Effetti del D.L. n. 23/2020 sulla materia concorsuale

Donatella Perna
07 Maggio 2020

A fronte dell'emergenza epidemiologica in atto e del blocco delle attività produttive, è evidente il ruolo cruciale della normativa dedicata alla crisi d'impresa. Al riguardo, una decisa raccomandazione a tutti i legislatori europei è provenuta dal Comitato esecutivo di CERIL (Conference of European Restructuring and Insolvency Law) che lo scorso 20 marzo ha reso pubblico sul proprio sito internet un documento in cui esprime significative preoccupazioni relative all'idoneità (o meno) della normativa europea e di quella dei singoli stati nazionali a fronteggiare la presente situazione di crisi, auspicando quindi l'immediata adozione di provvedimenti volti, in primo luogo, a sospendere obblighi e termini di presentazione delle domande di accesso ad una procedura concorsuale, con relativa irresponsabilità degli imprenditori ed indipendentemente dall'effettiva prova della dipendenza dello stato di crisi dalla situazione straordinaria in atto; in secondo luogo, a far fronte alla crisi di liquidità non solo con interventi diretti (ciò anche in deroga al generale divieto di aiuti di stato ovvero mediante l'acquisto straordinario di titoli effettuato dalla BCE, oltre all'annunciato Pandemic Emergency Purchase Programme per 750 miliardi di euro), ma anche con una moratoria generalizzata delle azioni esecutive contro le imprese insolventi (nella direttiva UE 1023/2019 agli art. 6 e 7 è appunto concessa la possibilità di una sospensione delle azioni esecutive individuali). In questa direzione si sono già mossi diversi legislatori europei, come Svizzera e Spagna. Altri si stanno muovendo come Francia e Regno Unito.
Premessa

A fronte dell'emergenza epidemiologica in atto e del blocco delle attività produttive, è evidente il ruolo cruciale della normativa dedicata alla crisi d'impresa.

Al riguardo, una decisa raccomandazione a tutti i legislatori europei è provenuta dal Comitato esecutivo di CERIL (Conference of European Restructuring and Insolvency Law) che lo scorso 20 marzo ha reso pubblico sul proprio sito internet un documento in cui esprime significative preoccupazioni relative all'idoneità (o meno) della normativa europea e di quella dei singoli stati nazionali a fronteggiare la presente situazione di crisi, auspicando quindi l'immediata adozione di provvedimenti volti, in primo luogo, a sospendere obblighi e termini di presentazione delle domande di accesso ad una procedura concorsuale, con relativa irresponsabilità degli imprenditori ed indipendentemente dall'effettiva prova della dipendenza dello stato di crisi dalla situazione straordinaria in atto; in secondo luogo, a far fronte alla crisi di liquidità non solo con interventi diretti (ciò anche in deroga al generale divieto di aiuti di stato ovvero mediante l'acquisto straordinario di titoli effettuato dalla BCE, oltre all'annunciato Pandemic Emergency Purchase Programme per 750 miliardi di euro), ma anche con una moratoria generalizzata delle azioni esecutive contro le imprese insolventi (nella direttiva UE 1023/2019 agli art. 6 e 7 è appunto concessa la possibilità di una sospensione delle azioni esecutive individuali). In questa direzione si sono già mossi diversi legislatori europei, come Svizzera e Spagna. Altri si stanno muovendo come Francia e Regno Unito.

In considerazione della necessità, quindi, di interventi immediati, il Governo italiano ha usato lo strumento del decreto-legge: il primo, il d.l. 2 marzo 2020, n. 9; il secondo, il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 cd. “Cura Italia”; il terzo, il d.l. 8 aprile 2020, n. 23 cd. “Decreto Liquidità”; il quarto, il D.L. n. 28/2020. Si tratta di disposizioni di carattere transitorio e di natura emergenziale. Alla data odierna, soltanto per il d.l. n. 18/2020 vi è stata la conversione in legge, con modifiche.

Seppur transitorie, tali norme rivestono un ruolo importante nell'attuale situazione del nostro Paese.

Il quadro normativo italiano

Il 9 aprile 2020 è entrato in vigore il d.l. n. 23/2020 (cd. Decreto Liquidità), che introduce una serie di misure temporanee per le imprese, che incidono sia sulla disciplina fallimentare, sia su quella societaria (“Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga dei termini amministrativi e processuali”), rese necessarie dalla progressiva crisi di liquidità conseguente al cd. lockdown di numerose attività imprenditoriali.

Gli articoli dal 5 al 10 del d.l.23/2020 sono dedicati alla materia societaria e concorsuale.

  • L'art. 5 differisce di un anno, al 1° settembre 2021, l'entrata in vigore del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza, emanato con il D. Lgs n. 14 del 12 gennaio 2019.
  • L'art. 6 detta la sospensione, per l'esercizio in corso, dell'obbligo per le società di ricostituire il capitale in caso di perdita (artt. 2446 co. 2 e 3, 2447, 2482-bis, co. 4, 5, 6 e 2482-ter c.c.) e di applicare lo scioglimento dell'ente in caso di sua omissione (artt. 2484, co. 1, n. 4 per le società di capitali e 2545-duodecies c.c. per le società cooperative).
  • L'art. 7 ha sospeso l'obbligo, dettato dall'art. 2423-bis, co. 1, n. 1, c.c., di verificare la sussistenza della continuità aziendale per la redazione del bilancio 2020, consentendo di fatto la valutazione delle poste secondo il principio del “going concern” anche in difetto dei requisiti per la sua esistenza.
  • L'art. 8 permette ai soci di recuperare i finanziamenti effettuati in società senza l'obbligo di rispettare il principio di postergazione rispetto agli altri creditori, disattivando i vincoli derivanti dagli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c..
  • L'art. 9 detta agevolazioni a favore degli imprenditori sottoposti a procedura di concordato o di omologa dell'accordo di ristrutturazione a cui riconosce la facoltà di chiedere una proroga del termine sino a 90 gg. per riformulare un piano e una proposta od ottenere un differimento del temine ex art. 161, co. 6, l.fall. anche in pendenza di domande di fallimento, ovvero, se già omologati, per posticipare sino a 6 mesi i termini di pagamenti programmati.
  • L'art. 10, infine, dispone l'improcedibilità delle domande di fallimento depositate tra il 9 marzo 2020 e il 30 giugno 2020, salvo che per quelle avanzate dal P.M. corredate da istanze cautelari o conservative ex art. 15 l.fall.

Inoltre, è stata prevista la sospensione dei termini di scadenza dei titoli di credito nel periodo dal 9 marzo 2020 al 30 aprile 2020 (art. 11); la proroga della sospensione dei termini processuali in materia di giustizia civile, penale, amministrativa, contabile, tributaria e militare (art. 36); la proroga dei termini dei procedimenti amministrativi e dell'efficacia degli atti amministrativi in scadenza (art. 37).

Il Rinvio del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza (CCII)

Il provvedimento di rinvio del CCII è giustificato, nella Relazione illustrativa al Decreto, con i seguenti cinque argomenti: 1) la necessità di differire l'introduzione delle misure d'allerta i cui indicatori non potrebbero svolgere alcun concreto ruolo selettivo in questo momento di crisi globale; 2) l'entrata in vigore della legge, il cui scopo principale di allargare il più possibile il salvataggio delle imprese stimolandole a condotte virtuose, rischia di essere frustrato dalla situazione di crisi globalizzata nella quale attualmente si dibattono; 3) la scarsa compatibilità tra lo strumento giuridico nuovo e la situazione di grave sofferenza economica, in relazione alla quale esigenze di certezza del diritto e di difficoltà interpretative e procedurali suggeriscono di ripristinare per l'operatore un sistema normativo conosciuto che eviti, in aggiunta alla grave crisi, di accrescere lo stato di incertezza che si potrebbe manifestare durante la fase di implementazione dei nuovi istituti, scongiurando altresì un ulteriore inutile shock – difficilmente gestibile – che finirebbe per travolgere anche gli uffici giudiziari e gli operatori del settore già impegnati sul fronte dell'emergenza; 4) la necessità di evitare di far cadere l'entrata in vigore della legge in pieno periodo feriale, differendolo, con l'occasione del rinvio, ad epoca successiva ad esso; 5) l'opportunità di coordinare l'entrata in vigore della legge con l'applicazione della Direttiva UE 1023/2019 sui quadri di ristrutturazione preventiva delle imprese, il cui termine di recepimento nei paesi membri scade il 17 luglio 2021; essa ha l'obiettivo di rafforzare in Europa la cultura del recupero dell'impresa in crisi e quindi la “prevenzione”, agevolando la ristrutturazione delle imprese in difficoltà finanziaria e introduce l'obbligo per gli Stati membri di assicurare un regime diretto a facilitare la ristrutturazione preventiva dell'impresa ove vi sia probabilità d'insolvenza (insolvency likelihood).

Orbene, la ratio del Codice della Crisi risiede nell'introduzione dell'obbligo di una diagnosi anticipata della crisi, quale strumento per curare in modo più efficace l'impresa prima che la malattia renda “incurabile” il paziente. In particolare, la novità più significativa è rappresentata dal sistema delle c.d. misure di allerta: un articolato impianto normativo volto ad avviare un percorso virtuoso di risanamento, ma concepito avendo a mente un quadro economico “regolare” e nel quale la gestione della crisi concerne un numero di imprese ridotto rispetto al tessuto produttivo ed economico nel suo complesso.

Viceversa, laddove la crisi sia generalizzata, gli indicatori previsti dal Codice della Crisi, che risultano legati a squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario rapportati alle specifiche caratteristiche dell'impresa e dell'attività svolta e rilevabili attraverso appositi indici, non possono svolgere alcun concreto ruolo selettivo, venendo in radice meno il loro scopo.

D'altro canto, il differimento dell'introduzione della procedura dell'allerta era già stato stabilito, in un primo momento, limitatamente alle c.d. “nano imprese” (quelle sotto le soglie dell'art. 2477 c.c. nuovo conio), attraverso l'art. 41 del c.d. “Correttivo” in discussione alle camere e poi esteso a tutti i soggetti attraverso l'art. 11 del D.L. 9/2020.

Il che peraltro ha indotto alcuni a ritenere che la possibilità di spacchettare il Codice della Crisi, procrastinando l'istituto più detonante dell'allerta, potesse evitare il rinvio in blocco dell'intera riforma, che avrebbe favorito anziché danneggiato l'assorbimento della crisi economica.

Tuttavia, di là dalla bontà della scelta di fondo, la volontà del legislatore di rinviare l'entrata in vigore della riforma segna la presa d'atto che il sistema non è pronto a gestire un'innovazione di tale portata, oggettivamente foriera di effetti incerti.

La messa in quarantena delle norme sulle perdite del capitale e sullo scioglimento delle società


Sotto il profilo societario, l'art. 6 del Decreto Liquidità prevede che «a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto (9 aprile 2020) e fino alla data del 31 dicembre 2020 per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro la predetta data non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482 bis, commi quarto, quinto e sesto, e 2482 ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545 duodecies del codice civile».

Quindi, le società di capitali (s.p.a., s.r.l. e s.a.p.a., escluse le società di persone di qualunque tipo, posto che per esse lo scioglimento per perdite più o meno rilevanti del capitale non è formalmente previsto come causa autonoma, rappresentando soltanto uno degli eventi che ne possono determinare lo scioglimento ai sensi dell'art. 2272 n. 2 c.c. atteso che, in mancanza di un capitale adeguato, viene meno di conseguenza la possibilità di conseguire l'oggetto sociale) e le società cooperative, le quali abbiano subito perdite tali da ridurre il capitale sociale in misura superiore al terzo o da determinarne la perdita, sono provvisoriamente esonerate dall'obbligo di ricapitalizzarsi o di trasformarsi in altro tipo, appunto differito a data successiva al 31 dicembre 2020.

Per lo stesso periodo, non opera conseguentemente la causa di scioglimento prevista dall'art. 2484, co. 1, n. 4, c.c. e dall'art. 2545 duodecies c.c. per le società cooperative* in caso di perdita del capitale sociale, non essendo ipotizzabile uno scioglimento della società per la mancata adozione delle deliberazioni salvifiche previste dall'art. 2447 c.c. (e dall'art. 2482 ter c.c. per le s.r.l.) in presenza di una norma di legge che ha disattivato l'obbligo di adottare quelle misure.

*In evidenza

A mente dell'art. 2545-duodecies c.c., la società cooperativa si scioglie al verificarsi di una delle stesse cause indicate per le società di capitali dai nn. 1), 2), 3), 5), 6) e 7) dell'art. 2484 c.c., ad eccezione di quella per riduzione del capitale al disotto del minimo legale sub n. 4. La parziale deroga all'art. 2484 è giustificata, secondo la prevalente dottrina, dal fatto che, non essendo previsto per le cooperative, caratterizzate dalla variabilità del capitale, un importo minimo del capitale medesimo, non può essere per loro utilizzabile il meccanismo di ricapitalizzazione apprestato per le società di capitali nel caso di perdite che riducano il capitale al disotto del minimo legale, di cui agli artt. 2446 e 2447 c.c. Tanto è vero - si aggiunge - che il legislatore, in deroga al n. 4 del l'art. 2484 c.c., ha ricollegato lo scioglimento delle cooperative alla sola ipotesi, per esse tipica, di perdite o altri eventi che azzerino il capitale sociale e non a quella di perdite che incidano sullo stesso solo parzialmente. Comunque, la causa di scioglimento per la perdita del capitale può essere rimossa mediante ulteriori versamenti dei soci o di terzi con un procedimento di variazione del capitale tipico delle società cooperative, senza bisogno di una delibera assembleare straordinaria, ma tuttavia reso inoperativo dal 9 aprile 2020 fino al 31 dicembre 2020.

In altri termini, a fronte di uno scenario di crisi generalizzata, mentre avrebbe poco senso esigere l'attivazione dei meccanismi di allerta di cui al D. Lgs. 14/2019 come anche della regola codicistica “trasforma, ricapitalizza o liquida”, l'obiettivo della sospensione è appunto quello di inertizzare i doveri di ricapitalizzazione, in uno scenario in cui l'applicazione rigida della disciplina sul capitale sociale potrebbe condurre migliaia di imprese all'obbligo di accertare una causa di scioglimento, con il rischio di una progressiva desertificazione industriale, anche perché gli effetti di questa crisi devastante non paiono destinati ad esaurirsi con la fine dell'emergenza epidemiologica.

Ciò è quanto si evince dalla Relazione illustrativa al Decreto, secondo la quale la sterilizzazione delle norme in tema di perdita o riduzione del capitale sociale è finalizzata appunto a evitare che una simile situazione, dovuta “alla crisi da COVID-19 e verificatasi nel corso degli esercizi chiusi al 31 dicembre 2020, ponga gli amministratori di un numero elevatissimo di imprese nell'alternativa - palesemente abnorme - tra l'immediata messa in liquidazione, con perdita della prospettiva di continuità per imprese anche performanti, ed il rischio di esporsi alla responsabilità per gestione non conservativa ai sensi dell'articolo 2486 del codice civile”.

Nonostante la “curiosa dimenticanza”, non sembra che l'art. 2486 c.c. rimanga estraneo alla sospensione voluta dal legislatore e che gli amministratori debbano continuare a rispondere per l'attività gestoria non conservativa successiva al verificarsi della causa di scioglimento per riduzione del capitale sociale per perdite, atteso che la temporanea neutralizzazione delle su richiamate disposizioni, come alternativa all'obbligatoria ricostituzione del capitale, comporta implicitamente una altrettanto momentanea disattivazione della disciplina che pone in capo agli amministratori il dovere di gestire la società conservando l'integrità ed il valore del patrimonio sociale (art. 2486 c.c.).

Ciò non significa peraltro che l'organo amministrativo possa continuare a gestire imperterrito la società secondo le modalità ordinarie, dimentico del fatto che una perdita rilevante si è comunque verificata. Sebbene “congelata” sul piano effettuale, la causa di scioglimento connessa alla perdita maturata non può essere “cancellata”, per cui si ritiene che persista un obbligo di diligenza degli amministratori che, come noto, si traduce in particolare nella cura di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati, dovendosi attivare senza indugio per l'adozione di misure idonee a salvaguardare non solo l'interesse primario dei soci alla conservazione dei valori attivi del patrimonio sociale, ma anche l'aspettativa dei creditori sociali a vedere integralmente soddisfatte le loro pretese (artt. 2394 e 2403 c.c.), mentre ciò che non trova applicazione è, per contro, la relativa disciplina in tema di riduzione del capitale sociale per perdite, che, terminato al 31 dicembre 2020 il “periodo di grazia”, sarà presumibilmente di nuovo operativa.

Pur trattandosi di uno strumento già applicato in passato (per la liquidazione del gruppo Efim e per il risanamento del Banco di Napoli, le regole sulla ricapitalizzazione furono sospese fino al 31/12/1996; e, più di recente, in materia di start up innovative l'art. 26 d.l. 179/2012 le ha posticipate di un esercizio sociale), anche l'art. 182 sexies, primo comma, l. fall. (introdotto dal d.l. 83/2012, cd. “decreto sviluppo”), prevede, infatti, la temporanea inapplicabilità delle medesime norme disciplinanti la riduzione del capitale sociale per perdite ed il conseguente verificarsi di una causa di scioglimento, a partire dalla data di presentazione dell'istanza di omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti (oppure della proposta di accordo) ovvero della domanda di concordato preventivo, anche “in bianco”, e sino alla relativa omologazione.
Ma l'ambito di applicazione della nuova norma è molto più ampio giacché la misura di cui al Decreto Liquidità – seppur temporaneamente - si applica indipendentemente dal contestuale ricorso al concordato preventivo o all'accordo di ristrutturazione dei debiti; essa opera ex lege e in modo automatico, senza che sia prevista alcuna forma di controllo al riguardo, come ad es. l'attestazione da parte di un professionista indipendente iscritto all'albo dei revisori.

Lo strumento, come visto, neutralizza soprattutto i doveri di ricapitalizzazione, ma restano fermi, è opportuno sottolinearlo, gli obblighi previsti dagli artt. 2446, primo comma, 2482 bis, primo, secondo e terzo comma, c.c. In altri termini, resta ferma la necessità di una dialettica soci-amministratori sulle modalità per fronteggiare la crisi e recuperare le perdite, per cui gli amministratori al verificarsi di una perdita rilevante sono tenuti a predisporre un bilancio straordinario e a sottoporlo all'assemblea dei soci. Sembrerebbe anche di dover ritenere, alla luce della tesi dominante in relazione all'interpretazione dell'art. 182 sexies, che tale obbligo di informare l'assemblea permanga anche nelle ipotesi di perdite rilevanti contemplate dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c. Si osserva, poi, che il collegio sindacale, laddove presente, sarà - a sua volta - chiamato a svolgere le proprie funzioni di vigilanza. I soci hanno, infatti, il diritto di essere informati sulla situazione patrimoniale della società, anche se gli obblighi di ricapitalizzazione sono sospesi.

L'assemblea convocata “senza indugio”* dagli amministratori sarebbe tenuta ad adottare gli “opportuni provvedimenti”, ma,considerata l'eccezionale disapplicazione delle norme disposta dall'art. 6 del Decreto, i soci non saranno peraltro tenuti ad adottare alcun provvedimento sul capitale, potendo limitarsi a prendere atto della maturazione della perdita, e discutere l'approntamento di un programma di risanamento o di nuovi piani di politica industriale e finanziaria.
Dal punto di vista del lasso temporale, il periodo di “grazia” rilevante pare dover essere collocato fra il 9 aprile 2020 ed il 31 dicembre 2020, senza possibilità di anticiparne la decorrenza al 1° gennaio 2020, anche perché la norma assegna il medesimo dies a quo del 9 aprile 2020 sia al periodo in cui sono disattivate le norme societarie che all'ambito temporale in cui devono intervenire le fattispecie rilevanti ai fini della disattivazione.

*In evidenza

Per quel che riguarda i termini, l'art. 106 del d.l. 18/2020 (cd. “Cura Italia”) ha generalizzato la possibilità di estendere fino a 180 giorni dalla chiusura dell'esercizio il termine per la convocazione dell'assemblea annuale di approvazione del bilancio. Tale possibilità, secondo quanto stabilito dagli artt. 2364, comma 2 e 2478-bis c.c., è normalmente consentita solamente se prevista nello statuto e in ogni caso limitatamente alle società obbligate a redigere il bilancio consolidato ovvero a quelle che abbiano particolari esigenze relative alla struttura e all'oggetto delle società, fermo restando l'obbligo per gli amministratori di indicare nella relazione sulla gestione le ragioni della dilazione. La dilazione, senza condizioni, ammessa dall'art. 106, del decreto Cura Italia non è da intendersi obbligatoria: le società infatti rimangono libere di usufruirne o meno, salva la necessità di darne atto nella relazione sulla gestione pur senza motivarne le ragioni, dal momento che essa è per legge dovuta alla emergenza sanitaria nazionale.

Sul piano delle modalità di svolgimento delle assemblee, allo scopo di evitare assembramenti, l'art. 106, stabilisce regole applicabili in via emergenziale fino al 31 luglio 2020 e che sono differenziate a seconda che si tratti di società di diritto comune oppure di società quotate, con strumenti finanziari diffusi fra il pubblico o con titoli negoziati su un sistema multilaterale di negoziazione. Inoltre, il medesimo articolo detta regole specifiche per le banche popolari, le banche di credito cooperativo, le società cooperative e le mutue assicuratrici e, infine, per le società a controllo pubblico.

A tale ultimo proposito, si deve trattare di perdite che abbiano integralmente assorbito il patrimonio netto contabile (riserve – facoltative, statutarie e legali – capitale sociale e, si ritiene prevalentemente, anche eventuali utili di periodo), che “risultino” (art. 2446 co. 1 e 2482 bis co.1) positivamente accertate dall'organo amministrativo di riferimento, nonché dovute alla crisi da Covid 19 (si legge nella Relazione), non potendo beneficiare dell'esenzione in parola anche imprese che evidenzino deficit patrimoniali causalmente riconducibili a fattori differenti.

Ma questo apre uno scenario d'incertezza applicativa sul piano della determinazione del danno imputabile agli amministratori poiché i giudici saranno chiamati a cimentarsi nel non agevole compito di stabilire la genesi della crisi o ancora se non tenere conto della sola porzione di danno prodottasi durante il “periodo di grazia” (occorrerà peraltro individuarla) o se considerarlo come

la conseguenza di un inadempimento ai doveri conservativi, che avrebbero già dovuto portare alla liquidazione.

Si osserva inoltre che se pure è apprezzabile lo scopo di sostenere le imprese nella drammatica situazione attuale, è anche vero che lo strumento della sterilizzazione, quanto meno nella parte in cui si riferisce agli artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, commi 4, 5, 6, appare non apprezzabile, poiché tali disposizioni non fanno scattare la regola “ricapitalizza o liquida”, ma impongono soltanto l'adeguamento della cifra nominale del capitale sociale a quella effettiva, senza che i soci siano pertanto tenuti ad immettere nuove risorse.

A ciò si deve aggiungere che la disapplicazione delle regole sul capitale si presta ad utilizzi abusivi, laddove gli amministratori – complice l'ignavia dell'organo di controllo – riconducano artificiosamente la genesi di perdite pregresse alla pandemia Covid, o indugino nell'accertarne la presenza, al fine di farle rientrare “ad arte” nel periodo di moratoria previsto dal legislatore.

Ma soprattutto essa appare una sorta di bandiera bianca alzata sul fronte degli aiuti dello Stato alle aziende; la stessa Relazione afferma che nonostante le massicce misure finanziarie in corso di adozione, si palesa una prospettiva di notevole difficoltà nel reperire i mezzi per un adeguato rifinanziamento delle imprese, per cui il fine salvifico che si propone è realizzato per lo più attraverso il ribaltamento delle criticità in capo ai fornitori e sostenitori finanziari dell'impresa i quali dovranno attraversare il “buco nero” dell'esercizio 2020 chiudendo gli occhi ed incrociando le dita.

Infatti, ove la società si trovasse con patrimonio netto negativo, il sostegno finanziario sarebbe ribaltato sulle spalle dei creditori, i quali tuttavia non hanno la possibilità di sapere se il debitore ha esaurito gli strumenti finanziari per onorare i propri obblighi, in quanto la perdita del capitale non obbliga più l'amministratore ad orientare l'operato della società verso condotte conservative nel rispetto prioritario dei creditori, i quali saranno (salvo i casi più eclatanti) anche privati dell'azione di responsabilità verso l'amministratore.

Insomma lo strumento pare un grido di: “si salvi chi può” senza prospettive strategiche alle spalle, rispondente alla logica di rimandare semplicemente il problema senza rimediare, anzi danneggiando i creditori sociali, atteso che “i veri rimedi per favorire il superamento delle attuali difficoltà del nostro mondo produttivo, fatto soprattutto di piccole e medie imprese che la pandemia potrebbe distruggere, bisogna cercarli altrove: sul terreno dell'intervento finanziario dello Stato” (così, Rordorf, Il codice della crisi).

Basti osservare, in proposito, che i recenti provvedimenti adottati dal Governo sembrano eludere una delle questioni invece fondamentali per le imprese in difficoltà (ma anche per le banche): quella dei tempi e delle modalità di valutazione, da parte degli istituti bancari, del merito creditizio delle imprese, atteso che, trascorso il periodo di calma voluto d.l. 18/2020 cd. Cura Italia fino al 30 settembre 2020, in cui l'ottenimento del beneficio della sospensione delle rate deve avvenire “senza valutazione” della situazione economico-finanziaria dei debitori e senza un automatico cambiamento di classificazione per qualità creditizia delle esposizioni coinvolte*, essendo perciò previsto che sia il Fondo di Garanzia per le PMI a coprire parte delle esposizioni interessate (33%); è tuttavia ipotizzabile che dal 1°ottobre 2020, se non vi saranno proroghe al riguardo, si riverseranno i connessi problemi di capacità prospettica delle imprese beneficiarie di detta moratoria di rimborsare i finanziamenti agevolati, essendo verosimile che non li abbiano onorati, e, comunque, della disponibilità delle banche a rinnovarli alla scadenza delle garanzie, considerate anche le ripercussioni sui ratios patrimoniali delle stesse in relazione ai crediti deteriorati che s'incorporano, solo in parte assistiti dalle garanzie pubbliche.

*In evidenza
Non a caso, qualche giorno fa la Banca d'Italia con comunicato stampa del 18/04/2020 ha avvertito il bisogno di precisare, anziché – come di consueto – con una circolare, che gli intermediari non dovranno segnalare gli sconfinamenti su finanziamenti accordati a imprese beneficiarie: (i) delle misure di cui all'art. 56, co. 2, lett. a) e b) del Decreto “Cura Italia”, che prevedono la loro irrevocabilità in tutto o in parte fino al 30 settembre 2020; (ii) della misura di cui all'art. 56, co. 2, lett c), riguardante la sospensione del pagamento delle rate di mutui e di altri finanziamenti a rimborso rateale, sempre sino al settembre 2020. Inoltre, chi ha beneficiato della sospensione del rimborso del finanziamento – è stato ribadito – non potrà essere classificato a sofferenza dal momento in cui il beneficio è stato accordato, salvo che non fosse già segnalato a sofferenza.

È chiaro che in una situazione emergenziale come questa sia inevitabile pensare a forme di massiccio intervento pubblico: dai trasferimenti diretti alle imprese alla creazione di uno strumento finanziario speciale con cui lo Stato acquisti dalle banche i crediti relativi ai prestiti garantiti (cfr. Rinaldi, Debito eccessivo, terapia cercasi, in Il Sole 24 Ore del 17 aprile 2020, il quale propone la conversione dei finanziamenti che risulteranno non rimborsabili in strumenti finanziari partecipativi, che “potranno successivamente essere ceduti a Spv (società veicolo) specializzate, partecipate dallo Stato, che destinino ad investitori professionali le notes corrispondenti”. E in sede Banca d'Italia e Assonime si stanno conducendo riflessioni di analogo tenore).

I principi di redazione del bilancio

Come è noto, l'art. 2423 bis, comma 1, n.1, c.c. prevede che, all'atto della redazione del bilancio, la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell'attività.

L'art. 7 del d.l. 23/2020 consente a quelle società che già operavano nella prospettiva della continuità aziendale, di conservare lo stesso criterio di redazione del bilancio 2020 anche se gli indici di continuità dovessero essere assenti, a patto che, come detto, il going concern fosse sussistente nell'esercizio precedente e, ovviamente, in mancanza di elementi di segno contrario, da valutare secondo il prudente apprezzamento del giudice.

Quindi, laddove l'emergenza Covid-19, con l'interruzione o la riduzione dell'attività produttiva, abbia messo in dubbio il going concern, costringendo la società a valutare le poste patrimoniali in un'ottica di prevedibile liquidazione anziché di funzionamento, l'art. 7 inertizza il principio di continuità applicando, attraverso una fictio iuris, un giudizio di continuità sui generis, relativo all'anno precedente.

La norma prevede, in ogni caso, che delle ragioni di applicazione del criterio di continuità aziendale anche in difetto dei suoi presupposti si dia atto nella relazione informativa allegata al bilancio, il che consentirebbe quantomeno la giusta informazione ai creditori al fine di valutare se continuare a concedere credito o servire l'impresa.

Quindi, laddove l'art. 6 del d.l. n. 23/2020, viceversa, ha preferito sterilizzare, dal 9 aprile (data di entrata in vigore del decreto) e fino al 31 dicembre 2020 le norme sulla ricapitalizzazione, l'art. 7 opera una finzione di ultrattività della continuità aziendale (per i bilanci chiusi al 23 febbraio 2020 ossia per quelli che nella generalità dei casi coincidono con l'anno solare (dunque, i bilanci al 31 dicembre 2019), si osserva che laddove gli stessi siano già “passati” in consiglio di amministrazione, ma non ancora approvati dall'assemblea dei soci, gli amministratori – qualora intendano avvalersi della norma in commento - debbono sospendere la convocazione dell'assemblea e "richiamare” i bilanci al fine di dar conto, ai sensi dell'art. 2427, comma 1, numero 22 quater, c.c., nella nota integrativa dei fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell'esercizio», specificando che, a seguito dell'emergenza Covid-19, per la prospettiva di continuità si fa riferimento alla valutazione del bilancio al 31 dicembre 2018. L'assemblea potrà poi essere convocata, nei termini “allungati” concessi dall'art. 106 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, per l'approvazione dei rendiconti e bilanci relativi all'esercizio 2019).

Si legge nella Relazione che «si rende necessario neutralizzare gli effetti devianti dell'attuale crisi economica conservando ai bilanci una concreta e corretta valenza informativa anche nei confronti dei terzi, consentendo alle imprese che prima della crisi presentavano una regolare prospettiva di continuità di conservare tale prospettiva nella redazione dei bilanci degli esercizi in corso nel 2020, ed escludendo, quindi, le imprese che, indipendentemente dalla crisi COVID-19, si trovavano autonomamente in stato di perdita di continuità».

*In evidenza

Inoltre, l' art. 1, lett. i) del d.l. 23/2020 ha introdotto limiti alla distribuzione dei dividendi e all'acquisto di azioni proprie, ove prevede che «l'impresa che beneficia della garanzia [concessa dalla SACE s.p.a.] assume l'impegno che essa, nonché ogni altra impresa che faccia parte del medesimo gruppo cui la prima appartiene, non approvi la distribuzione di dividendi o il riacquisto di azioni nei dodici mesi successivi all'erogazione del finanziamento». Al riguardo occorre precisare che la mancata distribuzione dei dividendi non rappresenta un presupposto per ottenere un finanziamento garantito da SACE s.p.a., ma un onere successivo all'erogazione dello stesso, della durata di dodici mesi. In tale prospettiva, esso è suscettibile di operare sia con riferimento agli utili del 2019, sia a quelli del 2020, perché viene a dipendere dai tempi di erogazione del finanziamento. Così com'è formulata la disposizione, il limite è posto in capo ai soci, i quali, nel momento dell'approvazione del bilancio, se la società ha già ottenuto un finanziamento garantito da SACE s.p.a., non possono approvare anche la distribuzione degli eventuali utili. Come è agevole intuire, scopo della norma è quello di evitare che i soci sottraggano alla società liquidità quando essa (come dimostrano la richiesta e l'ottenimento del finanziamento) ne ha bisogno ai fini della gestione.

Una diversa portata ha invece la raccomandazione di non dare corso a distribuzioni di dividendi, ivi inclusa la distribuzione di riserve, per gli esercizi finanziari 2019 e 2020 almeno fino al 1° ottobre 2020, indirizzata dalla BCE alle banche soggette alla sua vigilanza il 27 marzo 2020 e fatta propria dalla Banca d'Italia nella medesima data. Per le società in questione dunque il limite (ovvero la raccomandazione) deve intendersi indirizzata agli amministratori, rimanendo liberi i soci di deliberare la distribuzione dei dividendi. Salvo che al loro pagamento, gli amministratori non potranno dare corso almeno fino al 1° ottobre 2020.

Tuttavia, fingere che non ci siano perdite e che persista una prospettiva (di continuità) probabilmente compromessa (si spera, non irrimediabilmente) non è propriamente offrire una fedele rappresentazione della realtà. Ciò potrebbe indurre gli amministratori a nascondere, tramite artifici contabili, la perdita del capitale sociale.

Resta il fatto che, mentre è ben possibile che sussista la continuità aziendale nonostante la perdita del capitale sociale, non appare altrettanto facile capire come si possa continuare l'attività in assenza di concrete prospettive di recupero del going concern.

Ancora una volta, va da sé che la soluzione ai gravi problemi che dovranno affrontare le imprese nei prossimi mesi (e forse anni) non risieda tanto nell'introduzione della continuità aziendale, quanto piuttosto, come sopra detto, nel metterle concretamente in condizione di recuperare l'equilibrio economico-finanziario perduto.

I finanziamenti alle società

L'art. 8 del D.L. 23/2020 permette la restituzione dei finanziamenti ai soci senza i vincoli derivanti dagli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c, se effettuati in una finestra temporale che va dall'entrata in vigore del decreto liquidità (9 aprile 2020) alla fine dell'esercizio sociale in corso

(31 dicembre 2020); ciò per evitare la difformità dei criteri di valutazione delle poste di bilancio dettata dagli effetti dell'epidemia di Covid 19.

Quindi, viene riservato un trattamento di favore ai prestiti dei soci, che si presumono anomali in quanto contratti in una fase di grave crisi economica, mediante la temporanea neutralizzazione del regime previsto dal primo comma dell'art. 2467 c.c..

L'art. 2467 c.c. è un caposaldo dell'equilibrio societario ed imprenditoriale, in quanto prevede che il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società c.d. “anomali” è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società deve essere restituito*. La stessa norma viene richiamata dall'art. 2497 quinquies c.c. con riguardo ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti.

*In evidenza
L'art. 383, primo comma, del Codice della Crisi, ha soppresso nell'ambito del primo comma dell'art. 2467 c.c. le parole «e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito», contestualmente, la regola concorsuale viene trasferita nel Codice della Crisi e precisamente nell'art. 164 Codice della Crisi, sotto la rubrica «Pagamenti di crediti non scaduti e postergati», ove al secondo comma ricompare il tema del rimborso dei finanziamenti e viene sancita l'inefficacia dei rimborsi dei finanziamenti dei soci a favore della società se eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda a cui è seguita l'apertura della procedura concorsuale ovvero nell'anno anteriore. L'art. 2497 quinquies c.c. resta invariato, ma necessita di essere letta insieme al terzo comma dell'art. 164 Codice della Crisi, che dispone l'applicazione della regola dell'inefficacia dei rimborsi, di cui al secondo comma del medesimo articolo, anche con riguardo ai finanziamenti effettuati a favore della società assoggettata alla liquidazione da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti.

La ratio delle due disposizioni è quella di sanzionare il diffuso fenomeno della c.d. sottocapitalizzazione nominale, ovvero di quelle situazioni in cui la società dispone di mezzi per l'esercizio dell'impresa, ma questi sono in minima parte imputabili a capitale, poiché risultano per lo più concessi sotto forma di finanziamento: si tratta, chiaramente, di regole disincentivanti il reperimento di risorse fra i soci e, in vista della salvaguardia dei complessi produttivi, sono state momentaneamente “congelate”.

Alla luce della disattivazione delle predette norme, quindi, i finanziamenti effettuati nel periodo individuato dal Decreto non saranno postergati nel rimborso e, laddove seguisse il fallimento nell'anno successivo al rimborso, non dovranno essere restituiti (d'altro canto, se sarà entrato in vigore il Codice della Crisi, si applicherà l'art. 164 del Codice e quindi non potranno essere dichiarati inefficaci)*.

*In evidenza
Come noto, un regime privilegiato per i finanziamenti dei soci laddove erogati in funzione di salvataggio dell'impresa viene già impiegato nell'ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione: per i crediti derivanti da tali operazioni, l'art. 182 quater l. fall., il cui contenuto viene riproposto nell'art. 102 del Codice della Crisi, prevede, in deroga agli artt. 2467 e 2497 quinquies c.c., il beneficio della prededuzione (fino all'80% del loro ammontare ovvero sino al 100%, qualora il finanziatore abbia acquisito la qualità di socio in esecuzione delle procedure), beneficio che risulta giustificato nell'ottica di agevolare la prosecuzione dell'attività per superare la crisi.

Si sarebbe però potuto se non altro anticipare l'operatività del principio, sancito espressamente dal Codice della crisi, della stabilizzazione della prededuzione del credito da finanziamento, anche in caso di successivo fallimento, nel comune e convergente interesse delle imprese finanziate e degli istituti di credito.

Ovviamente, l'imprenditore potrebbe essere consapevole che i finanziamenti o gli aiuti comunque eseguiti a favore dell'impresa sono posposti nel rimborso ai crediti di ogni altro creditore ed essere tentato, conoscendo, a differenza dei suoi creditori, la situazione finanziaria della società e il generale andamento della gestione, di rientrare dei finanziamenti prima dei crediti dei suoi creditori, privandoli in questo modo della possibilità di soddisfare il loro credito.
Per cui, se, a prima vista, la disattivazione dell'obbligo di postergazione può rappresentare un utile strumento preventivo per agevolare il recupero di mezzi finanziari, incentivando lo sviluppo di flussi finanziari endogeni idonei ad assicurare un opportuno rifinanziamento delle imprese anche tramite prestiti e favorendo, quindi, il coinvolgimento dei soci nei confronti della società, tuttavia ancora una volta non può sottacersi come la norma in questione appaia esprimere il riconoscimento dell'impotenza dello Stato al sostegno dell'economia, per la quale si stimola l'imprenditore ad autofinanziarsi, autorizzandolo però a dribblare le regole a favore dell'ordine dei pagamenti.

I concordati preventivi e gli accordi di ristrutturazione

L'art. 9 del D.L. 23/2020 prevede differimenti di 3 mesi per la riformulazione di un piano e di una proposta di un concordato preventivo e di un accordo di ristrutturazione o differimenti di 6 mesi nelle scadenze di un piano già omologato; l'obiettivo è quello di scongiurare che le procedure caratterizzate, prima dello scoppio della pandemia, da concrete prospettive di successo risultino condannate al fallimento a causa del quadro di riferimento drasticamente mutato.

In questo alveo si colloca, anzitutto, la proroga di sei mesi dei termini di adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione omologati, aventi scadenza nel periodo tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021, sancita dal primo comma dell'art. 9.

La norma, parlando di “adempimento”, è chiaramente diretta a disciplinare i casi in cui è già stato emanato il decreto di omologa e riguarda quindi la fase esecutiva del concordato o dell'accordo, rispetto alla quale essa ha sicuramente l'effetto di ridurre i rischi di risoluzione dell'uno e dell'altro.

Si tratta, com'è evidente, di una proroga ex lege, che come tale non abbisogna di alcuna iniziativa del debitore.

Il secondo comma attiene ai procedimenti di omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione pendenti alla data del 23 febbraio 2020, relativamente ai quali si facoltizza il debitore a presentare sino all'udienza fissata per l'omologa (quindi anche prima di essa), istanza al tribunale per la concessione di un termine non superiore a novanta giorni per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato, ovvero di un nuovo accordo di ristrutturazione.

Il presupposto della norma è che l'emergenza epidemiologica abbia reso non più attuali le previsioni contenute nei piani posti alla base delle domande di concordato e di omologazione dell'accordo di ristrutturazione, con conseguente, sopravvenuta, non fattibilità economica del tentativo di superamento della crisi alle condizioni prospettate in precedenza.

La disposizione in esame precisa poi che:

  1. il termine decorre dalla data del decreto con cui il tribunale assegna il termine;
  2. il termine non è prorogabile (stante l'eccezionalità della previsione);
  3. l'istanza è inammissibile ove sia presentata nell'ambito di un procedimento di concordato preventivo nel corso del quale è già stata tenuta l'adunanza dei creditori ma non sono state raggiunte le maggioranze stabilite dall'art. 177, l. fall..

Con riguardo a quest'ultimo aspetto, resta ovviamente ferma la possibilità per il debitore di presentare una nuova proposta di concordato, il cui iter è destinato a risultare meno problematico pur quando penda un'istanza di fallimento in virtù dell'improcedibilità di quest'ultima stabilita dal successivo art. 10.

Il meccanismo previsto nel predetto secondo comma, a differenza della proroga di cui al primo, presuppone un atto di impulso del debitore, ma non contempla alcuna valutazione da parte del tribunale, che è quindi tenuto a concedere il termine richiesto, salvo il caso di inammissibilità dell'istanza.

L'interrogativo più rilevante della norma in esame è stabilire se la stessa, rispetto ai concordati, si applichi soltanto ai concordati già votati favorevolmente come sembrerebbe doversi ritenere in forza dell'incipit della norma (“Nei procedimenti per l'omologazione…”) oppure anche per i concordati preventivi ammessi, ma non ancora votati. La prima soluzione appare più coerente col dato testuale, ma di scarsa utilità: perché mai il debitore dovrebbe, avendo ottenuto il voto favorevole dei creditori, modificare il piano e sottoporlo di nuovo al voto, quando, in forza del successivo terzo comma dell'art. 9 del Decreto Liquidità potrebbe più agevolmente modificare i termini di adempimento del concordato, senza sottoporsi ad un nuovo scrutinio dei creditori?

Le disposizioni di cui ai commi terzo, quarto e quinto dell'art. 9, al contrario, postulano una verifica da parte del tribunale, dal cui esito dipende la concessione della misura.

Una riflessione aggiuntiva si rende necessaria per gli accordi ristrutturazione nei quali – come è noto – non vi è un voto dei creditori; in tale quadro il secondo comma dell'art. 9 del Decreto Liquidità sembra doversi applicare al caso in cui sia ancora pendente il termine di trenta giorni per l'opposizione dei creditori di cui al quarto comma dell'art. 182 bis l. fall., mentre il terzo comma dell'art. 9 appare applicabile al caso in cui il detto termine sia decorso, ma il Tribunale non abbia ancora disposto l'omologazione.

Quanto al terzo comma dell'art. 9, se il debitore intende modificare unicamente i termini di adempimento del concordato preventivo o dell'accordo di ristrutturazione – recita il terzo comma – deposita sino all'udienza fissata per l'omologa una memoria contenente l'indicazione dei nuovi termini, depositando altresì la documentazione che comprova la necessità della modifica dei termini.
Il tenore della norma conferma, implicitamente, che l'istanza può essere presentata anche successivamente all'approvazione, da parte dei creditori, della proposta di concordato, ancorché questa contenesse, inizialmente, termini di adempimento diversi.

Quanto, infine, alle misure contemplate dai commi quarto e quinto dell'art. 9, esse si riferiscono alla situazione del debitore che abbia già ottenuto la proroga del termine ex art. 161, 6° c., o la concessione del termine ex art. 182-bis, 7° c., il quale è facoltizzato, in base appunto alle nuove previsioni, a richiedere un'ulteriore proroga sino a novanta giorni, ancorché sia stata presentata istanza di fallimento.

Tale istanza deve:

  1. indicare specificamente i fatti sopravvenuti “per effetto dell'emergenza epidemiologica COVID-19”;
  2. indicare gli elementi che rendono necessaria (e quindi non semplicemente utile od opportuna) la concessione della proroga.

Il tribunale, per parte sua, concede la proroga, previo parere del commissario giudiziale (se nominato), quando ravvisa concreti e giustificati motivi a fondamento dell'istanza depositata nel procedimento concordatario, mentre con riguardo agli accordi di ristrutturazione occorre altresì

che continuino a sussistere i presupposti per addivenire a un accordo con le maggioranze di cui all'art. 182-bis.

Improcedibilità dei ricorsi per la dichiarazione di fallimento

L'art. 10 D.L. 23/2020 dispone l'improcedibilità di tutti i ricorsi per dichiarazione di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa, nonché per l'accertamento dello stato di insolvenza nell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, depositati tra il 9 marzo 2020 e il 30 giugno 2020, alla luce dell'evidente difficoltà di ricondurre o meno lo stato d'insolvenza all'emergenza epidemiologica.

È fatta salva, dal secondo comma dell'art. 10 in commento, la richiesta presentata dal pubblico ministero quando nella medesima è fatta domanda di emissione di provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio oppure dell'impresa oggetto del provvedimento ai sensi dell'art. 15, comma ottavo, l. fall.: in quest'ultimo caso, infatti, la radicale improcedibilità avrebbe avvantaggiato le imprese che stavano mettendo in atto condotte dissipative di rilevanza anche penale con nocumento dei creditori, compromettendo le esigenze di repressione di condotte caratterizzate da particolare gravità.

La Relazione illustrativa al decreto evidenzia come la disposizione di cui all'art. 10 del Decreto Liquidità abbia il duplice scopo di evitare al ceto imprenditoriale la pressione crescente delle istanze di fallimento, sottraendo gli imprenditori alla drammatica scelta se depositare istanza di fallimento in proprio in un quadro nel quale lo stato di insolvenza può derivare da fattori esogeni e straordinari, oltre a venire incontro alla ritenuta difficoltà di subordinare la riconducibilità dello stato di insolvenza all'emergenza epidemiologica determinata dal diffondersi del Covid-19, che avrebbe comportato per i Tribunali un carico supplementare di lavoro insopportabile per l'attuale situazione di emergenza.

Non sfugge tuttavia che le domande di fallimento che si sarebbero dovute depositare tra il 9 marzo e il 30 giugno (salvo pochi casi) probabilmente non attengono ad insolvenze che trovano la loro radice nell'attuale stato epidemiologico bensì in dissesti esplosi quantomeno nell'autunno scorso e l'accertamento giudiziale di tale circostanza dura il tempo della verifica dell'anzianità delle inadempienze alla base dell'istanza di fallimento.

È noto che le procedure più veloci nella loro istruttoria sono quelle mosse dallo stesso imprenditore o dai dipendenti che cercano di pervenire il più rapidamente possibile al fondo di garanzia dell'INPS a tutela delle ultime tre mensilità e del TFR e successivamente all'indennità NASpI; quest'ultima ipotesi è tuttavia già sterilizzata dall'apertura delle procedure di cassa integrazione in deroga previste per tutte le categorie di lavoratori, che ha disinnescato il loro interesse verso le forme di protezione salariali collegate al fallimento.

Quanto ai debitori, nella Relazione si legge che «il blocco si estende a tutte le ipotesi di ricorso, e quindi anche ai ricorsi presentati dagli imprenditori in proprio, in modo da dare anche a questi ultimi un lasso temporale in cui valutare con maggiore ponderazione la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla soluzione della crisi di impresa senza essere esposti alle conseguenze civili e penali connesse ad un aggravamento dello stato di insolvenza che in ogni caso sarebbero in gran parte da ricondursi a fattori esogeni».

Quindi, in primo luogo, l'imprenditore insolvente, da un lato, potrebbe valutare di fare ricorso a strumenti di regolamentazione negoziata della crisi d'impresa, accordi, concordati; dall'altro, non può instare per il suo fallimento, disciplinato dall'art. 14 l.f., ma è obbligato a proseguire l'attività

fino al 30/06/2020, anche se con ciò dovesse aggravare il dissesto; ovviamente, la sterilizzazione anche di questo tipo di istanza esclude che ciò gli sia addebitabile, per il periodo in questione.

In secondo luogo, l'art. 10, co. 3 del Decreto Liquidità introduce una sorta di sterilizzazione del periodo di improcedibilità, stabilendo che lo stesso periodo – quando dopo il 30 giugno 2020 sopraggiunge il fallimento – non viene computato nei termini di cui agli artt. 10 e 69 bis l. fall.
L'art. 10 l. fall., come è noto, consente la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore cessato solo entro l'anno successivo alla cancellazione dal registro delle imprese, mentre l'art. 69 bis l. fall. concerne i termini di decadenza per le azioni revocatorie, nonché la codificazione del principio, di origine giurisprudenziale, di consecuzione delle procedure concorsuali.

Tuttavia, l'art. 69 bis l. fall., i cui termini come si è visto sono sospesi, non riguarda il periodo sospetto rilevante ai fini delle revocatorie: di conseguenza, un fallimento, slittato in avanti di qualche mese a causa del “blocco” dei ricorsi, trascina con sé il periodo sospetto, ciò rischia di far perdere la possibilità di revocare atti e pagamenti posti in essere nel semestre anteriore*.

*In evidenza

Il terzo comma dell'art. 10 del Decreto Liquidità si presta a qualche ulteriore riflessione; la norma parla di consecutio tra improcedibilità e successiva dichiarazione di fallimento, ma deve intendersi applicabile anche ai casi di successivo accertamento dello stato di insolvenza ai sensi dell'art. 195 l. fall. e dell'art. 3 del d.lgs. n. 270/1999. Più delicato è capire quando si verifica la consecutio: a stretto rigore parrebbe necessario che il creditore avanzi oggi istanza che verrà dichiarata improcedibile e la ripresenti a far data dal 1^ luglio 2020; in assenza di ciò ci si domanda se non sia opportuno introdurre in sede di conversione un termine di deposito dell'istanza successivo al 30 giugno 2020 che valga come presunzione di consecutio.

In terzo luogo, occorre ribadire che la previsione di cui all'art. 10 non appare applicabile alle istanze di “preconcordato” e di “preaccordo”, come si evince dal tenore letterale della norma stessa, che non fa menzione di tali istituti, e dal silenzio serbato sul punto dall'art. 9 sopra analizzato.

In ogni caso, l'impossibilità di dare inizio a nuovi procedimenti civili e di depositare atti in quelli già pendenti è destinata a venir meno, salvo ulteriori (allo stato improbabili) proroghe, il prossimo 11 maggio.

Va da sé che, decorso il termine “di grazia” le istanze di fallimento fioccheranno di nuovo ed assai più numerose di prima in quanto quelle eventualmente bloccate non si saranno nel frattempo risolte e le nuove, che effettivamente trovino proprio nella crisi epidemiologica la loro causa, riprenderanno a correre, senza dunque che la sospensione abbia potuto risolvere alcunché.

Conclusioni

Ove dovesse reputarsi preferibile una legge ispirata al preminente obiettivo di salvaguardare la continuità aziendale delle imprese in crisi, è chiaro che di fronte a situazioni assolutamente emergenziali (come un'epidemia o pandemia quale appunto quella in atto) il legislatore, al fine di evitare una dichiarazione di fallimento urbi et orbi, ha di fronte a sé due strade: o intervenire in via generale sulla disciplina del fallimento e della sua dichiarazione (artt. 5 e 15), oppure – com'è avvenuto con il già citato art. 10 del Decreto Liquidità – stabilire la temporanea improcedibilità delle istanze di fallimento.

È altrettanto evidente che il recupero di liquidità per le imprese debitrici avrebbe come contropartita una perdita di liquidità per quelle creditrici.

Da questo punto di vista, congelare le dichiarazioni di fallimento, come suggerito dal CERIL, ad esempio di qui a 6, 12 mesi (favorendo al contempo il ricorso a strumenti alternativi alle procedure concorsuali) è una responsabilità enorme, che potrebbe assumersi solo la politica, se non a costo di scelte che potrebbero rivelarsi impopolari, non potendosi quindi nemmeno escludere, al riguardo, l'inizio di una nuova stagione di supplenza della magistratura.

Il blocco delle dichiarazioni di fallimento, che provenga dal legislatore o dalla prassi giurisprudenziale, dovrebbe però accompagnarsi a forti iniezioni di liquidità nel sistema, a sostegno delle imprese debitrici, anche mediante strumenti di riduzione del costo del lavoro e

facilitazione all'accesso alla CIG (a prevenire eccessivi licenziamenti, già prevista dagli ultimi decreti del Governo), defiscalizzazione, compensazioni tra debiti e crediti erariali, accesso al credito facilitato e con garanzia dello Stato, ecc., strumenti in parte già adottati (pensiamo ai fondi SACE e PMI), auspicandosi peraltro la possibilità di correlare i finanziamenti, garantiti dal Fondo centrale di garanzia ed ottenuti dalle PMI, al pagamento dei debiti d'impresa, in modo da consentire al sistema di “girare”.

Nonostante ciò, tali strumenti potrebbero tuttavia rivelarsi non sufficienti.

Infatti, con un debito pubblico al 132% e una perdita attesa del PIL che potrebbe raggiungere il 10% (previsioni Confindustria), questo significa che potrebbero mancare all'appello circa 160 mld di euro (il PIL italiano si aggira infatti intorno a 1600 mld di euro), che dovranno essere prontamente reperiti.

Solo in parte una tale cifra potrà piovere mediante ricorso all'indebitamento, sia che esso passi attraverso strumenti endogeni (BOT, BTP), che esogeni (MES, Eurobond), semplicemente perché non abbiamo più troppa capacità di indebitarci oltre. Indebitarsi significa infatti, in prospettiva, aprire una nuova stagione di tagli alla spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale per gli anni a venire, deflazione salariale e licenziamenti di massa (che contribuirebbero a deprimere ulteriormente l'economia). Sarebbe la Troika italiana.

Non a caso in questi giorni è acceso il dibattito sulle misure di sostegno all'economia che si stanno concordando a livello europeo, atteso che, a meno che non si acceda all'ipotesi di stampare moneta tornando a quella sovranità monetaria ceduta all'UE con i Trattati, gli strumenti interni di sostegno all'economia potrebbero rivelarsi insufficienti (così come lo sarebbero i prestiti tramite Mes, Sure e Bei, comunque nuovi debiti da rimborsare), se non accompagnati da soluzioni di condivisione comune dei rischi tra i Paesi dell'eurozona, per lo meno attraverso l'emissione di titoli comuni con l'implicita garanzia del budget europeo, anche se solo in via temporanea con i cd. recovery fund in luogo degli eurobond (o coronabond che dir si voglia, che attuerebbero una mutualizzazione permanente del debito, invisa al Nord Europa, ma oltretutto richiederebbe anche tempo per organizzarne l'emissione), ovvero sotto forma di prestiti agli Stati a tasso pressoché zero con tempi lunghi per la restituzione o addirittura a fondo perduto, come da alcuni anche proposto (cd. obbligazioni perpetue senza scadenza e a tasso zero, proposte dalla Spagna), finanche ampliando l'ipotesi all'ulteriore possibilità per la BCE di monetizzare e cancellare il debito italiano, visto che le perdite potrebbero essere ripianate stampando in via eccezionale moneta, il che consentirebbe di non contabilizzare una crescita del debito dei singoli Paesi.

Rimetti a noi i nostri debiti…diremmo, anzi “pregheremmo”.

Va da sé che, se è vero che la BCE destinerà ben 750 miliardi di euro per il cd. Quantitivy Easing fino alla fine del 2020, è fondamentale che le banche dal canto loro indirizzino tali risorse per concedere nuova finanza al sistema economico delle imprese, visto che in passato si è assistito a comportamenti non virtuosi, ovvero quando le istituzioni bancarie hanno preferito investire le risorse provenienti dalla BCE in titoli di Stato (potenzialmente interessanti, in quanto più remunerativi quelli italiani per l'aumento dello spread legato al cd. “Rischio Paese”). Ma non è detto che anche in questa occasione il Governo, dato il peggioramento previsto del rapporto deficit/Pil e del debito pubblico per effetto della crisi, possa assecondare, almeno in parte, questi comportamenti.

Tornando alla sospensione della possibilità di presentare la domanda di fallimento, nonostante le osservazioni del CERIL suggeriscano una sospensione generalizzata dell'obbligo di attivazione delle procedure d'insolvenza - senza dunque che vi sia prova del collegamento del dissesto alla situazione di emergenza - potrebbe essere ragionevole consentirla ai soli soggetti in grado di dimostrare la stretta correlazione tra la propria crisi e le circostanze contingenti, per evitare condotte abusive di imprese già dissestate che, non essendo obbligate alla liquidazione, causerebbero effetti ancor più negativi sulla possibilità di soddisfacimento (almeno parziale) dei

creditori; come ad esempio, è avvenuto in Germania, dove l'art. 1 della Legge d'intervento per fronteggiare le conseguenze del Covid 19 nel diritto processuale civile, fallimentare e penale del 27 marzo, prevede la sospensione sia dell'obbligo per il debitore che della possibilità per i creditori di presentare istanza di fallimento fino al 30 settembre 2020, salvo che il fallimento non sia dovuto alla diffusione del virus SARSCoV-2i; inoltre, introduce una presunzione per cui tale nesso di causalità sarebbe provato se il debitore non risultava insolvente alla data del 31/12/2019.

A ciò si aggiunga che, ferma restando l'improcedibilità di tutte le istanze di fallimento prevista dall'art. 10 del Decreto Liquidità, potrebbe essere tuttavia ripristinata la facoltà per l'imprenditore di richiedere il suo fallimento, senza decretare un'improcedibilità che non elimina le ragioni dell'insolvenza né le risolve, atteso che l'auto-fallimento in determinate circostanze può atteggiarsi a strumento di auto-tutela con il quale l'impresa, dopo aver verificato l'impossibilità di percorrere soluzioni alternative, opta per far dichiarare (anche nell'interesse pubblico) la propria insolvenza; in tal modo avviando la liquidazione, dalla quale talvolta potrebbero scaturire soluzioni di salvaguardia della continuità aziendale.

Allo stesso modo, sarebbe irragionevole che quelle imprese che, nell'interesse dell'economia nazionale, potrebbero rimanere, seppur a fatica, sul mercato non potessero ristrutturare il proprio debito.

Ciò anche tramite il ricorso a procedure di supporto agli imprenditori in crisi da Coronavirus, alternative a quelle concepite in ambito concorsuale per amministrare imprese in crisi strutturale non determinata dalla pandemia in atto ma che trovano la loro causa in altre problematiche, ossia tramite strumenti in grado di intervenire su realtà essenzialmente sane, destinate, una volta cessata l'emergenza e le misure di sostegno, a riprendere la loro attività in condizioni ordinarie.

Si potrebbe pensare agli strumenti di regolamentazione negoziata della crisi d'impresa, accordi, concordati; oppure, come da alcuni auspicato, introducendo una sorta di procedura ad hoc, snella

e veloce, caratterizzata dall'impossibilità di aprire il fallimento e dal blocco delle azioni esecutive dei creditori ed impostata come “contenitore di sicurezza”, in modo che l'imprenditore possa beneficiare di un periodo di protezione.

Va da sé che, se il “congelamento” ex lege delle dichiarazioni di fallimento non dovesse essere rinnovato, il problema passerà nelle mani dei giudici, che dovranno decidere che fare delle numerose istanze in arrivo, non nel senso di propendere per la tutela del credito o del debito, ma di quale sia la soluzione più desiderabile, nel significato attribuito nell'analisi economica del diritto a questo termine, ossia la soluzione in grado di produrre il maggior grado di benessere collettivo.

* * *

Quanto invece alla possibilità di intervenire in via generale sulla disciplina del fallimento e della sua dichiarazione (artt. 5 e 15), costituisce jus receptum il principio della cd. rilevanza oggettiva dello stato d'insolvenza, che, ai fini del suo accertamento richiede esclusivamente l'incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, a prescindere da quali siano state le cause generatrici di tale situazione.

L'insolvenza o è o non è, per dirla con Parmenide.

Tale principio non soffre deroghe, salvo quelle situazioni-limite in cui sia lo stesso, unico, creditore a cagionare, abusando dei propri diritti, lo stato di decozione, o in cui egli non abbia alcun concreto interesse alla dichiarazione di fallimento.

E' l'ipotesi dell'abuso del diritto e del dovere di buona fede che la Corte di Cassazione con sentenza del 19 settembre 2000, n. 12405 ha ritenuto esistente con riferimento al caso di un istituto di credito che, col rifiutare al cliente mutuatario il frazionamento del mutuo, gli aveva impedito la vendita degli appartamenti e il conseguente afflusso di liquidità, instando poi per il fallimento, non essendo riuscito l'imprenditore a pagare le rate del mutuo stesso alla banca, sua unica creditrice; ovvero il caso della mancanza di interesse ad agire ravvisata dalla sentenza della

Corte d'Appello di Venezia del 13 marzo 2019, n. 1022 riguardo al caso di un unico creditore che, già tutelato attraverso un provvedimento di conversione di un pignoramento capiente, chiedeva e otteneva nondimeno dal tribunale la dichiarazione di fallimento del proprio debitore.

Ma in entrambi i casi si tratta di situazioni del tutto peculiari, inidonee a mettere in discussione il principio dell'irrilevanza delle ragioni che hanno condotto all'insolvenza, le quali assumono importanza, sempre secondo la Cassazione, solo ove siano tali da comprovare il carattere temporaneo dell'impossibilità di soddisfare le proprie obbligazioni e facciano in tal modo venir meno il requisito della “strutturalità” dell'insolvenza (Cass. 17 dicembre 2014, n. 26545).

Passando dal piano del diritto positivo a quello dello jus condendum, dalla dottrina proviene la proposta – dichiaratamente frutto dell'emergenza epidemiologica – di riconoscere rilevanza all'insolvenza incolpevole, integrando l'art. 5 con la precisazione in base alla quale non si fa luogo al fallimento quando l'insolvenza è dipesa da cause di forza maggiore, nel senso quindi di un superamento della nozione strettamente naturalistica dell'impossibilità di cui agli artt. 1256 e 1258 c.c., oggi valutabile anche sul piano economico-finanziario.

Al riguardo va aggiunto che il rimedio dell'improcedibilità ex art. 10 è di natura temporanea, mentre è pur vero che non possono escludersi (al contrario, vanno messi in conto) fenomeni di insolvenza “prevalentemente incolpevole” oltre l'orizzonte temporale del giugno 2020. Rispetto a tale scenario una norma nel senso della non fallibilità per forza maggiore offrirebbe maggiore respiro, oltre a risultare sintonica alla grave situazione corrente. E con riferimento ai casi in cui non emergesse con chiarezza l'ascrivibilità dell'insolvenza in via esclusiva alla pandemia, potrebbe attingersi forse, in via normativa e comunque interpretativa, al criterio della prevalenza dell'apporto alla causazione dell'evento (la stessa Relazione illustrativa, sub art. 10, parla di dissesto “in gran parte da ricondursi a fattori esogeni”) e, nei casi ulteriormente dubbi, a un favor debitoris oggettivamente giustificato dal momento storico che stiamo attraversando.

Ancora una volta, come v'è modo di vedere, si tratta di operare una valutazione politica, che si traduca in un atto legislativo, con cui si dia rilievo all'esimente della forza maggiore da emergenza coronavirus per escludere l'insolvenza; senza così avvantaggiare soggetti non meritevoli, restando comunque ai giudici la possibilità di “stanare” coloro che tentino di far pretestuosamente ricorso alla causa di forza maggiore per evitare il fallimento.

Occorre tuttavia considerare che la rinuncia al principio della rilevanza oggettiva dell'insolvenza avrebbe comportato un elemento di innegabile incertezza nella valutazione del giudice in ordine alla sussistenza di tale presupposto, non essendo spesso agevole ravvisare un nesso causale esclusivo fra evento straordinario e dissesto dell'impresa: ragion per cui “l'esimente della forza maggiore” sarebbe stata destinata a trovare applicazione nei soli casi in cui un'impresa, di per sé totalmente sana, fosse venuta a trovarsi in difficoltà esclusivamente per l'emergenza epidemiologica.

La scelta del legislatore a favore della temporanea improcedibilità delle istanze di fallimento, seppur non esattamente di portata sistematica, è stata quindi probabilmente dettata, oltre che da una apprezzabile esigenza di certezza applicativa, anche dalla consapevolezza delle eterogeneità interpretative di cui sarebbe stata foriera l'altra opzione sul tappeto.

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