Il D.D.L. governativo e l'obiettivo della speditezza nel processo penale dopo l'emergenza sanitaria: riforma epocale o “molto chiasso per nulla”?
05 Giugno 2020
Una nuova stagione riformatrice (non si sa, però, se di ampio respiro o di breve durata, stanti le continue turbolenze sul piano politico e istituzionale) potrebbe interessare, nei prossimi mesi, il pianeta giustizia. La spinta verso possibili cambiamenti nel panorama giudiziario italiano coincide, da un lato, con la prospettiva di un progressivo (auspicabile e, si spera, definitivo) affievolimento dell'emergenza sanitaria che ha attraversato per mesi il nostro Paese e il mondo intero, con conseguente recupero di alcuni temi discussi fino allo scorso mese di febbraio; e, dall'altro, con l'emergere di scenari preoccupanti per la tenuta istituzionale dell'amministrazione della giustizia in Italia, a causa di quanto emerge da alcune risultanze investigative diffuse dai media e relative a ben note vicende giudiziarie che hanno già segnato profondamente la vita associativa e l'organo di autogoverno della magistratura. Non è certo questa la sede per indagare sulle vere ragioni politiche di questo “cambio di marcia” nell'atteggiamento riformatore, che d'altronde promette (o minaccia, dipende dai punti di vista) di tradursi in ulteriori e inediti interventi normativi, addirittura (almeno nelle intenzioni manifestate da qualcuno) di portata costituzionale. Ci interessa però, e molto, capire invece cosa ne sarà di alcune iniziative legislative che si erano già fatte strada, tra laboriose trattative e fuochi incrociati, nei mesi immediatamente precedenti il lockdown dovuto al coronavirus, e che potrebbero essere riesumate una volta superata (o comunque ridimensionata) la fase dell'emergenza.
Merita, in particolare, di essere monitorato il disegno di legge approvato il 13 febbraio scorso, recante una titolazione roboante (“Deleghe al Governo per l'efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d'appello) e probabilmente destinato a tornare alla ribalta fin dalle prossime settimane e a essere nuovamente oggetto di discussione. Già in sede di approvazione erano circolate diverse bozze del testo normativo, che in una precedente stesura si proponeva anche di farsi carico della riforma del rito civile, poi scomparsa dalla bozza definitiva; sono state inoltre espunte dal D.D.L. alcune importanti disposizioni in materia ordinamentale contenenti obiettivi che si presentavano come assai ambiziosi: dall'adozione di regole di trasparenza per la designazione degli incarichi direttivi, a nuove norme sulla copertura dei posti di consigliere di Cassazione o di sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte, a rilevanti modifiche nelle valutazioni di professionalità di giudici e P.M. e nelle modalità di accesso alla professione di magistrato, alla preclusione del rientro nei ruoli organici della magistratura per i togati che abbiano espletato funzioni politiche in ambito nazionale, europeo e locale. È altresì scomparsa dal testo finale la tanto attesa riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, attraverso la quale si pensava di modificare profondamente l'organo di autogoverno delle toghe, non solo nel suo funzionamento e nel numero di componenti, ma anche nelle modalità del sistema di elezione dei componenti togati. Si tratta, a quanto pare, di un “trasloco” (in un'altra iniziativa legislativa separata) dell'articolato relativo ai temi ordinamentali, che peraltro sembrerebbe caratterizzato da un sostanziale ripensamento delle soluzioni precedentemente delineate (ma non si esclude che l'intenso dibattito su tali temi determini, in seguito, ulteriori rielaborazioni).
Veniamo ora alle novità del D.D.L. in materia penale. In primo luogo l'intervento si propone il conferimento di deleghe al Governo per la modifica dei codici penale e di procedura penale in materia di deposito di atti e notificazioni (con uno sdoganamento delle modalità telematiche), di disciplina delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare (con il proposito, non si sa quanto efficacemente perseguito, di “fare filtro” in modo da limitare l'esercizio dell'azione penale e il rinvio a giudizio ai soli casi in cui l'accusa sia effettivamente sostenibile), di regolamentazione dei riti speciali (ampliando fra l'altro la possibilità teorica di accedere al patteggiamento, salvo che per alcuni reati) e dei giudizi di primo grado e di appello (con l'introduzione di una sorta di “udienza filtro” nei giudizi a citazione diretta, che echeggia nei propositi l'udienza preliminare; nonché con la previsione di un giudizio d'appello “monocratico”, sempre nell'ambito dei procedimenti a citazione diretta), nonché delle condizioni di procedibilità, del ragguaglio fra pene pecuniarie e detentive e dell'impugnabilità del decreto di perquisizione anche quando quest'ultima non sia seguita dal sequestro. Un importante capitolo è poi costituito dalle modifiche della disciplina in materia di prescrizione: l'art. 14 del D.D.L. recepisce in sostanza il cosiddetto “lodo Conte bis” (dal nome del proponente, l'on. Federico Conte) e ridimensiona in parte le conseguenze dell'obbrobriosa riforma entrata in vigore il 1° gennaio 2020, quale effetto a scoppio (volutamente) ritardato della legge n. 3/2019 (la cosiddetta “spazzacorrotti”). In definitiva l'art. 159 del codice penale verrebbe modificato in modo da prevedere che la prescrizione venga sospesa dalla sentenza di condanna di primo grado (non più, quindi, da quella di assoluzione) e lo rimanga fino alla data di esecutività della stessa; ma si prevede anche (con un meccanismo simile a quello introdotto dalla riforma Orlando del 2017) che la prescrizione riprenda il suo corso, e i periodi di sospensione siano nuovamente computati, qualora la sentenza di appello prosciolga l'imputato o annulli la condanna nella parte relativa all'accertamento della responsabilità, o ne dichiari la nullità ai sensi dell'articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis del codice di procedura penale.
Venendo al tema che qui si intende affrontare, va sottolineato che, tra i principi ispiratori della riforma, il comma 1 dell'art. 1 enuncia solennemente le “finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale”, beninteso facendo salve le garanzie difensive: finalità che vengono ribadite, nella sostanza se non nella forma, in più passaggi dell'articolato. Il disegno di legge affronta pervero una molteplicità di aspetti, anche di dettaglio, per molti dei quali appare tuttavia preferibile attendere gli ulteriori sviluppi dell'iter approvativo della legge, che potrebbe risentire in modo anche sensibile della crescente volatilità del quadro politico e anche delle prevedibili reazioni da parte dei principali stakeholders dell'intervento legislativo (A.N.M. e organismi di categoria della classe forense). Appare, tuttavia, utile concentrarci su alcuni tra gli strumenti con i quali si pensa di arginare l'eccessiva durata dei processi penali, in nome dei principi di semplificazione e speditezza che sembrano ispirare la riforma. Sotto questo profilo, sebbene siano disseminate nell'articolato alcune previsioni apparentemente tendenti a ottenere una riduzione dei tempi del processo (anche se non pare lecito azzardare scommesse sull'efficacia di tali interventi), assumono particolare rilievo gli articoli 3, 12 e 13 del disegno di legge. Attraverso alcune disposizioni contenute nei suddetti articoli, il D.D.L. interviene sulla tempistica processuale, nell'intento di accelerare le indagini e i giudizi e di stabilire termini più rapidi di trattazione. In effetti, il conferimento di deleghe mirate al conseguimento dell'obiettivo del contenimento della durata del processo si presenta in apparenza coerente con il cennato obiettivo generale di speditezza. In particolare, vanno in questa direzione le prescrizioni sulla durata della fase delle indagini preliminari, che viene rimodulata rispetto alle attuali previsioni di cui agli artt. 405 - 407 c.p.p. Infatti, l'art. 3, lettere c), d) ed e), del D.D.L. prevede limiti di durata compresi tra 6 mesi e un anno e 6 mesi, a seconda della gravità del reato, con possibilità di richiesta, da parte del P.M., di una proroga, una volta soltanto e per non più di 6 mesi, e con fissazione di termini per la decisione di chiedere l'archiviazione o esercitare l'azione penale. La violazione di tali prescrizioni comporta sanzioni disciplinari per il P.M. che abbia agito con negligenza inescusabile (art. 3, lettere f) e g)). Per il giudizio, l'art. 12 stabilisce che il magistrato deve “adottare misure” per definire i processi da lui iniziati (ad eccezione di quelli relativi ai gravi reati previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4), e comma 2, lettera b), c.p.p.), nel rispetto:
Viene tuttavia previsto che i suddetti termini possano essere rimodulati dal C.S.M. (sentito il Ministro della giustizia) con cadenza biennale, in relazione a specifiche situazioni dei singoli uffici giudiziari. La mancata adozione delle misure organizzative espone a sanzioni disciplinari il magistrato procedente ed impone al capo dell'ufficio di dare segnalazione della violazione all'organo titolare dell'azione disciplinare; mentre, a norma dell'art. 13 del D.D.L., il superamento dei limiti di durata massima dei giudizi di appello o di cassazione consente alle parti o ai loro difensori di avanzare istanza di ”immediata definizione del processo”, che dovrebbe essere definito, in tal caso, nel termine di 6 mesi dalla presentazione dell'istanza, anche qui sotto pena di sanzioni disciplinari sia per violazione del termine, sia per mancata adozione delle relative misure organizzative.
Di base, nelle disposizioni del D.D.L. appena richiamate, vi è l'idea di fondo secondo la quale basterebbe rendere più rigorosa la disciplina dei termini di fase delle indagini e introdurre un limite temporale alla durata dei processi, prevedendo, in entrambi i casi, sanzioni disciplinari a carico del magistrato negligente, per risolvere il problema della lentezza della giustizia penale. Alcune notazioni critiche s'impongono. Si esprime in particolare l'avviso che la bozza di intervento legislativo abbia scelto una strada del tutto inadeguata a perseguire in modo concreto ed efficace gli obiettivi di speditezza solennemente enunciati in più parti dell'articolato. La soluzione adottata, infatti, si appalesa fortemente censurabile in linea di principio, laddove pretende di recuperare in parte alcuni meccanismi tipici di un vecchio pallino della politica - la cosiddetta prescrizione processuale - pur senza adottarne in toto le soluzioni. Essa, conseguentemente, si mostra già in partenza del tutto inidonea a ottenere gli obiettivi prefissati e appare elusiva dei reali problemi e dei veri fattori che allungano i tempi della giustizia.
Ma andiamo con ordine. In precedenti legislature vi erano state iniziative di legge (che fortunatamente – ad avviso di chi scrive - non erano andate in porto) le quali si prefiggevano di introdurre forme di “prescrizione processuale”. In tali casi, infatti, il superamento del termine stabilito per la durata del singolo grado di giudizio comportava il proscioglimento dell'imputato, con eventuali sanzioni disciplinari a carico del magistrato che non rispettava il termine. Si ricordano in particolare il D.D.L. A.S. n. 1880/2009 della XVI legislatura (p.f. sen. Gasparri), iniziativa denominata «processo breve»; e, in precedenza, il D.D.L. A.S. 878/2006 della XV legislatura (sen. Calvi e Brutti). Chi scrive (si perdonerà l'inelegante autocitazione, il riferimento è a G.PAVICH, L'impatto del “processo breve” sulla macchina della giustizia, Rivista La Magistratura, 3/4-2009, p. 96) manifestò, all'epoca, forti riserve sui principi ispiratori di ambedue le iniziative, soprattutto di quella del 2009, partendo dall'osservazione che porre esclusivamente a carico del giudice procedente i ritardi del giudizio (quasi che egli ne potesse essere sempre e comunque il responsabile) e assoggettarlo a sanzioni disciplinari per tali ritardi appariva sommamente ingiusto, oltreché inadeguato allo scopo. Senza contare che la riforma del c.d. “processo breve”, prevedendo più o meno automaticamente - nel caso di scadenze del termine - il proscioglimento dell'imputato, avrebbe inevitabilmente portato al risultato di trasformare in molti casi i ritardi della giustizia in un vero e proprio diniego di giustizia. Ora, venendo al D.D.L. in esame, la disciplina in esso prevista è, a onor del vero, assai meno dirompente, non comportando effetti demolitori sul corso del processo, come invece accadeva con la prescrizione processuale; ma tuttavia vi è – come si è detto in precedenza - la riesumazione dell'idea che stabilire un termine di durata del processo equivale ad accorciarlo, e che a supporto di tale obiettivo può servire anche agitare lo spettro di sanzioni disciplinari a carico del magistrato che procede. Un'idea tanto sbrigativa quanto iniqua ed anche venata di un approccio propagandistico e demagogico. Siamo proprio sicuri che fissare un termine alle diverse fasi processuali sia la vera soluzione? E che le lungaggini del giudizio dipendano sempre dal giudice? Non sarebbe invece più adeguato esaminare quali siano le vere cause della lentezza processuale – l'eccessivo numero di processi penali, la carenza e/o l'inadeguatezza di mezzi necessari per il funzionamento degli uffici giudiziari, la scarsa informatizzazione, le regole processuali sovente farraginose e intrise di simulacri di garantismo, il modesto impatto dei riti alternativi ecc. (si perdonerà l'ulteriore autocitazione; ma sul tema, volendo, vds. G.PAVICH, Perché la giustizia in Italia non funziona – Luci, ombre, cifre, prospettive, Aracne editrice 2019, passim.) - e intervenire su quelle in modo organico e sistematico, e magari anche con il coraggio di perseguire per una volta l'efficacia concreta, e non la spendibilità mediatica o elettorale, dell'intervento legislativo? Ma, una volta formulate queste considerazioni di principio, è sul piano della prevedibile efficacia e idoneità delle specifiche disposizioni contenute nell'articolato che l'iniziativa legislativa mostra tutti i suoi limiti. Infatti, se dal piano dei principi astratti si scende all'esame in concreto del contenuto delle norme in commento, ci si rende conto che l'impatto che esse si propongono di apportare alla tempistica giudiziaria promette di essere assai modesto. Certamente non si presenta decisivo a fini acceleratori l'effetto dei nuovi termini per l'esercizio dell'azione penale di cui all'art. 12, specie se – come sembra di capire – non saranno previste sanzioni processuali ulteriori e diverse rispetto a quelle già vigenti. La stessa previsione di cui alla lettera l) dell'art. 12, secondo cui il giudice deve accertare in limine quale sia la data di effettiva acquisizione della notizia di reato onde dichiarare l'inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari, non sembra né idonea, né pertinente: è facile, da un lato, immaginare le difficoltà dell'accertamento chiesto all'organo giudicante, che sarebbe in sostanza volto a individuare eventuali discrepanze tra la data di acquisizione della notitia criminis e l'iscrizione di cui all'art. 335 c.p.p.; d'altro canto non a caso, fino ad oggi, la giurisprudenza di legittimità è sempre stata costante nell'escludere la possibilità per il giudice di retrodatare la decorrenza dei termini di durata delle indagini rispetto all'iscrizione nel registro delle notizie di reato, benché eventualmente ritardata, sul rilievo che l'obbligo di iscrizione a R.G.N.R. - che nasce solo ove a carico di una persona emerga l'esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti - rientra nell'esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è perciò sempre stato sottratto, in ordine all'an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del P.M. negligente (si veda ad es. Cass. Sez. U, Sentenza n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244376; Cass. Sez. U, Sentenza n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216248. Da ultimo, in terminis, vds. Cass. Sez. VI, Sentenza n. 4844 del 14/11/2018 - dep. 30/01/2019, Ludovisi, Rv. 275046.). In sostanza, a parte un modesto ritocco e una limitazione della proroga dei termini per le indagini, l'unica prescrizione realmente “nuova” è costituita dalla previsione di sanzioni disciplinari a carico del P.M. che ometta o ritardi di ottemperare ai doveri di notifica alle parti dell'avviso di conclusione delle indagini o di deposito della richiesta di archiviazione (v. art. 12, lettere f) e g) dell'articolato ): sanzioni disciplinari che però sono circoscritte ai casi in cui la violazione sia dovuta “a negligenza inescusabile”, con la conseguenza che, alla prevedibile inutilità del precetto, si aggiungerebbe nella generalità dei casi la probabile inapplicabilità della sanzione. A ben vedere, l'unica disposizione che, se rettamente applicata, potrebbe avere un impatto deflattivo - e come tale positivo sulla tempistica delle indagini – è quella di cui alla lettera h) dell'art. 12, laddove si prevede la facoltà, per gli uffici del pubblico ministero, di selezionare “le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”,sulla base di“criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica”; il problema è che, al di là di un generico riferimento alla “specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”, i criteri di individuazione delle priorità non risultano in alcun modo chiariti, con il risultato che, da un lato, non vi sono sostanzialmente limiti all'individuazione delle fattispecie criminose da trattare con precedenza; e che, dall'altro, saranno gli uffici requirenti – sia pure a seguito di un'interlocuzione con la Procura generale territoriale e il Presidente del tribunale – ad assumere su di sé, pressoché interamente, la responsabilità dell'individuazione di criteri di priorità incidenti sull'effettività dell'obbligatorietà dell'azione penale. A ben vedere viene solo “ufficializzata” la situazione attuale, in cui - di fatto – è rimessa alle Procure la possibilità di individuare i reati su cui indagare con priorità. Quanto, poi, alle disposizioni introduttive di termini massimi di durata dei gradi di giudizio (ancorché non propriamente di una nuova forma di “prescrizione processuale”), il D.D.L. mostra tutta la sua inadeguatezza a realizzare l'obiettivo della speditezza in esso ripetutamente declamato. In primo luogo, è decisamente criticabile e fuorviante la logica dell'imposizione di tempi massimi al processo, per di più sotto pena di sanzioni disciplinari a carico del giudice che procede: una logica che, come si è visto, ispirava anche le pregresse iniziative introduttive di forme di “prescrizione processuale” e che, oggi come allora, sembra ispirata da un malcelato preconcetto nei confronti dell'organo giudicante, quasi che fosse sempre e comunque lui, e lui soltanto, il colpevole delle lungaggini processuali, spesso legate a ben altre variabili. In secondo luogo, è del tutto generica (oltreché inidonea allo scopo) l'imposizione, a carico del giudice procedente, di un non meglio precisato dovere di “adottare misure” per definire tempestivamente i processi da lui iniziati. Dovere la cui violazione sarebbe, per di più, sanzionata in via disciplinare. Ci si chiede che cosa ne sia, in siffatta previsione, del rispetto del principio di legalità e di tassatività degli illeciti disciplinari, che come noto era stato uno degli obiettivi qualificanti della riforma ordinamentale del 2006 (sulla questione v. S. ERBANI, Gli illeciti disciplinari dei magistrati, in AA.VV., Ordinamento giudiziario: organizzazione e profili processuali, Giuffrè 2009, 435 ss.). In definitiva, quali sarebbero le misure da adottare? A quali principi dovrebbero ispirarsi? In che cosa dovrebbero concretizzarsi? Quale sarà la valutazione di idoneità di tali misure per stabilire se il magistrato ne abbia omesso l'adozione “per negligenza inescusabile”? Quali sarebbero i parametri per l'effettuazione di siffatta valutazione? Naturalmente queste critiche investono, “per li rami”, anche gli obblighi di segnalazione a carico del capo dell'ufficio. È certamente ragionevole vaticinare la completa inutilità delle prospettate sanzioni, che, per come concepite, ben difficilmente potrebbero trovare applicazione. Emergono comunque le criticità dianzi denunciate: da un lato, ragionando in astratto e in via di principio, l'iniquità della scelta di porre esclusivamente a carico dell'ufficio giudiziario – e, in primo luogo, del giudice procedente – i ritardi della giustizia, quando è noto che essi discendono da cause che, in larga parte, trascendono il singolo giudizio e possono dirsi “di sistema”; dall'altro, la sostanziale elusione dell'opzione doverosa di affrontare di petto, con decisione e anche sfidando l'impopolarità, le vere cause della lentezza dei processi in Italia, a cominciare dalla prima (il numero esorbitante delle cause sia civili che penali, che rimane da anni ai vertici europei); dall'altro ancora, la totale inidoneità in concreto dei rimedi previsti a scalfire la tempistica attuale. In definitiva, l'obiettivo di “mettere il turbo” ai nostri processi penali sembra più proclamato che realmente perseguito; l'aspirazione a una velocizzazione del sistema, più che davvero voluta, sembra consacrata in vuote formule, utili al più per una resa mediatica degli intenti riformatori, come da troppo tempo, del resto, si verifica sul piano delle riforme annunciate in ambito giudiziario. |