Covid-19 e responsabilità civile sanitaria
11 Maggio 2020
Introduzione: i termini del problema
Le indagini già avviate da alcune Procure e le dichiarazioni divulgate nelle più diverse sedi dalla classe medica, tanto individualmente quanto tramite le associazioni rappresentative della categoria, testimoniano come si faccia di giorno in giorno sempre più pressante il problema della responsabilità civile (e ovviamente anche penale, che però esula dalla nostra trattazione) configurabile in capo agli operatori sanitari e alle strutture ospedaliere in seguito ad eventi avversi per la salute dei pazienti coinvolti nell'epidemia da Covid-19. La questione, già affrontata su Ridare da un Focus del 10 marzo (M. Hazan - D. Zorzit, Corona Virus e Responsabilità (medica e sociale)) e da una News del 26 marzo (F. Martini, Impatto situazione emergenziale Coronavirus nell'ambito della responsabilità civile medica, in Ridare.it), è resa oltremodo complessa da una serie di fattori che vanno anche oltre le arcinote caratteristiche di novità e aggressività del virus SARS-CoV-2: l'impiego, in supporto di infettivologi e rianimatori-intensivisti, di medici appartenenti ad altre specializzazioni impone a questi ultimi di operare al di fuori degli ambiti di propria competenza e per giunta senza copertura assicurativa; l'estrema difficoltà di mantenere un contatto con gli operatori sanitari per essere informati dell'andamento delle cure può esacerbare gli animi dei familiari dei pazienti affetti dal virus ed eventualmente spingerli, nel non infrequente caso di decesso del malato, ad innescare un giudizio civile e/o penale per avere quelle spiegazioni che non sono state loro fornite in precedenza; la presentazione di azioni risarcitorie e denunce penali per la morte di pazienti colpiti dall'epidemia viene del resto incoraggiata da alcuni studi legali, talvolta offrendo consulenza gratuita o altri incentivi; e ulteriori aspetti ancora potrebbero essere menzionati. A fronte di questa drammatica situazione, che si va ad innestare in un panorama (non solo) nazionale già da tempo caratterizzato da una notevole espansione del contenzioso in ambito sanitario e dal connesso fenomeno della c.d. medicina difensiva, erano pure state presentate diverse proposte di emendamento al d.l. 17 marzo 2020, n. 18, meglio noto come decreto “Cura Italia”, dirette ad introdurre, in sede di conversione in legge del provvedimento, apposite norme dirette ad escludere o quantomeno circoscrivere la responsabilità civile di medici e strutture sanitarie per eventi avversi connessi al Covid-19. Tali sollecitazioni invero suscitano importanti interrogativi: l'attuale quadro legislativo e giurisprudenziale della responsabilità civile sanitaria dispone già di strumenti adeguati per affrontare l'eccezionale situazione in atto, individuando un accettabile punto di equilibrio tra le esigenze di protezione della classe medica da un lato e la necessità di non innescare indesiderabili fenomeni di deresponsabilizzazione di fronte a episodi di vera e propria malpractice dall'altro? O è invece necessario, o quantomeno opportuno, introdurre specifiche disposizioni di legge sul punto in deroga alla disciplina della responsabilità professionale contenuta nella c.d. Legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017) e ai principi generali della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dettati dal codice civile? E in caso positivo, quale dovrebbe essere il contenuto preciso di questa disciplina speciale? Si tratta di quesiti evidentemente complessi, che sono poi destinati a complicarsi ulteriormente quando declinati con riguardo alle molteplici fattispecie di responsabilità astrattamente ipotizzabili in questo ambito: un errore diagnostico, configurabile per non avere correttamente e tempestivamente individuato il virus sulla base del quadro clinico del paziente; un errore terapeutico, relativo quindi all'esecuzione dei trattamenti finalizzati a guarire il malato; un errore o un'omissione attinenti al contenimento del Covid-19, vale a dire all'adozione delle misure precauzionali (isolamento del paziente, sanificazione ambientale, disinfezione degli strumenti medici riutilizzabili, utilizzo di camici, mascherine e occhiali protettivi, ecc.) atte ad evitare che lo stesso si diffonda contagiando altre persone. Il tutto da valutare, chiaramente, tenendo nella dovuta considerazione la situazione di emergenza creata dalla limitatezza delle risorse necessarie ad affrontare la nuova patologia, dalle mascherine agli apparecchi di ventilazione forzata ai posti di terapia intensiva, rispetto all'enorme e improvvisa quantità di malati affetti dal morbo. Lungi dal potersi esaurire un così vasto argomento in questa sede, di seguito si cercherà di tratteggiare una prima riflessione sul tema distinguendo, com'è usuale fare quando si parla di responsabilità civile medica, tra la responsabilità individuale del personale sanitario e la responsabilità per disfunzioni organizzative configurabile in capo alle strutture ospedaliere. Nella prospettiva delle obbligazioni di mezzi la responsabilità individuale degli esercenti la professione sanitaria è notoriamente considerata una responsabilità fondata sulla colpa, vale a dire sul discostamento della condotta tenuta dall'operatore dal parametro della diligenza professionale disciplinato dagli artt. 1176, comma 2 e 2236 c.c. nonché ulteriormente specificato dalle previsioni dell'art. 5 della Legge Gelli-Bianco, il quale impone al medico di attenersi, salve le specificità del caso concreto, alle «raccomandazioni previste dalle linee guida» accreditate dalle istituzioni con le modalità disposte nella medesima legge e, in loro mancanza, alle «buone pratiche clinico-assistenziali». Sembra potersi affermare che, in linea di principio, tale disciplina non dovrebbe lasciare eccessivi spazi per un'affermazione di responsabilità del personale sanitario per eventi avversi verificatisi in occasione del trattamento di pazienti affetti da Covid-19. Innanzitutto, per la novità della patologia appare piuttosto improbabile l'eventualità che si possa rimproverare ai medici di non avere conformato la propria condotta ai parametri indicati dall'art. 5 della Legge Gelli-Bianco: allo stato attuale infatti ancora non vi sono farmaci testati di certa efficacia contro il virus, né linee guida terapeutiche condivise e consolidate nella comunità scientifica né buone pratiche clinico-assistenziali (se non quelle relative alla terapia di supporto, come ad esempio l'assistenza intensivistica nei casi più gravi). Questo elemento, unito alla considerazione della situazione di emergenza in cui il personale sanitario si trova spesso ad operare nella cura dei pazienti affetti da Covid-19, dovrebbe poi condurre al concretizzarsi, nella grandissima generalità dei casi, di quella «speciale difficoltà» della prestazione alla quale l'art. 2236 c.c. ricollega la delimitazione della responsabilità del medico ai soli casi di dopo o colpa grave (cfr. M. Hazan - D. Zorzit, op. cit., par. 3). Certo, non si può sottacere che per lunghissimo tempo tale norma è stata fatta oggetto di un'interpretazione marcatamente – e, secondo molti, eccessivamente – restrittiva da parte della giurisprudenza, che in particolare ne ha circoscritto la portata al solo aspetto della perizia (escludendo quindi i profili di negligenza e prudenza) e ne ha ristretto il campo d'applicazione ai casi ritenuti eccezionali e straordinari, per non essere ancora stati adeguatamente studiati nella scienza e sperimentati nella pratica ovvero per essere oggetti di dibattiti scientifici con sperimentazione di approcci diagnostici e terapeutici diversi o incompatibili. Anche intesa in termini così restrittivi, però, la norma de qua dovrebbe comunque trovare applicazione, per le ragioni anzidette, con riguardo ai casi di cui si discute; ciò che del resto appare ancora più plausibile quando si considera che, di recente, la stessa magistratura sembra avere avviato un processo di riscoperta del significato e delle potenzialità applicative dell'art. 2236 c.c. richiamando quello che è stato definito lo «spirito riequilibratore» delle sorti delle controversie in ambito sanitario introdotto nel sistema dall'avvento della Legge Gelli-Bianco (cfr. Trib. Roma, 1 febbraio 2018; Trib. Napoli, 26 novembre 2018). Verosimilmente tutto questo dovrebbe valere, in particolare, nei casi in cui il medico venga convenuto in giudizio per un errore commesso nell'esecuzione di trattamenti terapeutici su malati di Covid-19; mentre a conclusioni almeno parzialmente diverse si potrebbe forse giungere, pur con tutte le peculiarità della fattispecie concreta, da considerare caso per caso, a partire dalla variabilità dei tempi di incubazione del virus, qualora si discuta di un errore o di un ritardo diagnostico, posto che l'infezione da SARS-CoV-2 è riconoscibile da sintomi sufficientemente noti – benché poco specifici – ed accertabile con metodologie di ricerca del morbo di principio affidabili. Un altro ambito nel quale parrebbero aprirsi maggiori spazi per un'affermazione di responsabilità del personale sanitario è quello relativo alla mancata adozione degli accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all'interno dell'ospedale, posto che la concreta adozione di tali misure di prevenzione appare di per sé connotata da un quoziente di difficoltà e di aleatorietà sensibilmente inferiore rispetto a quello che caratterizza la somministrazione della terapia ai pazienti affetti dal morbo. Pure in questa ipotesi, peraltro, le probabilità che si arrivi effettivamente ad affermare la responsabilità del personale medico dovrebbero essere significativamente ridotte, quantomeno nella maggioranza dei casi, in forza di due fattori. In primo luogo, la situazione emergenziale in cui i medici si trovano molto spesso ad operare potrebbe far assumere alle prestazioni di cui si discute quei profili di speciale difficoltà che normalmente non possiedono, così facendo ricadere il caso concreto nell'orbita di applicazione dell'art. 2236 c.c. con tutto ciò che ne deriva in punto di limitazione della responsabilità dell'operatore (cfr., nuovamente, M. Hazan - D. Zorzit, op. cit., par. 3). Inoltre, avverso la possibilità che si arrivi a pronunciare una sentenza di condanna nei confronti di uno o più operatori sanitari si potrebbe assai facilmente presentare l'ostacolo, già abbondantemente sperimentato nelle controversie in materia di infezioni nosocomiali, rappresentato dall'impossibilità di identificare con precisione il singolo soggetto (o i singoli soggetti) cui ascrivere il comportamento che ha effettivamente causato l'evento avverso (sono i c.d. danni anonimi): con ogni probabilità, in queste ipotesi il mirino del giudice finirà per spostarsi sulla responsabilità “organizzativa” della struttura sanitaria, argomento che costituisce l'oggetto del par. successivo. Com'è noto, da diverso tempo si riconosce che sulle strutture sanitarie incombe, oltre e anche a prescindere dalla responsabilità indiretta (o “vicaria”) per la malpractice del personale medico che opera al loro interno, una diretta e autonoma responsabilità per “difetto di organizzazione” che si concretizza quando l'evento avverso occorso al paziente è riconducibile a inadeguatezze e disfunzioni del complesso apparato di strumenti, mezzi, uomini e risorse a disposizione dell'ospedale: il contratto di spedalità intercorrente fra il nosocomio e il malato obbliga infatti il primo a mettere a disposizione del secondo un contesto organizzativo e strutturale di livello adeguato rispetto a tutte le circostanze del caso concreto, quali la tipologia e le dimensioni dell'ente, il suo bacino d'utenza, le caratteristiche dei servizi prestati dagli ospedali affini, lo stato di avanzamento dell'evoluzione scientifica e tecnologica del momento storico, e così via (per una più ampia trattazione dell'argomento si rinvia a M. Faccioli, La responsabilità civile per difetto di organizzazione delle strutture sanitarie, Pisa, 2018). Da questo punto di vista bisogna allora chiedersi se una responsabilità civile per eventi avversi occasionati dal Covid-19, concretizzabile in capo ai singoli operatori solo nei termini illustrati nel par. precedente, possa più facilmente ricadere sulla struttura sanitaria per il tramite del deficit organizzativo. La risposta pare dover essere, ancora una volta, di segno tendenzialmente negativo con riguardo a danni occasionati dall'attività di somministrazione delle terapie ai pazienti affetti dal morbo. Il livello del substrato organizzativo concretamente e legittimamente esigibile dagli ospedali è, difatti, inevitabilmente condizionato dalla ineludibile limitatezza delle risorse finanziarie che gli stessi hanno a disposizione e dalla necessità di impiegare tali risorse secondo criteri di appropriatezza, razionalità ed efficienza (M. Faccioli, op. cit., p. 93 ss.): così stando le cose, è evidente che sarebbe del tutto fuori luogo pensare di condannare al risarcimento le strutture sanitarie per il fatto di non essere sufficientemente attrezzate per fare fronte ad un evento straordinario qual è l'epidemia in atto e prendersi cura di tutte le persone colpite dal virus nelle quantità, nei tempi e con le conseguenze che ben conosciamo. Maggiori spazi per un'affermazione di responsabilità parrebbero invece aprirsi qualora si discuta della mancata o scorretta adozione, a livello organizzativo, degli accorgimenti atti ad evitare la diffusione del virus all'interno dell'ospedale. Prendendo nuovamente spunto dalle controversie in tema di infezioni nosocomiali sembra potersi difatti affermare che, sempre ovviamente nei limiti imposti dalla situazione emergenziale in atto, l'effettuazione di attività quali l'isolamento dei malati, la sanificazione ambientale, la disinfezione degli strumenti, l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, e così via, può – e pertanto deve – essere garantita dall'ente sanitario attraverso un'adeguata opera di pianificazione e concreta implementazione secondo la logica delle c.d. obbligazioni di risultato (M. Faccioli, op. cit., p. 89 ss.): logica questa che, come riconosciuto anche dalla recente pronuncia di Cass. civ., 11 novembre 2019, n. 28987 (sulla quale v. F. Martini, Il regresso dell'azienda sanitaria privata verso il medico libero professionista e collaboratore. Il decalogo fissa i limiti sostanziali dell'azione, in Ridare, Giurisprudenza commentata del 2 gennaio 2020), impone di ricostruire il criterio di imputazione della responsabilità della struttura per “difetto di organizzazione” impiegando, in luogo della regola della colpa utilizzata per valutare la responsabilità individuale del singolo operatore, un più rigido parametro di natura oggettiva che addossi all'ospedale il rischio dell'inadempimento derivante da tutte le anomalie che si possano verificare nell'ambito del proprio apparato organizzativo fino al limite dell'impossibilità sopravvenuta non imputabile (in dottrina v., ancora, M. Faccioli, op. cit., p. 107 ss., ove ulteriori citazioni in tal senso). Va peraltro evidenziato che questo parametro, se correttamente inteso, non dovrebbe restringere eccessivamente la possibilità di andare esente da responsabilità per la struttura sanitaria, questa essendo sempre ammessa a dimostrare, in alternativa al fatto che l'inadempimento è stato determinato da un impedimento oggettivamente imprevedibile ed inevitabile, di avere regolarmente adempiuto l'obbligazione avente per oggetto la predisposizione delle misure precauzionali atte ad evitare la diffusione del virus (cfr., anche per indicazioni di giurisprudenza conforme, M. Faccioli, op. cit., p. 128; per analoghe conclusioni, seppure ricostruendo in termini colposi il criterio di imputazione della responsabilità della struttura, v. pure M. Hazan - D. Zorzit, op. cit., par. 3). Che si fondi sull'errore o sul ritardo diagnostico, sull'inadeguatezza dell'attività terapeutica prestata o sul fatto che il paziente ha subito il contagio all'interno dell'ospedale, la pretesa risarcitoria per eventi avversi ricollegati al Covid-19 dovrà poi confrontarsi, come tutte le azioni di responsabilità da medical malpractice, con le questioni relative al nesso eziologico. Al riguardo pare opportuno ricordare che la giurisprudenza, pur continuando a beneficiare il paziente attore in giudizio dell'adozione del criterio del “più probabile che non”, da qualche anno a questa parte ha rimodellato il proprio orientamento verso assetti più vicini alla posizione del medico e della struttura convenuti con riguardo al profilo dell'onere della prova: com'è stato anche recentemente ribadito da Cass. civ., 11 novembre 2019, nn. 28991-28992 (sulle quali v. G. Sileci, Principio distributivo dell'onere della prova sul nesso di causalità materiale in ambito sanitario, in Ridare, Giurisprudenza commentata del 16 dicembre 2019; A.M. Benedetti, Verso una “medicalizzazione” della responsabilità contrattuale? Esercizi di discutibile riscrittura dell'art. 1218 c.c., in Giustiziacivile.com, Nota a sentenza del 28 gennaio 2020), incombe sul paziente che invoca la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria l'onere di provare, anche tramite presunzioni, il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'operato dei medici, mentre spetta alla struttura convenuta, ove il danneggiato abbia assolto tale onere, dimostrare di avere esattamente adempiuto oppure l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inadempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile (nuovo indirizzo giurisprudenziale della Cassazione auspicato da Spera, La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “ ” Ebbene, non sembra azzardato affermare che questioni di questo tipo dovrebbero essere tutt'altro che eccezionali nelle controversie per danni da Covid-19: la limitatezza delle conoscenze scientifiche sul SARS-CoV-2, il contesto emergenziale nel quale vengono spesso trattati i malati affetti dal virus e la circostanza che costoro sono non di rado già soggetti ad altre patologie parrebbero essere fattori in grado di incrementare in maniera significativa le probabilità che rimanga incerta, in particolare, la relazione causale tra l'operato dei medici e l'evento avverso di cui è rimasto vittima il paziente, con conseguente respingimento dell'azione risarcitoria dispiegata nei confronti della struttura. D'altro canto, bisognerà anche vedere fino a che punto la giurisprudenza si mostrerà incline a permettere al paziente di superare la surriferita incertezza probatoria facendo ricorso al meccanismo presuntivo, specialmente con riguardo alle ipotesi di responsabilità della struttura per contagio intraospedaliero da Covid-19: a sollecitare l'attenzione sul punto sono ancora una volta le controversie in tema di infezioni nosocomiali, fattispecie nelle quali i nostri giudici si mostrano già particolarmente propensi a dare ingresso alle presunzioni per dimostrare la natura iatrogena di un evento avverso, l'infezione appunto, della quale è sovente impossibile ricostruire in termini precisi lo sviluppo eziologico (cfr. M. Hazan - D. Zorzit, op. cit., par. 3). Le considerazioni finora svolte portano a concludere che nell'attuale quadro normativo e giurisprudenziale della responsabilità civile sanitaria non sembrano mancare strumenti idonei a tenere adeguatamente conto delle peculiarità delle prestazioni sanitarie rese nei confronti di pazienti affetti da SARS-CoV-2 e fare sì che i giudizi in materia possano definirsi in maniera appropriata ed equidistante rispetto agli interessi delle parti contendenti. Ciononostante, appare assai probabile, come già si diceva, che in futuro la materia riceva un'apposita regolamentazione, anche se gli emendamenti proposti in sede di conversione in legge del decreto “Cura Italia” sono stati ritirati prima della discussione del provvedimento in Senato: appare comunque utile prenderli sinteticamente in considerazione, per capire quali possano essere le linee dei futuri interventi normativi in materia. A destare interesse sono innanzitutto gli emendamenti 1.0.4 e 16.2, i quali miravano a introdurre nel decreto, tramite – rispettivamente – un nuovo art. 1-bis e un nuovo art. 16-bis, una disciplina della materia sotto molto aspetti affine e fondamentalmente imperniata attorno a tre principi: a) la delimitazione della responsabilità civile per eventi avversi causati dall'epidemia, tanto delle strutture sanitarie quanto degli operatori, ai casi di dolo e colpa grave; b) la precisazione secondo cui la colpa grave consiste nella palese (o macroscopica) e ingiustificata violazione dei principi basilari della professione sanitaria o dei protocolli o dei programmi predisposti per fronteggiare l'emergenza in atto; c) l'ulteriore puntualizzazione che richiedeva di valutare la gravità della colpa considerando la situazione organizzativa e logistica della struttura in relazione alla novità ed eccezionalità del contesto emergenziale, il numero di pazienti su cui è necessario intervenire e la gravità delle loro condizioni anche in relazione alle risorse umane e materiali disponibili, la necessità di rimodulazione del sistema di erogazione delle prestazioni ospedaliere, la peculiare attività di professionisti fuori sede estranei all'organizzazione e l'eventuale eterogeneità della prestazione resa in emergenza rispetto al livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore, la necessità di prendere in carico pazienti di altre strutture con percorsi di cura eterogenei. Una siffatta disciplina potrebbe costituire, con riguardo alla responsabilità individuale del personale sanitario, una sorta di “concretizzazione” di risultati invero già attingibili tramite l'applicazione dell'art. 2236 c.c.: da questo punto di vista è pertanto lecito dubitare sulla sua reale portata innovativa, salvo, forse, non volerle attribuire il significato – che però sarebbe preferibile prevedere in maniera esplicita – di sollevare il medico convenuto in giudizio dall'onere di provare di avere concretamente operato nelle condizioni di particolare difficoltà richieste dalla norma codicistica. La decaduta proposta di intervento legislativo desta, poi, ulteriori (e anche maggiori) perplessità quando rapportata alla responsabilità delle strutture sanitarie, in quanto l'espresso riferimento all'elemento soggettivo del dolo o della colpa appare difficilmente conciliabile con la ricostruzione in termini oggettivi della responsabilità per “difetto di organizzazione” degli enti nosocomiali della quale abbiamo parlato sopra, nel par. 3. Si occupava della responsabilità del personale sanitario, senza fare alcun riferimento a quella delle strutture, anche l'emendamento 13.2, decisamente più snello rispetto a quelli sopra esaminati, che tramite l'inserimento di alcuni ulteriori commi all'art. 13 del decreto prevedeva che, salvo sempre i casi di dolo o colpa grave, per tutta la durata dell'emergenza epidemiologica gli esercenti le professioni sanitarie non rispondano civilmente quando il profilo di colpa sia determinato da indisponibilità di mezzi o essi abbiano agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l'integrità del paziente; anche in questo ambito si aggiungeva, poi, che la valutazione della gravità della colpa dovrebbe tenere conto della proporzione tra le risorse e i mezzi disponibili e il numero di pazienti da curare, nonché delle tipologie di prestazione svolta per fronteggiare l'emergenza rispetto al tipo di specializzazione posseduta. Un altro emendamento che vale la pena menzionare è il 13.0.1, nel quale si proponeva l'introduzione di un nuovo art. 13-bis che avrebbe previsto, tra le altre cose, la delimitazione ai soli casi di dolo del professionista sanitario dell'esperibilità dell'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa prevista dall'art. 9 della Legge Gelli-Bianco. È opportuno ricordare che tale norma già circoscrive la proponibilità dell'azione in discorso ai casi di dolo o colpa grave con l'obiettivo di fare sì che il carico risarcitorio dei danni da medical malpractice rimanga maggiormente in capo alle strutture piuttosto che gravare sul personale medico: l'emendamento in esame, quindi, avrebbe spinto ancora più in là questo ragionamento con riguardo alla responsabilità derivante dal trattamento di pazienti affetti da Covid-19. Merita di essere solamente accennato, infine, l'emendamento 17.0.1, che proponeva di introdurre nel decreto un nuovo art. 17-bis contenente una disciplina di nuovo indifferentemente rivolta al personale sanitario e alle strutture ospedaliere e caratterizzata da una formulazione letterale alquanto contorta e farraginosa. In particolare risulta veramente difficile comprendere quali potessero essere il significato e le applicazioni pratiche dell'inciso in cui si prevedeva che tutte le prestazioni sanitarie erogate durante l'emergenza, anche non specificamente dirette a contrastare il Covid-19, «sono considerate rese nel legittimo adempimento di un dovere, e in condizioni di forza maggiore e di stato di necessità, anche ove rese con mezzi e secondo modalità non sempre conformi ai normali standard di sicurezza o alle ordinarie procedure sanitarie e amministrative, in quanto giustificate dalla necessità di garantire la continuità dell'assistenza sanitaria e dell'attività amministrativa di supporto ad essa». Da ultimo va segnalato che tra gli emendamenti in esame non sembra esservi traccia di talune soluzioni più incisive ed innovative che circolano tra gli addetti ai lavori, da introdurre eventualmente anche in combinazione tra loro, quali: a) la predisposizione di una disciplina che, sulla falsariga di quanto prevede la l. n. 117/1988 in tema di responsabilità civile dei magistrati, escluda la responsabilità diretta del personale medico per danni da Covid-19 ed attribuisca al danneggiato la facoltà di agire per il risarcimento nei soli confronti dello Stato, lasciando a quest'ultimo la possibilità di rivalersi sul sanitario nei casi di dolo o colpa grave; b) la previsione di un indennizzo a beneficio dei pazienti irreversibilmente lesi dal Covid-19, o dei loro familiari in caso di morte del malato, modellata sulla l. n. 210/1992 in tema di danni da vaccinazioni obbligatorie, emotrasfusioni e somministrazione di emoderivati. |