Dispositivi di protezione individuali, sicurezza sui luoghi di lavoro e lavoro in remoto ai tempi del covid - 19
18 Maggio 2020
I dispositivi di protezione individuali e la disciplina dei cd. “rider” alla luce dei decreti della sez. lav. Trib. Firenze (1 aprile 2020) e della sez. lav. Trib. Bologna (14 aprile 2020)
Nel generale disorientamento che ha colpito anche il mondo delle imprese e del lavoro privato chiamato a fronteggiare un'emergenza epocale i cui effetti si protrarranno negli anni a venire, cui le pubbliche autorità hanno dato risposta con svariati interventi sia di carattere normativo che amministrativo, tanto copiosi da auspicarne la riunione ed il coordinamento in un novello Testo Unico del Covid 19, si fanno strada alcuni punti fermi frutto sia dell'elaborazione giurisprudenziale di merito, sia della collaborazione attiva tra parti sociali, sicuramente utili a tracciare, prima facie, la strada da percorrere per riaprire in sicurezza le attività produttive e tornare tutti al lavoro ed alla produzione. Tra le prime, si segnalano due pronunciamenti di merito delle sezioni lavoro, l'uno del Tribunale di Firenze del 1 aprile 2020, l'altro del Tribunale di Bologna del 14 aprile 2020, in materia di dispositivi di sicurezza individuali. Entrambi i Giudici del lavoro sono stati chiamati a pronunciarsi in via cautelare sui ricorsi promossi da lavoratori del settore del recapito a domicilio di alimenti e cibi da asporto per conto di esercizi convenzionati con note piattaforme digitali, i cd. “rider”, la cui attività è stata, peraltro, oggetto di recente specifica disciplina con l'introduzione del capo V bis nel decreto legislativo 81/2015.
In particolare, il Giudice del Lavoro di Firenze ha riconosciuto che detta tipologia di lavoro «pur qualificabile come autonomo ... può ricondursi a quelle disciplinati dall'art. 2 del d. lgs. 81/2015». Viene infatti richiamata la sentenza della Cassazione n. 1663/2020 la quale tuttavia non teneva conto, giocoforza, ratione temporis, della novella post riforma del 2019. Infatti attualmente l'art. 2 del d. lgs. 81/2015 recita «A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”, nella versione della norma». Con il che rafforzandosi l'ipotesi di sussunzione di detta tipologia di prestazione lavorativa nel campo della subordinazione più che del lavoro autonomo. Ad ogni buon conto non è tanto il tema del carattere subordinato o meno della prestazione lavorativa di “rider” a rilevare, dal momento che proprio il novello capo V bis del d.lgs. 81/2015 all'art. 47 septies prevede esplicitamente che i lavoratori addetti alla consegna a domicilio di cibi e alimenti iscritti a piattaforme digitali «sono comunque soggetti alla copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali prevista dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 ... Il committente che utilizza la piattaforma anche digitale è tenuto nei confronti dei lavoratori di cui al comma 1, a propria cura e spese, al rispetto del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81», quanto, piuttosto, il fatto che venga riconosciuto in capo al committente e vieppiù al datore di lavoro l'obbligo di fornire al lavoratore gli strumenti di protezione individuale per fronteggiare il rischio di contagio da Covid - 19. Infatti, al di là della qualificazione della prestazione di lavoro come autonoma o subordinata, il Tribunale di Firenze ha riconosciuto in via cautelare, comunque, in capo alla società titolare della piattaforma digitale l'obbligo di fornire al lavoratore dispositivi di protezione individuali quali mascherina individuale, guanti monouso, gel disinfettanti e prodotti a base alcolica per la pulizia dello zaino, dal momento che «sussiste il pregiudizio imminente e irreparabile, in quanto la protrazione dell'attività di lavoro in assenza dei predetti dispositivi individuali di protezione potrebbe esporre il ricorrente, durante tutto il tempo occorrente per la pronuncia di merito a pregiudizi anche irreparabili del diritto alla salute». Il cd. virus Covid - 19, l'attuale emergenza epidemiologica, vengono quindi riconosciuti come rischio incombente per la salute del lavoratore e comportante l'obbligo, ai sensi del T. U. 81/2008, di fornire allo stesso da parte del datore di lavoro gli strumenti di protezione individuale che allo stato vengono riconosciuti come funzionali ad evitare il contagio, secondo la definizione che il T. U. all'art 74 fornisce: «Ai fini del presente decreto si intende per dispositivo di protezione individuale, di seguito denominato «DPI», qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo». Fin qui il Giudice di Firenze. Il Giudice di Bologna, invece, richiama il decreto del collega fiorentino compiendo ulteriori passi avanti. In particolare, il magistrato del lavoro felsineo, in caso sostanzialmente analogo, segue sì l'iter logico argomentativo già qui sommariamente ricostruito, ma tiene conto anche della richiamata novella legislativa del 2019, che richiede l'applicazione ai lavoratori iscritti a piattaforme digitali della normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. Il secondo ulteriore passo avanti, di particolare interesse, consiste nel seguente passaggio del decreto bolognese: «osservato da ultimo con specifico riferimento alla normativa emergenziale dettata in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid - 19 che il DPCM 11.03.2020, che ha disposto sull'intero territorio nazionale la sospensione delle attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie), ha consentito la prosecuzione della sola ristorazione con consegna a domicilio “nel rispetto delle norme igienico sanitarie sia per l'attività di confezionamento che di trasporto, con ciò implicitamente onerando l'imprenditore di provvedere a garantire il richiesto rispetto delle prestazioni igienico-sanitarie previste per l'attività di trasporto e consegna a domicilio del cibo e ciò a tutela della salute non solo degli operatori, ma anche dell'utenza del servizio e, con essa, della collettività intera; che nel novero delle prescrizioni igienico-sanitarie appare ragionevolmente ricompreso l'uso dei dispositivi di protezione individuale, quali guanti, mascherini e prodotti igienizzanti, di cui peraltro il citato DPCM raccomanda l'adozione nell'ambito di tutte le attività produttive e che appaiano vieppiù necessarie nello svolgimento di quelle attività che comportano il contatto con il pubblico». Il passaggio è di particolare interesse in quanto afferma che in costanza di emergenza epidemiologica comportante un rischio non intrinsecamente legato alla prestazione lavorativa - se non in termini probabilistici per la maggiore probabilità di contagio, stante il più elevato numero di occasione di contatto sociale - il rispetto degli obblighi in materia di sicurezza e igiene sul lavoro posti a tutela della salute del lavoratore, come la fornitura degli individuati dispositivi di protezione individuale, non costituisce una misura che tutela solo le legittime aspettative di sicurezza e protezione di colui che fornisce la prestazione lavorativa, ma anche dell'utenza cui è destinato il servizio organizzato e fornito dall'imprenditore e, quindi, in ultima istanza della collettività.
Nella varietà di norme emergenziali, occorre tenere in evidenza il concetto di “emergenza” e l'ipotesi del contagio deve garantire il massimo rispetto ai medici e al personale sanitario. Ovviamente in capo sanitario occorre distinguere le attività esercitabili in remoto (direzioni generali e amministrative), dalle attività sanitarie in senso stretto che devono essere rese personalmente in loco dagli operatori sanitari. Per i primi nulla quaestio in merito alla disciplina applicabile, ovvero la disciplina dello smart working confermata dal decreto del 04 marzo 2020 e successivamente ribadito nel DPCM dell'11 marzo 2020, ove «si raccomanda ne venga attuato il massimo utilizzo, da parte delle imprese, di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza», mentre per il personale sanitario occorre partire necessariamente dal concetto di sicurezza sui luoghi di lavoro ex art. 2087 c.c., in combinato disposto col Testo unico salute e sicurezza (d. lgs. n. 81/2008). E valga il vero, il d. l. n. 9 del 2020 sancisce in modo inequivocabile lo scopo di agevolare fortemente il lavoro agile «quale ulteriore misura per contrastare e contenere l'imprevedibile emergenza epidemiologica». Appare evidente che il “lavoro agile da coronavirus” rappresenta una specificazione normativa dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c., sia nel lavoro pubblico che in quello privato, che impone al datore di lavoro di adottare le cautele adeguate a salvaguardare nel modo più efficace la salute del lavoratore, fronteggiando la situazione di rischio che in concreto si presenta, anche quand'esse non siano prescritte tassativamente dalla legge. E qui viene in evidenza la differenza tra strutture nosocomiali pubbliche e strutture sanitarie private, anche rispetto alla diffusione endo-ospedaliera imputabile ad un mancato isolamento di taluni pazienti, fatto che avrebbe reso i nosocomi un focolaio di contagi, rispetto alle infezioni a matrice prevalentemente non ospedaliera, avendo carattere esogeno in tema di infezioni nosocomiali, ove la giurisprudenza dopo la legge 24/2017 ha fatto registrare un certo abbandono del cd. “modello oggettivo”, consentendo ai fini liberatori, la dimostrazione di aver adottato tutte le misure organizzative utili e necessarie per prevenire e contenere il fenomeno infettivo attraverso i protocolli diretti all'applicazione e al monitoraggio, delle pratiche a ciò finalizzate. Va anche evidenziato che le infezioni ospedaliere rappresentano la complicanza più frequente dell'assistenza sanitaria. Si definiscono I.C.A. le infezioni insorte durante il ricovero in ospedale, o dopo le dimissioni del paziente, che al momento dell'ingresso non erano manifeste clinicamente, né erano in incubazione. Sono l'effetto della progressiva introduzione di nuove tecnologie sanitarie, che se da una parte garantiscono la sopravvivenza a pazienti ad alto rischio di infezioni, dall'altra consentono l'ingresso dei microrganismi anche in sedi corporee normalmente sterili. Un altro elemento cruciale da considerare è l'emergenza di ceppi batterici resistenti agli antibiotici, visto il largo uso di questi farmaci a scopo profilattico o terapeutico. Non tutte le infezioni correlate all'assistenza sono prevenibili; è quindi opportuno sorvegliare selettivamente quelle che sono attribuibili a problemi nella qualità dell'assistenza. In genere, si possono prevenire le infezioni associate a determinate procedure, attraverso una riduzione di quelle non necessarie, la scelta di presidi più sicuri, l'adozione di misure di assistenza al paziente che garantiscano condizioni asettiche. Alla luce di quanto evidenziato sarebbe auspicabile l'adozione di un provvedimento normativo volto a rendere efficaci gli strumenti scientifici che il nostro Paese ha a disposizione, stabilendo l'obbligatorietà dell'adozione di quegli standard e raccomandazioni necessari per la sicurezza dei cittadini. Si sono così accumulati programmi di ricerca, progetti di sorveglianza e contrasto, sistemi operativi innovativi. Tra gli esempi più significativi ed efficaci possiamo citare quello dell'A.O.U. di Modena che sta avendo incoraggianti risultati basati su una efficiente applicazione delle regole già esistenti, fondate su “prevenzione e controllo”; sulla sensibilizzazione del personale, dei pazienti e dei visitatori; su un sistema costante e trasparente di raccolta dati, e sull'importanza del lavaggio delle mani che ha portato ad una riduzione delle infezioni del 90% e con notevole risparmio economico. Ciò detto, ai sensi dell'art. 44 del Testo unico salute e sicurezza (d. lgs. n. 81 del 2008) «il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa». Appare evidente, quindi, che se il lavoratore può astenersi dallo svolgimento della prestazione lavorativa, a maggior ragione può pretendere di continuare a svolgere la sua attività lavorativa al di fuori dei locali aziendali quando sussiste il pericolo in concreto del contagio. Ricordando che grava sul datore di lavoro l'obbligo di salvaguardare nel migliore dei modi la salute del proprio dipendente e che il lavoro agile viene promosso con la formula normativa del “massimo utilizzo”, si perviene alla conclusione che il lavoratore è titolare di un diritto soggettivo ex art. 2087 c.c. all'attribuzione del lavoro agile. Sul punto si richiama l'orientamento giurisprudenziale consolidato per i casi di violazione dell'art. 2087 c.c., che come “norma aperta” integra causa di responsabilità per inadempimento di un'obbligazione (cfr: Cass. civ., 25 maggio 2006, n. 12445). Tale giudizio appare ampiamente condiviso e tra le tante incertezze in subiecta materia, rinviene sempre la norma di chiusura dell'art. 2087 c.c. da leggersi con la chiave della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, ove la Corte di Cassazione già nella decisione n. 4012 del 20 aprile 1998 richiamava a sostegno delle proprie argomentazioni la sua precedente decisione n. 5048 del 1988 e la sentenza della Corte costituzionale n. 399 del 1996, affermando che: «coerentemente, in adempimento del principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile vigente nel nostro ordinamento ai sensi dell'art. 2087 c.c. secondo cui la sicurezza non può essere subordinata a criteri di fattibilità economica o produttiva (Cass. pen. 9 gennaio 1984), lo stesso datore di lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire il fine della protezione della salute e dell'integrità fisica dei propri dipendenti in modo conforme al principio direttivo costituzionale dell'art. 32 Cost.». Infatti, in base al principio della «massima sicurezza tecnologicamente possibile», secondo una costante giurisprudenza di legittimità, non è consentito subordinare la sicurezza a criteri di fattibilità economica o produttiva, poiché la tutela dell'integrità fisica del lavoratore non tollera alcun condizionamento economico. Il Testo Unico è stato, quindi, adottato con una procedura che ha visto la costante partecipazione delle parti sociali alla propria stesura, affidando loro importanti compiti. La filosofia di fondo che ispira il sistema è quella del tripartitismo: alla realizzazione delle condizioni di sicurezza in azienda e nell'intero Paese concorrono sia lo Stato, sia gli attori sindacali. Si tratta del resto della stessa filosofia che la direttiva quadro 89/391/CE pone a fondamento dell'intero sistema di sicurezza sul lavoro. La partecipazione dei lavoratori costituisce, dunque, uno dei pilastri portanti della tutela delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro. Alle parti sociali sono affidati importanti compiti, sia sul piano istituzionale, sia su quello della contrattazione collettiva, sia su quello della gestione quotidiana della sicurezza nei luoghi di lavoro. Difatti, l'art. 1, comma 2, lett. h) individua tra i principi e i criteri direttivi generali, nel cui rispetto dovranno essere adottati i decreti di cui al comma 1, «la rivisitazione e potenziamento delle funzioni degli organismi paritetici, anche quali strumento di aiuto alle imprese nell'individuazione di soluzioni tecniche e organizzative dirette a garantire e migliorare la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro». In tale senso la partecipazione delle parti sociali alla governance della sicurezza è assicurata dalla valorizzazione dei compiti degli organismi paritetici, sul presupposto che il modello collaborativo è uno strumento in grado di assicurare la promozione della sicurezza in azienda, garantendo l'innalzamento dei minimi di tutela negli ambienti di lavoro. Il Testo Unico riscrive, quindi, il senso della posizione del datore di lavoro ed il contenuto della responsabilità che sussiste a carico dello stesso, nell'ottica di un approccio che tende a considerare la responsabilità sociale come uno strumento che consente di gestire il cambiamento culturale che è sotteso alla predetta riforma normativa e di conciliare il raggiungimento di obiettivi di impresa (efficacia ed efficienza) con lo sviluppo sociale, novità della suddetta previsione normativa. Il legislatore propone, quindi, un percorso di responsabilità sociale teso fornire un approccio d'interpretazione al tema della sicurezza di tipo sistemico. La sostenibilità, la volontarietà, la socialità, la formazione, la prevenzione fino a raggiungere politiche di gestione del rischio sono considerate come le leve strategiche di una logica che tende a diffondere la responsabilità sociale non soltanto in termini di sicurezza e prevenzione, ma soprattutto di prevenzione e di cambiamento. Pertanto, il percorso ed il valore della responsabilità sociale vanno valutati alla luce dei tre fattori abilitanti: volontarietà, sostenibilità e socialità. La volontarietà rappresenta l'intento del legislatore di provvedere alla imposizione di pratiche di sicurezza, senza scegliere la coercizione, l'obbligo giuridico tout court, ma optando per la fonte collettiva. Viene esplicitato, inoltre, il carattere della socialità della RSI,nella sua duplice attribuzione: interna, considerando l'attenzione rivolta al benessere delle persone, alla tutela della salute dei dipendenti, ed esterna, rilevando il miglioramento indotto per il rispetto e la salvaguardia delle risorse adoperate. Lo stesso carattere della sostenibilità sociale viene rappresentato dal confronto tra la sostenibilità legale e quella economica. La responsabilità sociale è parte del sistema di gestione della sicurezza da considerarsi come investimento e non come costo; in tale senso la volontarietà delle azioni di RSI definiscono non soltanto la prontezza e la capacità dell'impresa a fornire una organizzazione “responsabile”, dall'altro a misurare i livelli di capacità aziendale nella realizzazione di un sistema o piano di gestione/prevenzione dei rischi e della sicurezza. Cambia e si rafforza, quindi, il ruolo del datore di lavoro e la relativa responsabilità nell'ambito delle relazioni d'impresa, la c.d. responsabilità sociale (RSI). Il datore di lavoro deve farsi promotore di politiche aziendali, prassi, movimenti, tutto quanto sia indispensabile per la tutela della sicurezza, in un'ottica volontaristica. Si tratta di stimolare e realizzare comportamenti da parte degli altri attori del sistema, orientati a rafforzare l'efficacia del dettato normativo. L'obbligo giuridico di sicurezza acquisisce nuovi connotati, l'operato del datore di lavoro si colora di nuove azioni che si potrebbero definire “virtuose” e tese a favorire l'innalzamento di standard qualitativi di sicurezza. Alla stregua del Testo Unico, accanto all'organizzazione del SPP (servizio prevenzione e protezione) all'interno dell'azienda ed al ricorso a persone o servizi esterni, il datore di lavoro ha a sua disposizione anche un terzo modello organizzativo, consistente nello svolgimento in prima persona dei compiti di prevenzione dai rischi (nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, oltre che di primo soccorso dopo il d. lgs. 81/2008), ammesso, previa informazione al RLS (rappresentante lavoratori per la sicurezza) ed alle condizioni indicate - tranne nei casi indicati dall'art. 31, comma 6, ossia qualora il SPP (servizio prevenzione protezione) debba essere istituito all'interno dell'azienda.
Il lavoro agile (c.d. smartworking) nel periodo di emergenza da Covid - 19 e la copertura INAIL per l'infortunio sul lavoro
Non vi è chi non veda, dunque, la significativa valenza di protezione generalizzata assunta dal T. U. 81/2008 in questo particolare frangente storico. Anche le parti sociali hanno dato una risposta all'impegnativa sfida di garantire la sicurezza nei luoghi da lavoro, a protezione della salute dei lavoratori, sia in quelle attività di cui non è stata disposto il blocco in quanto qualificate come essenziali, sia in vista della tanto giustamente attesa riapertura generalizzata. In applicazione di quanto disposto dal comma primo dell'art. 1 del DPCM 11 marzo 2020 n. 9, le organizzazioni datoriali ed i sindacati hanno sottoscritto due protocolli condivisi, uno del 14 marzo 2020 e l'altro, ad integrazione del primo, del 24 aprile 2020 finalizzati alla regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid - 19 negli ambienti di lavoro. Quest'ultimo è divenuto quindi parte integrante del DPCM 26 aprile 2020 come allegato, unitamente ad accordi simili nel settore dei cantieri edili e dei trasporti. Tale modalità di confronto e accordo oltre che, da ultimo, essere utilizzata in ottemperanza ai provvedimenti emergenziali adottati dal Governo fino a diventarne parte, è prima di tutto assolutamente coerente con lo spirito ed il contenuto prescrittivo del T.U. d.lgs. 81/2008 il quale riconosce alle parti sociali un ruolo fondamentale nella programmazione in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro. Nell'intento, in vero non semplice ma necessario, di coniugare «la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia delle condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative» le parti sociali hanno concordato sull'opportunità di adottare una serie di misure tra le quali privilegiare, laddove possibile, il ricorso al lavoro agile (cd. smart working) per il quale un recente intervento normativo ha eliminato l'obbligo di preventivo accordo individuale, l'adozione di protocolli di sicurezza, lo svolgimento di operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, il rispetto del distanziamento sociale di un metro e, laddove non ciò non fosse possibile, l'adozione di strumenti di protezione individuale, l'adozione di misure precauzionali in ragione della specifica attività d'impresa svolta, lo svolgimento di un'attività di informazione dei lavoratori e di chiunque entri in azienda circa le disposizioni generali delle Autorità nonché, in base alle mansioni e ai contesti lavorativi «con particolare riferimento al complesso delle misure adottate cui il personale deve attenersi in particolare sul corretto utilizzo dei DPI per contribuire a prevenire ogni possibile forma di diffusione di contagio», l'adozione di misure interdittive dell'ingresso in azienda a chi abbia una temperatura corporea superiore ai 37,5° o a chi abbia avuto contatti negli ultimi 14 giorni con persone risultate positive al Covid - 19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni della OMS, anche in relazione al rischio di interferenza derivante dalla presenze di lavoratori di aziende terze, l'esecuzione di tamponi laddove disposto dalle pubbliche autorità, l'individuazione di modalità di ingresso controllate dei fornitori esterni con riduzione all'essenziale le occasioni di contatto con il personale in forza, l'adozione di misure di contingentamento degli accessi degli spazi comuni, la fornitura di dispositivi di protezione individuale ed altre misure ancora. Venendo ai dispositivi di protezione individuale i citati protocolli fissano, in ossequio al principio per cui nemo ad impossibilia tenetur e in ragione delle note difficoltà di approvvigionamento sul mercato di mascherine, guanti monouso, gel igienizzanti, alcuni punti: l'uso delle mascherine dovrà avvenire in conformità alle disposizioni della OMS; si potranno utilizzare mascherine la cui tipologia corrisponda alle indicazioni dell'autorità sanitaria; verrà favorita la preparazione da parte dell'azienda stessa di liquidi detergenti secondo le indicazioni OMS; qualora la situazione di lavoro imponga di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro, e non siano possibili altre soluzioni organizzative, sarà necessario comunque l'uso di mascherine e altri dispositivi di protezione individuale (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici ecc.), conformi alle disposizioni della autorità scientifiche e sanitarie; la valutazione di idoneità e la conseguente adozione di D.P.I. dipenderà dalla valutazione dei rischi effettuata in base alla mappatura delle diverse attività dell'azienda; si adopereranno mascherine chirurgiche in tutti gli spazi comuni condivisi dai lavoratori. Orbene, è di tutta evidenza che da un lato la normativa in vigore non consente in alcun modo al datore di lavoro di derogare alle disposizioni generali assunte in materia salute anche nei luoghi di lavoro, ma dall'altro che il protocollo stesso mantiene comunque, sebbene in via del tutto residuale, in capo al datore di lavoro, quanto all'adozione da parte dei dipendenti e alla fornitura agli stessi di diversi tipi di D.P.I. che non siano le mascherine, la responsabilità di valutare il rischio di contagio nel luogo di lavoro in relazione alle diverse attività aziendali. Si potrebbe quindi così sintetizzare: laddove vi sia la possibilità di mantenere la distanza di un metro, non è necessario fornire mascherine e altri D.P.I., se ciò non è possibile diviene assolutamente necessario l'uso della mascherina e di altri dispositivi di protezione, la cui idoneità verrà valutata in base ai rischi e rilevati a seguito di mappatura delle diverse attività aziendali. Non parrebbe, quindi, esservi una predeterminazione generalizzata dei D.P.I. volti a fronteggiare il Covid - 19, se non per quel che riguarda le mascherine in caso di impossibilità di mantenere la distanza di un metro e di accesso agli spazi comuni. Ciò peraltro, si poteva evincere anche nei decreti delle sezioni lavoro (citati al paragrafo 1), ove il Giudice di Firenze, nell'accordare la tutela cautelare mediante l'imposizione al datore di lavoro della fornitura al lavoratore di mascherine, guanti e gel igienizzante, citava la circostanza che almeno per i primi due era stata l'azienda stessa ad invitare il “rider” ad utilizzarli, così come il Giudice di Bologna ricordava che la società di gestione della piattaforma si era detta disponibile alla fornitura dei D.P.I. richiesti ma che non aveva potuto farvi fronte per difficoltà di approvvigionamento, con il che valorizzando il riconoscimento esplicito da parte datoriale della necessità di utilizzare, oltre alla mascherina, gli altri D.P.I. In tutto ciò si innesta la decisione del Governo di accordare al contagio da Covid - 19 la copertura INAIL per l'infortunio sul lavoro. Ciò è avvenuto con l'art. 42 del D. L. 18 del 2020 - c.d. Cura Italia, convertito in Legge 24 aprile 2020- per cui: «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS - CoV - 2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell'infortunato con la conseguente astensione dal lavoro … La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati». L'INAIL ha, quindi, già il 3 aprile 2020 emanato la circolare interpretativa n. 3 con cui ha chiarito che il Covid - 19, come altre affezioni morbose, è inquadrabile quale infortunio sul lavoro in quanto la causa virulenta è equiparata a quella violenta e che la tutela assicurativa INAIL «spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell'esercizio delle attività lavorativa , opera anche nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro». La platea degli interessati va dai lavoratori dipendenti e assimilati, ai lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti dipendenti, dirigenti. Trattandosi di epidemia, ciò che subito emerge come problematico è la sicura riconduzione della contrazione del virus all'occasione di lavoro, vieppiù laddove ciò sia avvenuto in itinere, ossia nel percorso casa-lavoro. L'Istituto sul punto, richiamando la giurisprudenza della Cassazione (9913/2016) chiarisce che: «Nell'attuale situazione pandemica, l'ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l'utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari. Le predette situazioni non esauriscono, però, come sopra precisato, l'ambito di intervento in quanto residuano quei casi, anch'essi meritevoli di tutela, nei quali manca l'indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell'accertamento medico-legale la presunzione semplice. In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l'episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l'accertamento medico-legale seguirà l'ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale». Sicuramente, non sarà agevole per il lavoratore la prova della contrazione del virus in occasione di lavoro nell'ambito delle attività non coperte da presunzione semplice, ma si può prevedere che acquisirà rilevanza anche la valutazione dei rischi effettuata dal datore di lavoro e il rispetto e l'adozione da parte dello stesso non solo delle misure di prevenzione e dei D.P.I. imposti dalle normative vigenti, dal protocollo già citato e dalla contrattazione collettiva, ma anche di quelle adottate in ragione della specificità delle attività svolte in azienda, quali elementi da cui desumere che il virus sia stato contratto in occasione di lavoro. Si delinea, dunque, un quadro abbastanza composito, ma chiaro, per quanto riguarda il settore del lavoro privato non sanitario e/o di assistenza, con il concorso della giurisprudenza di merito, che riconosce l'obbligo al datore di lavoro di fornire idonei e adeguati D.P.I. ai lavoratori dipendenti non solo a tutela a e protezione della salute degli stessi ma anche, laddove svolgano una prestazione a contatto con il pubblico, a tutela dell'utenza del servizio e, quindi, della collettività; delle parti sociali, le quali si impegnano ad un confronto puntuale e alla condivisione di regole per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid - 19 nei luoghi di lavoro, partendo dall'inderogabile dato normativo e protocollare, ampliandone la portata mediante gli strumenti di valutazione del rischio previsti dalla legislazione vigente in materia di salute e sicurezza sul lavoro, finendo con il legislatore che ha inteso garantire la copertura assicurativa ai lavoratori dipendenti e non solo in caso di contrazione del virus in occasione di lavoro. Inoltre viene tuttora invocata chiarezza sulle regole da adottare per la protezione dei lavoratori. In fine meritevole di approfondimento, sebbene meno urgente rispetto all'esigenza di contrastare e contenere, è il rapporto tra le nuove misure adottate e la normativa sulla riservatezza dei dati personali (GDPR) e lo statuto dei lavoratori, in particolare relativamente agli articoli 3 (personale di vigilanza), 4 (impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo) e 5 (Accertamenti sanitari) della legge 300 del 1970. Si pensi, in particolare, ai dati sanitari raccolti direttamente dal datore di lavoro all'ingresso in azienda - evidentemente su disposizione normativa esplicitamente derogatoria del divieto di cui al già richiamato art. 5 della legge 300/1970 che preclude al datore di lavoro lo svolgimento di accertamenti sanitari diretti e di indagini sulla salute del lavoratore. Essi dovranno essere trattati in ottemperanza a quanto previsto dal Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali 679/2016 e del d. lgs. 196/2003 siccome riformato dal d. lgs. 101 del 2018, ciò comportando, in quanto dati particolari relativi alla salute, rilevanti obblighi di protezione e prevenzione di possibili data breach e/o comunque di utilizzo scorretto. Oppure alle esigenze di controllo da parte del datore di lavoro sullo svolgimento della prestazione di lavoro agile. Essendo venuta meno l'obbligatorietà dell'accordo individuale nella cui occasione le modalità di controllo potevano essere esplicitate, dovrà necessariamente definirsi altra sede in cui le modalità di esercizio di detto controllo dovranno essere, si auspica collettivamente, concordate. Sappiamo infatti che le moderne tecnologie consentono un controllo estremamente pervasivo - quando non invasivo - delle attività delle persone mediante software appositamente installati sugli strumenti di lavoro e che la novella dell'art. 4 comma 3 ha sancito l'utilizzabilità a tutti i fini (precipuamente sanzionatori) delle informazioni così raccolte a condizione che venga fornita adeguata informazione in merito al lavoratore e del rispetto della normativa in tema di privacy. Con il lavoro agile, da casa, si prospetta per il datore di lavoro una doppia acquisizione di dati mediante gli strumenti forniti al lavoratore per l'esecuzione della prestazione lavorativa: dati inerenti lo svolgimento della prestazione lavorativa e dati inerenti la vita privata del lavoratore stesso, desumibili sia direttamente che indirettamente stante l'assenza di separatezza fisica tra luogo di lavoro e abitazione. Se la prima può essere legittima, la seconda non lo è e dovranno essere individuate dalla contrattazione collettiva adeguate misure di tutela della privatezza del lavoratore dipendente. Assolutamente non legittimo appare comunque, anche a mente della costante giurisprudenza di merito e di legittimità (ex pluris Trib. Padova, decreto n. 6031/2019, Cass. civ. n. 21621/2018) il ricorso alle investigazioni private per il mero controllo da parte del datore di lavoro dell'esecuzione della prestazione lavorativa del lavoratore agile. Da ultimo, suscita non poche perplessità il ricorso in ambito di lavoro privato alle autocertificazioni e non solo in relazione ai già menzionati divieti di accertamento sanitario al di fuori delle modalità disciplinate dall'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, e alle disposizioni in materia di trattamento dei dati inerenti la salute. Sebbene sia ormai da tempo valorizzata dalla giurisprudenza, la necessaria collaborazione del lavoratore nell'attuazione delle norme sulla sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro, si ritiene che a nulla valga, in termini di esenzione dagli specifici obblighi di garanzia gravanti sul datore di lavoro un'autocertificazione esibita dal lavoratore circa la propria non positività al Covid - 19, soprattutto in relazione ai rischi che possano comunque correre gli altri lavoratori in presenza un'attestazione non veritiera. In conclusione, si rende quanto mai necessario un intervento legislativo organico e di armonizzazione, possibilmente debitamente ponderato e non d'urgenza della normativa emergenziale sino ad ora licenziata, con le differenti disposizioni in materia di lavoro, tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e tutela della riservatezza.
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