Sanzioni tributarie ed enti societari tra prassi applicative e questioni aperte

Simone Marzo
12 Maggio 2020

La scelta di fondo operata dal legislatore in occasione della revisione organica della disciplina delle sanzioni tributarie non penali operata negli anni 1996-1997 fu orientata all'introduzione di un regime di marca sostanzialmente penalistica, nell'ambito del quale anche la sanzione amministrativa fosse caratterizzata dalla natura afflittiva tipica di quella penale; ciò, peraltro, in linea con quanto era già avvenuto con riferimento alle sanzioni amministrative in generale, per effetto della codificazione dei principi generali applicabili in materia ad opera della Legge n. 24 novembre 1981, n. 689.
Le sanzioni tributarie ed il principio di personalità

La scelta di fondo operata dal legislatore in occasione della revisione organica della disciplina delle sanzioni tributarie non penali operata negli anni 1996-1997 fu orientata all'introduzione di un regime di marca sostanzialmente penalistica, nell'ambito del quale anche la sanzione amministrativa fosse caratterizzata dalla natura afflittiva tipica di quella penale; ciò, peraltro, in linea con quanto era già avvenuto con riferimento alle sanzioni amministrative in generale, per effetto della codificazione dei principi generali applicabili in materia ad opera della Legge n. 24 novembre 1981, n. 689.

Tra i principi propri dell'ordinamento penalistico che avrebbero dovuto conformare anche il sistema sanzionatorio tributario non penale vi è quello della personalità il quale, nella sua accezione più tradizionale, impone la necessaria riferibilità dell'illecito e della conseguente sanzione alla sola persona fisica autrice della violazione; ciò vuol dire, in sostanza, che la sanzione tributaria non penale avrebbe dovuto colpire soltanto la persona fisica, che fosse capace di intendere e di volere, e che avesse materialmente posto in essere, con dolo o colpa, la condotta illecita.

La legge delega n. 662/1996, sul punto, era molto chiara: l'art. 1, comma 133, primo comma, lett. b), disponeva infatti che, nel riformare la disciplina in tema di sanzioni tributarie non penali, il Governo avrebbe dovuto prevedere la “riferibilità della sanzione alla persona fisica autrice o coautrice della violazione secondo il regime del concorso adottato dall'art. 5 della legge 24 novembre 1981, n. 689”, nonché la “intrasmissibilità dell'obbligazione per causa di morte”.

Con altrettanta chiarezza, i criteri direttivi appena indicati hanno apparentemente trovato attuazione nel corpo del D.lgs. n. 472/1997: l'art. 2, secondo comma, prevede infatti che “La sanzione è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione”; l'art. 5, comma 1, primo periodo, dispone inoltre che “Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”; infine, l'art. 8 del medesimo decreto sancisce che “L'obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi”.

Il principio di personalità e le violazioni commesse nell'interesse di società

È intuibile come la rigorosa attuazione del principio di personalità avrebbe inevitabilmente sollevato rilevanti questioni per l'eventualità che la violazione si inserisse nel rapporto tributario facente capo a soggetti diversi dalle persone fisiche. In un contesto normativo ispirato al principio di personalità, infatti, il comportamento sanzionato non può essere riferito se non ad un essere umano, secondo il tradizionale principio per cui “societas delinquere non potest”.

Con riguardo ad illeciti tributari commessi nell'interesse delle società (e, più in generale, degli enti), l'applicazione del principio di personalità avrebbe dunque implicato una necessaria distinzione tra la posizione del contribuente, estraneo alle conseguenze dell'illecito, e quella del trasgressore, nei cui soli confronti avrebbe invece dovuto indirizzarsi la risposta sanzionatoria prevista dalla legge.

In realtà occorre tener presente che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale [si vedano, fra le tantissime, Corte Cost., ord. 30 aprile 2008, n. 125; ord. 4 luglio 2008, n. 256; sent. 5 luglio 2002, n. 319], l'ambito di rilevanza del principio di personalità della pena ritraibile dall'art. 27 Cost. è circoscritto dalla alle sole sanzioni penali in senso stretto; la scelta di trasporre tale principio nel settore dell'illecito amministrativo in generale, ed in quello tributario in particolare, dunque, non poteva ritenersi doverosa sotto il profilo costituzionale.

Ciò ha consentito che, già nell'originario impianto del D.lgs. n. 472/1997, fossero introdotti nel sistema elementi di ambiguità tali da potervi intravedere una certa “diluizione” della matrice personalistica della sanzione tributaria non penale. Tali elementi possono in effetti essere individuati non solo nelle norme che estendono a terzi la responsabilità per l'adempimento della sanzione amministrativa (norme di tale genere esistono, peraltro, anche nell'ordinamento penalistico; cfr. gli artt. 196 e 197 c.p.), ma anche e soprattutto in quelle che limitano la possibilità per il terzo responsabile di agire in regresso nei confronti dell'autore materiale della violazione.

Tanto era infatti originariamente disposto dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 472/1997, e continua tuttora ad essere previsto dal riformulato art. 11, primo comma, del medesimo decreto, anche con specifico riguardo alle sanzioni conseguenti a violazioni commesse nell'interesse di società o enti.

Il primo periodo del menzionato art. 11, primo comma, d.lgs. n. 472/1997, infatti, prevede tuttora che “Nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa […] dal dipendente o dal rappresentante o dall'amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell'esercizio delle sue funzioni o incombenze”, la società, l'associazione o l'ente nell'interesse dei quali ha agito l'autore della violazione “sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso secondo le disposizioni vigenti”; il secondo periodo del medesimo comma, inoltre, dispone che “Se la violazione non è commessa con dolo o colpa grave, la sanzione […] non può essere eseguita nei confronti dell'autore, che non ne abbia tratto diretto vantaggio, in somma eccedente euro 50.000, […] salva, per l'intero, la responsabilità prevista a carico […] della società, dell'associazione o dell'ente”.

In sintesi, per l'ipotesi in cui la violazione tributaria sia stata commessa nell'interesse di una società, l'art. 11, primo comma, d.lgs. n. 472/1997 (riproducendo quanto originariamente sancito dall'art. 5, comma 2, dello stesso decreto) prevede che la persona fisica autrice della violazione possa rispondere a titolo sanzionatorio soltanto entro il limite massimo stabilito ex lege ed attualmente fissato in € 50mila, salvo il caso in cui la violazione sia stata commessa con dolo o colpa grave; contestualmente, la società nel cui interesse è stata commessa la violazione risponde sempre per l'intera sanzione irrogata, senza possibilità di rivalersi sull'autore dell'illecito se non entro lo stesso limite fissato dalla legge come soglia massima per la sua responsabilità sanzionatoria (e salvo in ogni caso l'ipotesi del dolo o della colpa grave del trasgressore).

Istituendo un meccanismo in forza del quale l'onere economico della sanzione può concretamente restare a carico di un soggetto diverso dalla persona fisica autrice dell'illecito, tali norme (tuttora vigenti, salvo quanto si vedrà tra breve) costituiscono evidentemente una rilevante deviazione dal principio della personalità della sanzione strettamente inteso.

Una deviazione ancora più clamorosa dall'anzidetto principio si è poi concretizzata per effetto della successiva previsione recata dall'art. 7, primo comma, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in l. 24 novembre 2003, n. 326, il quale dispone testualmente che “Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”.

Tale norma pone infatti l'intero onere delle sanzioni direttamente ed unicamente a carico della società o dell'ente personificato nel cui interesse sono state commesse le violazioni, senza alcuna possibilità di rivalersi sull'autore dell'illecito, nemmeno nelle ipotesi in cui questi abbia agito con dolo o colpa grave.

La novella del 2003 assume un notevole ha assunto un notevole rilievo sia sul piano sistematico, ponendo seriamente in dubbio l'effettiva vigenza nel sistema sanzionatorio tributario non penale del principio di personalità, sia sul terreno applicativo, in pratica configurando un “doppio binario” nell'applicazione delle sanzioni tributarie non penali conseguenti a violazioni commesse nell'interesse di società: per le violazioni relative al “rapporto fiscale proprio” delle società di capitali o cooperative, l'unico soggetto responsabile resta la società medesima, con totale estraneità della persona fisica autrice della violazione rispetto alle conseguenze sanzionatorie del proprio illecito; per le violazioni commesse nell'interesse di società sfornite di personalità giuridica, invece, continua a trovare applicazione il macchinoso regime di corresponsabilità delineato dall'art. 11, d.lgs. n. 472/1997.

Tale duplice regime, sulla cui ragionevolezza è lecito avanzare più di qualche dubbio, impone una disamina distinta delle due fattispecie, emergendo con riguardo a ciascuna di esse alcune peculiari questioni che meritano di essere esaminate.

Sanzioni tributarie e società di capitali

La norma recata dall'art. 7, D.L. n. 269/2003 ha risolto in modo netto il problema relativo all'imputazione delle sanzioni tributarie non penalirelative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica”, sovvertendo completamente la regola che avrebbe dovuto trarsi dall'applicazione del principio di personalità ancora solennemente enunciato dall'art. 2, secondo comma, d.lgs. n. 472/1997 e prevedendo, come visto, l'esclusiva responsabilità della società o dell'ente nel cui interesse è stata commessa la violazione.

Data la formulazione della previsione normativa in oggetto, la regola che se ne trae non sembra poter subire alcuna eccezione, nemmeno nell'ipotesi in cui la violazione di cui si tratta sia stata commessa da un soggetto qualificabile come amministratore di fatto della società. A tale specifico riguardo, invero, il rinvio operato dal terzo comma dell'art. 7, d.lgs. n. 269/2003 (“Nei casi di cui al presente articolo le disposizioni del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, si applicano in quanto compatibili”) alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 472/1997, ha fornito lo spunto all'Amministrazione Finanziaria per sostenere che l'amministratore di fatto della società personificata potesse essere reso destinatario della sanzione insieme alla stessa società, a titolo di concorso nell'illecito ex art. 9, d.lgs. n. 472/1997 (“Quando più persone concorrono in una violazione, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa disposta. Tuttavia, quando la violazione consiste nell'omissione di un comportamento cui sono obbligati in solido più soggetti, è irrogata una sola sanzione e il pagamento eseguito da uno dei responsabili libera tutti gli altri, salvo il diritto di regresso”); secondo tale tesi, infatti, “la disposizione [cioè l'art. 7, d.lgs. n. 269/2003; n.d.a.] mira ad escludere dalla sanzione i legali rappresentanti e gli amministratori legittimi della società, nonché i dipendenti della stessa, in quanto organi dell'ente, ma non può essere certo letta come “scudo” per chi, come gli amministratori di fatto, “agisce nell'ombra” [così, nel ripercorrere la doglianza proposta dalla difesa erariale, Cass., sez. V, ord. 25 ottobre 2017, n. 25284].

Sinora, la Cassazione ha però giustamente respinto tale ricostruzione, rilevando da un lato come l'art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003 non operi nessun distinguo a seconda che l'ente personificato sia o meno gestito da un amministratore di fatto e, dall'altro, che una diversa soluzione non può essere desunta dalla norma in tema di concorso di persone nella violazione, risultando quest'ultima incompatibile con la novella del 2003 [cfr., Cass., sez. V, ord. 25 ottobre 2017, n. 25284; Cass., sez. V, sent. 7 novembre 2018, n. 28331]. A tale ultimo riguardo, occorre aggiungere che l'art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003 non opera alcuna distinzione nemmeno tra l'ipotesi in cui la violazione commessa da una sola persona fisica e quella in cui sia compiuta da più persone fisiche in concorso tra loro, disponendo in ogni caso l'imputazione soggettiva della sanzione alla sola società personificata. In tale contesto, non dovrebbe pertanto essere attributo alcun rilievo al l'eventualità che la violazione sia commessa con il concorrente apporto causale di un soggetto in capo al quale possa essere riconosciuta la qualifica di amministratore di fatto.

Per effetto della disposizione più volte richiamata, è dunque venuta meno qualunque riferibilità alle persone fisiche agenti per le violazioni commesse nell'interesse di persone giuridiche. Ciò ha tuttavia posto il problema di verificare la perdurante applicabilità delle altre numerose regole enunciate dal d.lgs. n. 472/1997 che sono connotate in chiave fortemente personalistica, come quelle in tema di imputabilità e colpevolezza, quelle relative alle cause di non punibilità oppure quelle riguardanti la concreta determinazione della sanzione da irrogare.

Escludendo che, per le violazioni tributarie commesse nell'interesse delle persone giuridiche, la novella del 2003 abbia inteso introdurre un sistema di responsabilità di tipo puramente oggettivo, al riguardo sembra invece ragionevole ritenere che tali norme debbano essere applicate avendo comunque riguardo alla persona fisica autrice della violazione, anche se la stessa non potrà essere concretamente attinta dalla sanzione.

Si potrà forse dubitare di un assetto normativo in virtù del quale l'an ed il quantum della risposta sanzionatoria rispetto a una determinata condotta illecita vengono determinati sulla base del comportamento e delle condizioni personali di un soggetto (l'autore materiale dell'illecito) diverso da quello destinato a subire la sanzione; d'altro canto, tale soluzione appare quella meno distonica rispetto ai principi ispiratori del sistema sanzionatorio tributario dettato dal d.lgs. n. 472/1997, cui anche l'art. 7, d.l. n. 269/2003 rinvia, seppure nei limiti della verifica di compatibilità.

Sanzioni tributarie e società di capitali “costituite artificiosamente”

Si è detto nel paragrafo precedente che la regola enunciata dall'art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003 non sembra soffrire alcuna eccezione.

Occorre tuttavia ricordare che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, l'estromissione della persona fisica agente da ogni responsabilità sanzionatoria connessa alla violazione relativa al rapporto fiscale facente capo ad un società personificata presuppone, pur sempre, che tale persona fisica abbia agito nell'interesse ed a beneficio della società rappresentata o amministrata; ed infatti, secondo la giurisprudenza, “solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l'autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore” [così, da ultimo, Cass., sez. V, ord. 9 maggio 2019, n. 12334].

Tale considerazione porta la stessa giurisprudenza ad escludere che la regola di cui all'art. 7, primo comma, D.L. n. 269/2003 possa operare anche a vantaggio del rappresentante o dell'amministratore di società personificate che abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, “utilizzando l'ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio”; in questi casi, dunque, “viene meno la ratio che giustifica l'applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell'illecito” [così, ancora, Cass., sez. V, ord. 9 maggio 2019, n. 12334; conformi, Cass., sez. VI-5, ord. 28 gennaio 2020, n. 1904; Cass., sez. VI-5, ord. 18 aprile 2019, n. 19075: “ha sostenuto questa Corte che “il menzionato art. 7 intende regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente, e, in particolare, l'ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, compie violazioni nell'interesse della persona giuridica medesima”, ma non nel caso in cui la persona fisica sia “esclusivo beneficiario delle violazioni contestate”, nel qual caso “non sussiste detta differenza, atteso che quest'ultimo è, al tempo stesso, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera fictio, creata nell'esclusivo interesse della persona fisica” (Cass. n. 19716 del 2013, in motivazione; conf. Cass. n. 5924 del 2017, in motivazione)”; Cass., sez. V; sent. 7 novembre 2018, n. 28331; Cass., sez. V, sent. 8 marzo 2017, n. 5924; Cass., sez. V, sent. 28 agosto 2013, n. 19716].

L'orientamento giurisprudenziale in parola è chiaramente ispirato dall'esigenza di contrastare, anche in materia tributaria, quei fenomeni di “abuso della personalità giuridica” ormai molto noti in altri settori dell'ordinamento. Quanto ai presupposti al ricorrere dei quali il principio sancito dalla Cassazione è destinato ad operare concretamente, nelle pronunce sopra citate i Giudici di legittimità fanno riferimento alla natura fittizia della persona giuridica, ed al suo essere “costituita artificiosamente”, nell'interesse esclusivo della persona fisica agente.

Ancorché non esplicitato testualmente, il senso di tali indicazioni appare chiaro: l'art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003 non può operare, in definitiva, quando la società personificata sia finalizzata soltanto alla precostituzione di uno “schermo o paravento” ideato per sottrarre l'autore della violazione tributaria delle conseguenze sanzionatorie che, in mancanza di tale artificio, lo avrebbero colpito.

È evidente, d'altro canto, come la concreta sussistenza di tali condizioni non possa che essere valutata cum grano salis, alla luce dello specifico contesto fattuale nel quale si inserisce la commissione dell'illecito.

Estinzione delle società di capitali e intrasmissibilità delle sanzioni?

Trattando dell'applicazione delle sanzioni tributarie non penali a carico delle società dotate di personalità giuridica viene in rilievo un'altra delicata questione, attinente alla responsabilità per il pagamento delle sanzioni successivamente all'estinzione delle società.

Il problema ha ragione di porsi in virtù del riconoscimento, ad opera dell'art. 2495 c.c. (come riformulato in occasione della riforma del diritto societario del 2003), dell'efficacia costitutiva della cancellazione delle società personificate dal registro delle imprese, nonché dei successivi arresti giurisprudenziali che hanno chiarito la sorte degli eventuali rapporti giuridici non esauriti al momento della cancellazione, individuando in tali fattispecie “un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l'obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali” [così, Cass., SS.UU., sent. 12 marzo 2013, n. 6070, richiamata da ultimo, proprio in materia tributaria, da Cass., sez. V, ord. 21 giugno 2019, n. 16721; nello stesso senso, tra le più recenti, Cass., sez. V, ord. 17 maggio 2019, n. 13386; Cass., sez. V; sent. 24 febbraio 2017, n. 4778. In ambito tributario il principio affermato dalla Suprema Corte deve peraltro essere coordinato con la norma (molto controversa) dettata dall'art. 28, comma 4, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, a mente del quale “Ai soli fini della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all'art. 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese”].

A prima lettura, il meccanismo lato sensu successorio delineato dalla giurisprudenza di legittimità potrebbe apparire in contrasto con il principio sancito dall'art. 8, D.lgs. n. 472/1997, a mente del quale “L'obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi”.

Ed in effetti, seppure in un isolato precedente [Cass., sez. V, sent. 7 aprile 2017, n. 9094], la Suprema Corte si è espressa proprio in tal senso, richiamando l'art. 8, D.lgs. n. 472/1997 ed affermando che “tale principio assume viepiù rilevanza, ove si consideri che il D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 7, comma 1, convertito con L. 24 novembre 2003, n. 326, ha introdotto il canone della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie”. Tali lapidarie affermazioni della Cassazione, accolte positivamente da una parte della dottrina, destano tuttavia alcune perplessità.

È pacifico in dottrina, ed è espressamente ribadito dagli stessi giudici di legittimità nella pronuncia in commento [ove si legge che “L'estinzione della società ha determinato difatti l'intrasmissibilità della sanzione (arg. del D.Lgs. n. 472/1997, ex art. 8), regola che costituisce corollario del principio della responsabilità personale, codificato nell'art. 2, comma 2 del medesimo decreto, sia ai soci, sia al liquidatore”], che la regola dell'intrasmissibilità agli eredi di cui all'art. 8, d.lgs. n. 472/1997 costituisca un corollario del principio di personalità che, in origine, ispirava il sistema sanzionatorio tributario nel suo complesso.

La ragione principale per cui l'art. 8, d.lgs. n. 472/1997 si riferisce soltanto agli eredi, e non anche agli “aventi causa” dalle società estinte, risiede dunque proprio nello stretto collegamento di tale norma con il principio di personalità: l'art. 2, secondo comma, D.lgs. n. 472/1997, come visto, prevedeva (e prevede tuttora) che “La sanzione è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione”; non vi era quindi alcun motivo per disporre l'eventuale intrasmissibilità delle sanzioni agli “eredi” delle società estinte, dato che nei confronti delle società non avrebbe potuto comminarsi alcuna sanzione.

In tal senso è significativo anche il fatto che la responsabilità solidale prevista a carico degli enti nel cui interesse sia stata commessa la violazione non abbia ad oggetto l'obbligazione sanzionatoria propriamente detta, ma il “pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata” [così l'art. 11, primo comma, d.lgs. n. 472/1997], cioè un'obbligazione prevalentemente ritenuta di natura civilistica, sulla cui trasmissibilità agli aventi causa dall'ente estinto non sembra esservi alcun dubbio.

Da quanto sin qui rilevato dovrebbero già evincersi le ragioni di perplessità suscitate dalla pronuncia di legittimità richiamata in precedenza. Per effetto di quanto previsto dall'art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003, le sanzioni correlate a violazioni commesse nell'interesse delle persone giuridiche non soggiacciono al principio di personalità, quantomeno nell'accezione relativa all'individuazione del soggetto verso cui indirizzare la risposta sanzionatoria all'illecito contestato. Con riguardo alle persone giuridiche, in altri termini, l'art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003 ha condotto alla disapplicazione della regola sancita dall'art. 2, secondo comma, D.lgs. n. 472/1997.

Se quanto detto è vero, diviene anche legittimo il dubbio che nei confronti delle società personificate possa trovare applicazione la regola dell'intrasmissibilità delle sanzioni prevista dall'art. 8 del medesimo decreto, che del principio di personalità costituisce un corollario. Si potrebbe in altri termini ritenere che, una volta venuta meno la stretta applicazione del principio di personalità, per le violazioni commesse nell'interesse di persone giuridiche venga meno anche l'applicabilità del principio di intrasmissibilità delle sanzioni; in tale prospettiva, le obbligazioni gravanti sulla società a titolo propriamente sanzionatorio ex art. 7, primo comma, d.l. n. 269/2003, potrebbero soggiacere al medesimo meccanismo successorio affermato dalla giurisprudenza di legittimità con generico riferimento a qualsiasi situazione giuridica soggettiva attiva e passiva facente capo alla società estinta.

D'altro canto, non sarebbe nemmeno ben chiaro il senso dell'esclusione della trasmissibilità di un'obbligazione sanzionatoria che, già di per sé, è fisiologicamente destinata a gravare su un soggetto (la società) diverso dal trasgressore (la persona fisica autrice della violazione). Posto che la ratio sottesa al principio di intrasmissibilità è quella di assicurare che la sanzione colpisca soltanto l'autore della violazione, l'art. 7, primo comma, D.L. n. 269/1997 tradisce tale finalità già nel momento in cui esclude la sanzionabilità dell'autore della violazione commessa nell'interesse di una persona giuridica; non sembra quindi esservi più alcun motivo per “recuperare” la regola dell'intrasmissibilità delle sanzioni per l'ipotesi di estinzione della persona giuridica.

Sanzioni e società di persone

L'espresso riferimento dell'art. 7, primo comma, D.L. n. 269/2003 ai soli enti e società con personalità giuridica ha dato luogo, come detto in precedenza, ad un regime sanzionatorio differenziato per le società dotate di personalità giuridica (società di capitali e cooperative) e per le società di persone, le quali come noto sono sfornite di tale connotazione; mentre, con riguardo alle prime, è previsto che la risposta sanzionatoria si appunti esclusivamente sull'ente, per le seconde continua a trovare applicazione il meccanismo, per certi versi macchinoso, tuttora delineato dall'art. 11. D.Lgs. n. 472/1997. Dell'obbligazione gravante ex art. 11, primo comma, D.Lgs. n. 472/1997 sulla società, rispondono certamente i soci, sia durante societate che successivamente all'estinzione delle stesse, secondo le regole dettate dal codice civile per ciascun tipo sociale e senza che al riguardo sorgano particolari questioni.

Occorre tuttavia ricordare che, per i redditi delle società di persone, l'art. 5, primo comma, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) prevede il sistema di tassazione c.d. “per trasparenza”, in virtù del quale i redditi prodotti da tali società “sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili” e sono dunque tassati in capo ai soci medesimi.

Atteso l'operare di tale meccanismo, è chiaro che l'eventuale accertamento di un maggiore reddito in capo alla società sia destinato ad incidere direttamente sulla posizione fiscale di ciascun singolo socio, conducendo all'accertamento di un maggiore reddito imponibile anche nei loro confronti. Guardando al versante sanzionatorio della vicenda, in definitiva, dalla condotta tenuta dagli amministratori della società può scaturire la commissione di un illecito tributario da parte dei soci.

L'eventualità sopra descritta pone il problema di individuare gli eventuali limiti alla sanzionabilità delle violazioni contestate ai soci di società di persone in dipendenza dall'accertamento di maggiori redditi prodotti in forma associata.

La giurisprudenza di legittimità è stata ripetutamente chiamata ad affrontare tale problema, soprattutto con riguardo alla posizione del socio accomandante, e lo ha sin qui sempre risolto facendo applicazione di un rigore a tratti eccessivo. La Suprema Corte ha infatti costantemente riconosciuto la punibilità del socio per la violazione “derivata” dall'accertamento di maggiore reddito effettuato in capo alla società, rimarcando l'irrilevanza a tali fini della estraneità dello stesso all'amministrazione della società “in quanto ad essi è sempre consentito di verificare l'effettivo ammontare degli utili conseguiti” ed affermando che in siffatte ipotesi la colpa del socio consisterebbe “nell'omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sull'esattezza dei bilanci della società” [così, Cass., sez.VI-5, ord. 28 giugno 2019, con riguardo ad un socio accomandante di società in accomandita semplice, ove si richiama la precedente Cass., sez. V, ord. 28 giugno 2017, n. 16116; sempre in relazione alla posizione del socio accomandante, Cass., sez. VI-5, ord. 21 settembre 2017, n. 22011, da cui molteplici ulteriori richiami; Cass., sez. V, sent. 29 ottobre 2010, n. 22122; Cass., sez. V, sent. 14 maggio 2014, n. 10501].

La giurisprudenza, in sostanza, imputa al socio (anche se non amministratore) una sorta di culpa in vigilando idonea a fondarne la sanzionabilità, che si concretizzerebbe nella carenza di una previa verifica di veridicità dei dati reddituali comunicati dalla società. In realtà, appare evidente come l'orientamento giurisprudenziale in commento finisca per configurare una sorta di responsabilità “da posizione”, assai prossima ad una forma di responsabilità di tipo oggettivo, senza che sia in ciò ravvisata alcuna violazione del canone della colpevolezza connaturato ad un sistema punitivo nel quale si vorrebbe ancora individuare una forte impronta penalistica. Si tratta, peraltro, di un indirizzo interpretativo assolutamente univoco, rispetto al quale non sembra ragionevole attendersi alcun ripensamento da parte dei giudici di legittimità.

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