospensioni di termini, le decadenze, la prescrizione. Anche in quei casi, sarà prudente ritenere vincolanti le disposizioni più restrittive.
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