Prescrizione del reato ed equa riparazione: tra volontà legislativa e prassi
27 Maggio 2020
Massima
L'equa riparazione per irragionevole durata del processo non può essere esclusa in ragione della mera dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione nel giudizio presupposto. Tale circostanza assume rilievo soltanto qualora sia la conseguenza di tecniche dilatorie o strategie sconfinanti nell'abuso del diritto di difesa. Il caso
Un soggetto imputato in un procedimento penale avviatosi nel 18.06.1996 e conclusosi nel 9.11.2010 proponeva ricorso per ottenere la condanna dello Stato al pagamento dell'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo. La Corte territoriale accoglieva la domanda, sebbene il GUP avesse dichiarato il reato estinto per prescrizione e il ricorrente avesse rinunciato a tale declaratoria impugnando la decisione, la quale veniva peraltro confermata in secondo grado. Il Ministero della Giustizia ricorre per Cassazione, sollevando censure in punto di rito e nel merito rilevando come i giudici di appello avessero violato l'art. 2 comma 2-sexies lett. d) l. 89 del 2001, il quale sancisce una presunzione di esclusione dell'equa riparazione in ipotesi di dichiarazione di prescrizione del reato. La questione
La dichiarazione di prescrizione del reato è di per sé sufficiente ad escludere il diritto all'equa riparazione per irragionevole durata del processo? Le soluzioni giuridiche
I) La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha riaffermato un principio di diritto relativo al riconoscimento del diritto all'equa riparazione dei danni patiti in conseguenza dell'irragionevole durata dei procedimenti, ai sensi della legge n. 89 del 2001. Invero, è stato nuovamente sostenuto, con particolare riferimento ai procedimenti penali, che la dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione non esclude di per sé il pregiudizio che possa derivare dall'eccessiva durata del procedimento. I giudici di legittimità, in tal modo, hanno ritenuto di dare seguito ad un filone interpretativo ormai unanimemente accettato, che tuttavia ha ottenuto compiuta determinazione solo in Cass. civ., sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18498. Prima di tale sentenza, infatti, seppur soltanto in via minoritaria, veniva effettuata una particolare interpretazione del principio secondo cui il danno patrimoniale o non patrimoniale conseguente alla violazione del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1 CEDU può ritenersi escluso qualora in concreto si siano verificate particolari circostanze che abbiano eliso tale pregiudizio. In particolare, tale principio di diritto era stato sancito in Cass. civ., sez. un., 26 gennaio 2004, n.1338, nonché nn. 1339, 1340 e 1341,secondo cui tali eventualità si realizzerebbero ogniqualvolta “il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte, o è comunque destinato a produrre conseguenze che questa percepisce a sè favorevoli, e sia quindi utile per la parte stessa”. In tal senso, perciò, parte della giurisprudenza richiamava la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, di cui non fosse stata richiesta la rinuncia, tra quelle ipotesi idonee a giustificare il mancato riconoscimento della pretesa indennitaria (cfr. Cass. civ., Sez. I, 2 maggio 2006, n. 10124). Tale formante giurisprudenziale, peraltro, aveva poi rintracciato nuove argomentazioni a seguito della pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo della II Sezione del 6 marzo 2012 resa nel caso Gagliano Giorgi c. Italia. La Corte di Strasburgo, in tale caso, aveva infatti ritenuto che l'avvenuta prescrizione comportasse una compensazione o comunque una riduzione del pregiudizio derivante dall'irragionevole protrarsi del giudizio. Al contrario, la suddetta decisione Cass. civ., sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18498, alla quale la pronuncia odierna si richiama, pur non citandola, ha invece ritenuto che, sebbene tale diritto riconosciuto alle parti processuali abbia origine sovranazionale, allo stesso deve essere applicata la più intensa tutela che l'ordinamento interno gli attribuisca. La decisione fornita dalla Corte EDU, infatti, era divenuta definitiva soltanto successivamente all'entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prescriveva all'art. 2 comma 2-quinquies lett. d) che l'indennizzo non poteva riconoscersi “nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte". Proprio in ragione di tale novella normativa, la Corte di Cassazione, anche nella decisione in commento, ha ribadito pertanto quello che era stato l'orientamento originario su tale tematica, ovvero che l'estinzione del reato per prescrizione non esclude di per sé il riconoscimento dell'equa riparazione. Il diniego della pretesa riparatoria, infatti, potrà essere accertato soltanto qualora l'avvenuta prescrizione sia stata determinata da un'attività difensiva non ispirata unicamente alla finalità della migliore tutela per la parte e alla correttezza processuale. In tal senso, la sentenza in analisi nella parte motiva stigmatizza come sia necessario apprezzare “se l'effetto estintivo sia intervenuto per l'utilizzazione, da parte dell'imputato, di tecniche dilatorie o strategie sconfinanti nell'abuso del diritto di difesa”. Pertanto, il giudizio di spettanza dell'equa riparazione, qualora sussista il presupposto fondamentale della violazione del termine ragionevole, è caratterizzata da una presunzione legale iuris tantum di esistenza del danno, tale per cui sarà lo Stato a dover dimostrare che il ricorrente abbia utilizzato strumenti processuali al solo fine di dilatare il più possibile i tempi dell'attività giudiziaria, distogliendoli da un effettivo scopo difensivo. La Corte, peraltro, ha chiarito come possano ritenersi dilatorie le condotte consistenti in richieste di rinvio soltanto formali (nel caso di specie non provate), mentre, ha escluso che l'abuso del diritto di difesa possa concretizzarsi nella rinuncia della dichiarazione di prescrizione da parte dell'imputato. Tale attività processuale, infatti, è una facoltà espressamente riconosciuta dall'ordinamento a tutela degli interessi del singolo imputato. II) I giudici di legittimità, inoltre, puntualmente soffermandosi circa l'asserita violazione dell'art. 2 comma 2-sexies lett. a) della l. 89/2001, hanno rilevato come tale norma non sia applicabile al giudizio de quo. Invero, il legislatore mediante l'art. 1, comma 777 della L. 208/2015 ha introdotto una presunzione legale di insussistenza del danno da irragionevole durata del procedimento ogniqualvolta l'esito dello stesso consista nella dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato. La novella, in altri termini, sottende che aldilà della condotta processuale tenuta dalla parte, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione determini o meglio compensi il danno da irragionevole durata del processo, secondo l'id quod plerumque accidit. La sentenza in analisi sul punto ha rilevato, tuttavia, come tale disciplina sia stata introdotta in un momento successivo alla proposizione del ricorso. Inoltre, si è sostenuto che tale innovazione legislativa comporti una revisione “della formazione e della valutazione della prova nel processo”, sicché in assenza di un regime transitorio e in applicazione del principio tempus regit actum (cfr. sul punto Cass. civ., Sez.VI, 26 gennaio 2017, n. 2026) essa non può ritenersi applicabile ai giudizi instaurati prima della sua entrata in vigore, come nel caso che interessa. La Corte, in attuazione dell'art. 11 preleggi, ha infatti sostenuto che la modifica normativa quale “ius superveniens operante sugli effetti della domanda e implicante un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, non può̀ che trovare applicazione avendo riguardo al momento della proposizione della domanda di equa riparazione”.
Osservazioni
L'art. 1, comma 777 della L. 208/2015 riconosce alla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione valore di presunzione legale iuris tantum di non risarcibilità del danno subito in conseguenza della irragionevole durata del procedimento. Tale novità normativa, introdotta con l'art. 2 comma 2-sexies alla legge n. 89 del 2001, sembrerebbe rintracciare la propria giustificazione nella razionale massima d'esperienza per cui chi è destinatario di una tale decisione normalmente ne ritrae un'utilità, consistente in particolare nella non punibilità dei propri comportamenti, sicché non potrebbe lamentare al tempo stesso una lesione. In tal modo, peraltro, il legislatore sembrerebbe aver ritenuto di avallare la tutela di tale diritto risarcitorio nei limiti del perimetro tracciato dalla richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo la quale l'intervenuta prescrizione di per sé incide sul danno risarcibile, elidendolo o riducendolo. Occorre osservare, inoltre, che tale nuova disposizione sembra comporre quel contrasto, di cui si è dato brevemente conto in seno alla nostra giurisprudenza di legittimità, circa la rilevanza da attribuire alla prescrizione del reato. Infatti, come già visto, a fronte di un'abbandonata tesi interpretativa la quale riteneva che l'estinzione del reato per prescrizione determinasse ex se l'insussistenza del danno, si opponeva l'orientamento, ormai unanime e ribadito anche nella decisione in commento, che riconosce valore a tale circostanza processuale soltanto se conseguenze di condotte dilatorie e strategie processuali che coincidono con l'abuso del diritto di difesa. Il contenuto dell'art. 2 comma 2-sexies l. 89/2001 appare ritagliare all'intervenuta prescrizione un valore mediano tra le anzidette tesi giurisprudenziali. Invero, alla prescrizione del reato viene di nuovo riconosciuta un'autonoma valenza, in quanto non occorre valutare se la stessa sia la conseguenza di condotte intenzionali e abusive dell'imputato, ma si supera anche quella concezione sostenuta in alcune decisioni della Cassazione per cui la sussistenza della stessa era la prova certa della mancanza del danno da eccessivo protrarsi del giudizio. Il legislatore, in altri termini, assume che la sentenza di estinzione del reato per raggiunta prescrizione sia idonea presuntivamente a compensare il pregiudizio subito a causa dell'irragionevole durata del processo, salvo prova contraria pur sempre ammessa. Orbene, tale novità legislativa secondo la pronuncia in commento individuerebbe un mutato onere probatorio rispetto alla originaria legge del 2001 e sarebbe tale da giustificare l'inapplicabilità ratione temporis di tale disciplina rispetto ai giudizi incardinati prima della sua entrata in vigore. Tale conclusione, peraltro, non appare del tutto esente da margini di opinabilità. In tal senso, occorre premettere, infatti, che la tutela di tale situazione soggettiva conseguente alla violazione dei termini di ragionevole durata dei processi, tanto che se ne individui la natura risarcitoria o indennitaria, non può non presupporre che la parte asseritamente pregiudicata dia prova in giudizio del danno patrimoniale o non patrimoniale subito. È ben vero, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità, in maniera affatto peculiare, pur riconoscendo la necessità di dare prova di tale conseguenza lesiva e con ciò sconfessando la sussistenza di uno svantaggio patrimoniale configurantesi in re ipsa per il solo fatto della violazione del termine, ha sostanzialmente avallato un riconoscimento della pretesa creditizia per lo più ancorata a dati meramente presuntivi di sussistenza della lesione da riparare. Nella surriferita sentenza n. 1338 del 2004 resa dalle Sezioni Unite della Cassazione, infatti, era stato sostenuto che tale presunzione poteva venir meno solo in presenza di peculiari circostanze di fatto suscettibili di elidere il concretizzarsi del pregiudizio da ristorare. Proprio rispetto a tale ricostruzione, per vero, la stessa Suprema Corte e successivamente anche la Corte EDU avevano ritenuto che tale pregiudizio meramente allegato potesse venire compensato in tutto o in parte in presenza dell'avvenuta estinzione per prescrizione. Così chiarita la struttura del diritto all'equa riparazione, la modifica del 2015 alla legge n. 89 del 2001 non sembrerebbe quindi mutare l'onere probatorio di quanti ne richiedano il riconoscimento. Infatti, che il ricorrente debba fornire una prova puntuale del pregiudizio subito appare un'innovazione soltanto se la lente con cui si osserva la problematica è quella utilizzata nella consueta ricostruzione giurisprudenziale, che riteneva sufficiente allegare dei fatti con valore presuntivo della lesione subita. Il legislatore, quindi, sembrerebbe aver introdotto nell'ordinamento non tanto una nuova struttura della fattispecie di equa riparazione, ma una norma di interpretazione autentica del precedente dato positivo, richiedendo da un lato l'effettiva prova del pregiudizio conseguente alla violazione di un termine ragionevole e dall'altro individuando una peculiare circostanza insieme ad altre idonea ad impedire il riconoscimento di tale pretesa. In tal modo, peraltro, recependo soltanto una indicazione già sostenuta da parte dei giudici di legittimità e della costante giurisprudenza di Strasburgo. La conclusione cui giunge l'odierna decisione della Cassazione, pertanto, potrebbe essere oggetto di rimeditazione, anche alla luce delle critiche da più parti avanzate relativamente alla consistenza probatoria del diritto all'equa riparazione (cfr. Chindemi, «Legge Pinto»: questioni processuali, sostanziali e di «etica del diritto», in Resp. civ. e prev., 2008, 697 s.; Girolami, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, in Aa.Vv., Responsabilità̀ civile. Danno non patrimoniale, diretto da Patti, a cura di Delle Monache, Milano, 2010, 533 ss.), che il legislatore, invero, sembrerebbe soltanto ricostruire secondo lo schema ordinario di ogni pretesa risarcitoria o indennitaria che non può prescindere dall'accertamento effettivo della lesione cui porre rimedio. In tal modo, inoltre, si potrebbe da subito dare rilievo anche alle altre ipotesi di presunzione iuris tantum di insussistenza del danno prescritte dalle successive lettere del comma 2-sexies dell'art. 2 l. 89/2001. Quest'ultime, infatti, includono circostanze che non essendo riconducibili ad una condotta abusiva delle parti non sono state, se non del tutto occasionalmente, approfondite dalla giurisprudenza quali possibili cause di limitazione o di compensazione totale del danno da irragionevole durata del processo. Altrimenti, seguendo l'argomentare della pronuncia in esame, alle ipotesi contenute nel comma 2-sexies dovrebbe riconoscersi autonoma rilevanza compensativa del danno soltanto rispetto a pretese di ristoro il cui ricorso sia stato depositato dopo il momento di entrata in vigore della legge n. 208 del 2015. In tal modo, tuttavia, da un parte si negherebbe piena rilevanza all'insegnamento delle suddette sentenze a Sezioni Unite che già nel 2004 manifestavano l'esigenza di individuare circostanze peculiari suscettibili di contrastare il paradigma, invece concretizzatosi nella prassi, per cui alla durata eccessiva del processo consegue sempre un danno riparabile. Inoltre, da un'altra prospettiva si continuerebbe indirettamente a promuovere l'ipotesi che riconduce l'equa riparazione più ad una pena per lo Stato che non ad un effettivo ristoro per il cittadino (cfr. Partisani, La irragionevole durata del processo nel pluralismo delle fonti e dei sistemi di tutele - II parte, in Resp. civ. e prev. 2011, 480 ss.).
EMILIO IANNELLO, Le modifiche alla legge pinto tra esigenze di deflazione del contenzioso e contenimento della spesa pubblica e giurisprudenza di Strasburgo, in Giur. merito, fasc.1, 2013; MARCO AZZALINI, L'eccessiva durata del processo e il risarcimento del danno: la legge pinto tra stalli applicativi e interventi riformatori, in Resp. civ. e prev., fasc.5, 2012. |