L'obbligo di motivare le ragioni del mancato ricorso al mercato in caso di affidamento in house non è costituzionalmente illegittimo

Benedetta Barmann
29 Maggio 2020

Non è in contrasto con l'art. 76 Cost. e, in particolare, con i criteri previsti dall'art. 1 comma 1, lettere a) ed eee), della legge delega n. 11 del 2016 l'obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall'art. 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici, che risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza.

La questione di legittimità costituzionale. Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (di seguito anche solo “Codice dei contratti pubblici”), nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.

Osserva il giudice a quo che l'art. 1, comma 1, della legge delega 28 gennaio 2016, n. 11[1] ha fissato, tra gli altri, i seguenti princìpi e criteri direttivi: 1) alla lettera a), il cosiddetto divieto di gold plating, ossia di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive; 2) alla lettera eee), la garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell'ambito del settore pubblico, prevedendo, anche per questi enti, l'obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all'affidamento, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, e l'istituzione, a cura dell'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house (ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire affidamenti diretti).

Secondo il rimettente “la norma sospettata d'illegittimità costituzionale avrebbe innanzitutto violato il criterio direttivo di cui alla lettera a), in quanto avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione più gravoso rispetto a quello strettamente necessario per l'attuazione della direttiva 2014/24/UE, che ammette senz'altro gli affidamenti in house ove ricorrano le tre condizioni di cui all'art. 12. In secondo luogo, sarebbe stato violato il criterio direttivo di cui alla menzionata lettera eee), poiché l'introduzione dell'obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato non troverebbe «alcun addentellato» nel citato criterio e, soprattutto, non avrebbe nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte o con la pubblicità e la trasparenza degli affidamenti mediante l'istituzione, a cura dell'ANAC, di un elenco di soggetti aggiudicatori di affidamenti in house”.

Il giudizio della Corte Costituzionale. La Corte giudica la questione non fondata nel merito, in relazione a entrambi i parametri dedotti.

Per quanto concerne il primo parametro invocato dal giudice rimettente – vale a dire l'art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016 – la Corte, dopo aver operato una ricostruzione normativa del divieto di gold plating a livello comunitario e a livello nazionale, chiarisce, anzitutto, quale sia la ratio dell'istituto. Si legge, nello specifico, che “la ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l'introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all'amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato”.

La correttezza di tale interpretazione trova conferma tanto nella giurisprudenza nazionale, quanto in quella europea.

Sotto il primo profilo, la Corte richiama il parere reso dall'Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo recante il Codice dei contratti pubblici, in cui si legge che “il "divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive" va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli "oneri non necessari", e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive”.

Sotto il secondo profilo, la Corte ricorda come la Corte di Giustizia dell'Unione Europea abbia, tra l'altro, ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche discende “la libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze e, conseguentemente, quel principio li autorizza a subordinare la conclusione di un'operazione interna all'impossibilità di indire una gara d'appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all'operazione interna” (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18).

Alla luce di tali considerazioni la Corte conclude affermando che “L'obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall'art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non è dunque in contrasto con il criterio previsto dall'art. 1 comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016”.

Anche con riferimento al secondo parametro di legittimità invocato– l'art. 1, comma 1, lettera eee), della legge delega – non sussiste, ad avviso della Corte, la violazione asserita dal giudice rimettente.

La Corte osserva, preliminarmente, che il criterio direttivo in questione trova la sua ratio non già nel generale obbligo di pubblicità e trasparenza, il quale costituisce già di per sé un principio fondamentale dell'azione amministrativa scolpito nell'art. 97 Cost. e che, in quanto tale, non necessita di conferma a livello settoriale, quanto “nel suo essere riferito, in particolare, agli affidamenti diretti, segno di una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante”. È quindi alla stregua di questo dato che la Corte è chiamata a valutare la scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi, un onere di motivazione circa il mancato ricorso al mercato.

La Corte ricorda, peraltro, come la norma delegata in questione costituisca espressione “di una linea restrittiva del ricorso all'affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all'abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR dell'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee guida per l'istituzione dell'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, ai sensi dell'art. 192 del codice dei contratti pubblici”. Richiama, a tal proposito, varie disposizioni di settore che prevedevano un siffatto onere motivazionale, come l'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) e l'art. 7, comma 3, dello schema di decreto legislativo di riforma dei servizi pubblici locali di interesse economico generale (adottato ai sensi degli artt. 16 e 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»).

Inoltre, ad avviso della Corte, dall'art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) emerge la stessa cautela verso la costituzione e l'acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che “l'atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica [...] deve essere analiticamente motivato [...], evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato”.

Simili considerazioni riflettono, inoltre, una scelta di fondo già vagliata dalla medesima Corte con specifico riferimento alle condizioni allora poste dall'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, laddove aveva osservato che “[s]iffatte ulteriori condizioni [...] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell'affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un'applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta - e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell'art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato -, ma neppure si pone in contrasto [...] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l'assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l'esistenza di un "margine di apprezzamento" del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall'ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza "nel" mercato e "per" il mercato” (sentenza n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013).

In conclusione, dunque, la Corte reputa che “la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all'esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell'attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento”.

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