Ricordo di Franco Cordero
11 Maggio 2020
Nella mesta circostanza della scomparsa di Franco Cordero, la casa editrice Giuffrè Francis Lefèbvre, che ebbe il vanto di annoverarlo tra i suoi più prestigiosi autori, mi ha chiesto di ricordarne la figura e l'opera. Ho accolto la ferale richiesta come un onore inaspettato, e vi ho aderito, pur consapevole che aspirare ad una sintesi, sia pur sommaria, della personalità, scientifica ed umana, di un intellettuale della levatura di Franco Cordero è impresa che si prospetta, alternativamente, vana o impossibile. Impresa vana, perché nessuno che si sia accostato ad una delle sue opere – dal diritto alla politica, dalla filosofia alla storia, dalla narrativa alla teologia – può essersi sottratto alla percezione di un pensiero tanto ampio quanto profondo, trasmesso con uno stile incisivo, rapsodico, incalzante: unico e irripetibile. Ma impresa anche impossibile, perché nessuno può – nemmeno come semplice lettore – reggere il confronto con l'intero orizzonte della sua opera, al cui centro ideale si colloca, per i giuristi, la monumentale Procedura penale, giunta nel 2012 alla nona edizione; ma si tratta solo del centro di una costellazione, quella degli scritti di diritto e di procedura penale, alla quale si affiancano numerose altre, componendo un universo di singolare vastità. Franco Cordero è stato straordinario ricostruttore delle vicende storiche del sistema penale (Riti e sapienza del diritto, 1981; Criminalia – Nascita dei sistemi penali, 1985), storico sociale (La fabbrica della peste, 1984), filosofo del diritto (Gli osservanti – Fenomenologia delle norme, 1967, ristampato nel 2008), teologo (Epistola ai Romani. Antologia del cristianesimo paolino, 1972), storico delle dottrine religiose (Savonarola, in quattro volumi, 1986-1988), ma anche singolare ed atipico romanziere (Genus, 1969; Le masche, 1971; Opus, 1972; Pavana, 1973; Viene il re, 1974; L'opera, 1975; Passi d'arme, 1976; L'armatura, 2007). Non solo questo: Franco Cordero è stato polemista (Risposta a Monsignore, 1970), pubblicista politico su Repubblica, con una fitta serie di contributi raccolti in volumi: Le strane regole del signor B., 2003; Nere lune d'Italia, 2004; Aspettando la cometa, 2008. E non si tratta, peraltro, che di una bibliografia alquanto sommaria; per una indicazione completa delle sue opere servirebbe ben altro che lo spazio di poche righe.
La ‘cifra' singolare di Franco Cordero è costituita dalla circostanza, costante in ciascuna opera, ch'egli è stato giurista, è stato storico, è stato filosofo, è stato teologo, narratore, polemista e molto altro ancora, senza mai essere ridotto o riconducibile, entro i confini di questa o quella disciplina, senza poter mai essere definito secondo una classificazione denotativa. Egli è stato, solidalmente, ciascuna di queste figure scientifiche o intellettuali in ciascuna delle sue opere. Questa poliedricità inesausta sgorga da una capacità illimitata di percorrere una stessa materia lungo più traiettorie e secondo prospettive diversificate, e continuamente intersecate. Il suo basamento poggia su di una cultura letteralmente smisurata nei contenuti, e distillata poi lungo i canali della ricerca, con raffinata sapienza analitica. Sembrano, queste, parole difficili, eppure sono semplici sol che si riscontrino in concreto nei brani in cui Franco Cordero guarda dall'alto del monte le valli che si accinge a percorrere, quasi tracciando l'ordito della ricerca. In Riti e sapienza del diritto, a proposito della natura del diritto: «Qualcosa nel diritto evoca il mostro nato da Pasifae, figlia del Sole, e da un toro: mezza bestia, cresce nel labirinto; anche Themis e Dike sono figure bivalenti, sospese tra abisso e Olimpo; impulsi bradi, legati da astuzie economiche, generano un'«artificial reason», come la chiama Sir Edward Coke, famoso parruccone, vantandone a Giacomo I l'impenetrabilità dai profani. Quante cose contiene questo vaso: acume analitico, loquela avvocatesca, politiche, ingegneria sociale, frode, abilità combinatoria, estro semantico, filologia, desideri, illusioni, filosofemi, aplomb terapeutico, commedia e violenza, naturalmente, più o meno cruda. Notevoli alcune affinità col fenomeno religioso ecclesiasticamente elaborato: in entrambi i luoghi vigono testi individuati da un canone, e dei sapienti li frugano pescando mille contenuti talvolta imprevedibili, ma esiste un monopolio delle cabale; contano solo le parole uscite di bocca a gente segnata.»
E in Criminalia a proposito dei sistemi penali e delle loro origini: «Non è soltanto meccanismo normativo l'ordigno penale ma anche teatro, memoria collettiva, festa catartica, con tanti aspetti ambigui, essendo figure speculari delitto e pena. Questo libro scava negli archetipi e decompone i teoremi, dalla riscoperta delle fonti romane, nove secoli fa, a un codice mai nato, nella Milano fine Settecento. Vi sfilano simboli, arnesi, maschere, un testo labirintico, letture avventurose, enigmi, allusioni, metafore, macchine sintattiche, litanìe farfalline, botteghe dottorali, consessi togati, malaffare leguleio e varia commedia».
Non sarà difficile convenire allora che ogni opera di Franco Cordero si sottrae programmaticamente (si potrebbe dire: geneticamente) ad uno schema aprioristico e a definizioni categoriali, a briglie concettuali e a regole di confine. Inoltre, ognuna di esse sempre rilutta da un pensiero rimasticatorio, che tanta parte costituisce della dimensione ‘scientifica' dello studio giuridico: un assemblaggio più o meno ordinato di tesi, antitesi e precarie sintesi, distese in un universo cadaverico dove la scintilla del pensiero – quando c'è – fatica a far luce. In Franco Cordero non c'è scintilla: c'è invece una gran fiamma sospinta dal vento del pensiero. La lettura dei suoi scritti rappresenta perciò un cimento della ragione, una sfida intellettuale, una messa alla prova del passo su terreni accidentati, suscettibili di mutare all'improvviso, di modo che le prospettive dello sguardo si infittiscono, si diramano, si intersecano, si sovrappongono. Leggere Cordero non è mai un esercizio rilassante; è un'avventura dello spirito, impegnativa fino allo spasimo. I suoi percorsi lungo sentieri di montagna sono tracciati con passo spedito e talora fulmineo, mentre il lettore che s'unisce al viaggio ansima e vacilla: Cordero non accompagna, pungola e trascina.
Questo vale anche per la sua Procedura penale, che solo per pigrizia definitoria può essere considerato un «manuale» mentre ne è piuttosto la negazione. Nelle sue numerose edizioni l'opera cresce come un organismo vivente; ma non si tratta di una crescita quantitativa, quanto piuttosto del dilatarsi progressivo degli orizzonti, di uno scavo incessante: «la procedura penale – scrive Cordero – è materia impura rispetto alle figure quasi geometriche dello stile civilistico, e qui sta la sua vitalità». Al contempo «la buona procedura non dà nell'occhio, parsimoniosa, lineare, chiara, pensata, mentre in Italia l'abbiamo pletorica, invadente, contorta, bigotta, obesa d'imparaticci, vessatoria nelle minuzie, largamente sfruttabile da chicaneurs e scorridori, sicché i sofismi pullulano, tanto da eclissare il merito, aprendo comode vie d'uscita. Il sistema muore autoconsunto. Non s'era mai vista un'entropia così galoppante, nemmeno nel codice del 1913, vissuto 17 anni e quanti più sarebbero stati senza la brutale metamorfosi politica».
Anche quando si occupa di problemi ‘strettamente' giuridici (ma per lui non sono mai ‘esclusivamente' giuridici), Franco Cordero è e resta soprattutto un grande intellettuale, allergico al ruolo di cane da guardia, razza disposta a rendere il medesimo servizio ad ogni cambio di padrone, affettando la custodia della casa; può essere piuttosto nobilmente ascritto al novero dei cani senza padrone, che scelgono dove e con chi combattere, chi difendere, da chi guardarsi. La sua bussola non aveva esitazioni nell'indicare una rotta ispirata ai valori di una civiltà giuridica autenticamente liberale, nutrita tuttavia di una scettica diffidenza verso entusiasmi incontrollati e diversioni ipocrite, che solo una profonda conoscenza della storia può ispirare, e rendere peraltro feconda.
Un atteggiamento, quello di Franco Cordero, piuttosto raro alle nostre latitudini, di cui egli fornì non solo un'ineguagliabile testimonianza intellettuale, ma anche una prova personale, e per così dire, tangibile. Si tratta di una vicenda che lo vide protagonista verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, e che ebbe la sorte di rappresentare una delle battaglie combattute in Italia in nome e in difesa della laicità dello Stato: una vicenda per l'appunto personale, ma così come fu personale, ad esempio, la vicenda di Giordano Bruno. Per buona sorte, Franco Cordero non fu arso sul rogo di nessun Campo de'fiori: altri tempi, altri contesti. Ma fecero quel che poterono, e non fu poco.
I tratti essenziali della storia si trovano riassunti da Cordero stesso, nel 2006, su Repubblica del 4 giugno. Val la pena di riascoltare le sue parole: «l'arte del pensare costa fatica e implica dei rischi. In materia ho sperimentato varie cose meritevoli d'un cenno perché smentiscono dei luoghi comuni: ad esempio, che il passato cattolico imponga chiavarde alle idee; e fuori spirino atmosfere laiche (a parte cittadelle illo tempore marxiste dove gli ecclesiocrati pontificano ancora). La mia cattedra alla Cattolica data dall'Ognissanti 1960: procedura penale, materia tecnica se ve n'è una; sono forestiero; nessuno m'ha chiesto professioni di fede, meno che mai giuramenti; e tutto seguiterebbe de plano se due anni dopo la Facoltà non m'affibbiasse anche la filosofia del diritto, meno neutrale. Nessuno s'aspetta filastrocche edificanti: il clou del mio corso è una teoria generale del diritto; gli scolari studiano Hans Kelsen, efferato anti-ideologo; e leggono un lieve diversivo storico sull'idea del diritto naturale. Buona scelta didattica, ma le antipatie pulsano persino tra gli apostoli o intorno alla Tavola Rotonda, figurarsi nelle Facoltà universitarie: due o tre colleghi impugnano l'arnese confessionale; bisbigli santimoniosi deplorano il taglio profano delle lezioni. Allora passo alla scrittura pescando nella magnifica biblioteca: non vi manca niente, inclusi i testi sulfurei, fuori d'ogni cautela censoria; e nascono Gli osservanti, 679 pagine, una traversata nel «dover essere»; esploro lessico, grammatica, sintassi, storie d'idee, proiezioni teoriche, fondi viscerali, nemmeno sfiorato dal sospetto d'essere caduto nell'infandum (cose da non dire): va detto tutto; chi dissente spieghi dove ho sbagliato e come. Vigono regole del pensiero o no? Due esperienze mi disilludono». Le due esperienze si riferiscono alla (vana) ricerca di un editore, caratterizzata da melliflue ipocrisie e squallide diversioni, finché Cordero non si rivolge all' «editore della Procedura penale», cioè a Giuffrè, presso il quale, senza esitazioni «il libro appare verso Natale, sotto una copertina illustrata da Hieronymus Bosch, Trittico del fieno. Ne dedico una copia all'archimandrita laico, stupito: non se l'aspettava così presto; «bello». Ovvio che ne parli al pubblico. Nossignori, silenzio arcigno, condiviso dai cultori della materia e affini. Nell'Università circola tranquillamente, l'anno dopo diventa testo ufficiale. Quei due o tre soffiano nel fuoco. Libro vissuto, Gli osservanti incubavano un lungo discorso […]. Lo scandiscono ventidue titoli: il primo è un malinconico e freddo scherzo narrativo, «Genus», dove racconto quel che avverrà, confidando nell'effetto esorcistico, ancora illuso, perché siamo automi regolati come pendole. I fuochisti agiscono, tali e quali li avevo dipinti: un vescovo presidente dell'Istituto finanziatore, incauto, s'è fatto coinvolgere; dopo due anni mi comunica un piccolo anatema; il lettore «intelligente non so come possa conservare la fede cattolica o almeno» schivare «gravi difficoltà», contro le quali non fornisco soccorsi. Tocca a me fornirli? Nasce da lì Risposta a Monsignore. La filosofia del diritto passa in mani pie e io insegno procedura penale, finché la competente Congregazione vaticana revoca il nulla osta. Causa al Consiglio di Stato: interloquisce la Consulta, nel senso che abbiano vicoli dottrinali i docenti delle università confessionali riconosciute dallo Stato; uno dei giudici, impavido, le paragona alle scuole dei partiti (uomo d'umori ondivaghi, ormai reazionario arrabbiato, veniva da Pnf e Pci). Sono inamovibile dalla cattedra ma non tengo lezione, un'afasia quadriennale…».
La battaglia di Franco Cordero infiammò gli animi di quanti speravano in un'occasione favorevole per ridefinire i rapporti tra Repubblica italiana e Santa Sede in una materia tanto delicata e sensibile quale quella della libertà di insegnamento. Ricordo ancora la trepidante attesa delle ultime notizie sulla vicenda, che l'Espresso d'allora anticipava nei titoli cubitali del suo ciclopico formato. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 195 del 1972, chiuse la vicenda respingendo ogni censura. La chiuse per modo di dire, ovviamente: a Franco Cordero toccarono quelli che lui stesso definisce quattro anni di «afasia». Non fu possibile avviarlo alla stessa triste fine di Ernesto Buonaiuti che «irretito da censura» fu privato per sempre dell'insegnamento (e il ‘sempre' include anche il periodo successivo al crollo del fascismo). Franco Cordero ha potuto per nostra fortuna continuare a far sentire la sua voce, ed è una voce che continueremo ad ascoltare anche dopo la sua scomparsa e per lungo tempo ancora: almeno finché sia serbata memoria degli spiriti magni. |