Cessione d'azienda e rapporti di lavoro

05 Giugno 2020

Viene classificata “trasferimento d'azienda” qualsiasi operazione che dia luogo al mutamento della titolarità dell'azienda, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento stesso è attuato, si tratti di cessione, fusione, affitto, usufrutto o conferimento d'azienda.
Inquadramento: fattispecie e norme di riferimento a tutela dei rapporti di lavoro

Viene classificata “trasferimento d'azienda” qualsiasi operazione che dia luogo al mutamento della titolarità dell'azienda, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento stesso è attuato, si tratti di cessione, fusione, affitto, usufrutto o conferimento d'azienda.

Tali negozi impongono il rispetto di una serie di tutele a favore dei rapporti di lavoro: l'art. 2112 c.c., nel passaggio dal cedente al cessionario, garantisce ai lavoratori la continuità del rapporto, i crediti vantati al tempo del trasferimento e la conservazione di taluni fondamentali diritti acquisiti presso il cedente; nonché l'art. 47 della legge n. 428/1990, con disposizioni che prevedono una procedura di consultazione sindacale ed una serie di casi in cui – ricorrendo determinate situazioni di crisi – è possibile derogare alle tutele dell'art. 2112 c.c.

Le garanzie previste dall'art. 2112 c.c.

L'art. 2112 c.c., rubricato come “mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda”, garantisce particolari tutele dei rapporti di lavoro rispetto alle vicende circolatorie dell'azienda, disponendo che:

  • il rapporto di lavoro prosegue con il cessionario, con la conservazione di tutti i diritti maturati (comma 1);
  • cedente e cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento (comma 2);
  • il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali in vigore alla data del trasferimento fino alla loro scadenza, fatta salva la loro sostituzione con contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario (comma 3);
  • il trasferimento non costituisce motivo di licenziamento ed il lavoratore può rassegnare le dimissioni per giusta causa nel caso in cui le condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda (comma 4).

Il primo e più rilevante effetto dell'art. 2112 c.c. è pertanto garantire il diritto, non derogabile, alla continuità del rapporto - nel passaggio del contratto da cedente a cessionario - al lavoratore coinvolto in modo così pregnante da prescindere dalla sua stessa volontà: il consenso del lavoratore è irrilevante, dal momento che – come afferma la Cassazione – le attività lavorative non sono separabili rispetto ai beni cui ineriscono e ciò concorre a fare dell'azienda un bene particolare idoneo a transitare ad altri soggetti nella sua interezza, intesa come normale inscindibilità tra beni materiali ed attività lavorative che agli stessi ineriscono (in tal senso, Cass. n. 14670/2004; cfr. altresì Cass. 10701/2002).

Ne consegue che il personale trasferendo ha titolo, unitamente alla conservazione del trattamento economico assicuratogli precedentemente al trasferimento, al mantenimento dell'anzianità di servizio maturata presso l'impresa di provenienza (Cass. 4 febbraio 2008, n. 2609).

Occorre tuttavia precisare che all'inderogabilità del diritto non corrisponde anche una sua indisponibilità o impossibilità di rinuncia da parte del titolare: la giurisprudenza ammette, infatti, la validità dell'atto stipulato con la società datrice di lavoro nelle forme della conciliazione in sede sindacale con cui il lavoratore, in relazione alla prevista e prossima cessione dell'azienda ad un'altra specifica società, rinunci al diritto, garantito dall'art. 2112 cod. civ., di passare alle dipendenze dell'impresa cessionaria, soprattutto quando il diritto oggetto della rinuncia in questione possa dirsi determinato ed attuale (cfr. Cass. sez. lav. 26/05/2014 n.11723).

Corollario di tale disposizione è che, come sancisce il comma 4, “il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento” ed il recesso illegittimo, intimato dal cedente in epoca anteriore al trasferimento medesimo, non impedisce che il rapporto di lavoro tra le parti originarie si trasferisca in capo al cessionario (in tal senso, cfr. Cass. 01/04/2016, n. 6387).

Secondo tale principio, il subingresso del cessionario nel rapporto di lavoro dei dipendenti dell'azienda ceduta non si verifica, a condizione che tale rapporto sia stato legittimamente risolto in tempo anteriore al trasferimento medesimo (Cass. 28/02/2012, n. 3041).

In dottrina si è giustamente osservato che, nonostante il precetto contenuto nel suddetto comma 4 dell'art. 2112 c.c., ragioni giustificatrici di un atto di recesso svincolato dal trasferimento d'azienda possano essere individuate alla luce dei criteri dell'autonomia e dell'attualità: quanto al primo di essi, il recesso si potrà ritenere legittimo se il suo motivo permarrà integro anche nel caso in cui poi il trasferimento non abbia luogo (per situazioni oggettive di tipo tecnico, organizzativo o produttivo). La verifica dell'attualità porta invece ad escludere la legittimità del licenziamento motivato da esigenze riorganizzative non caratterizzate dall'immediatezza.

Resta pertanto ferma la facoltà di esercitare il recesso, a condizione che questo abbia fondamento nella struttura aziendale, e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo (Cass., 11/06/2008, n.15495).

Il lavoratore “trasferito” ex lege al cessionario, senza che sia richiesto il suo consenso, conserva in ogni caso la possibilità di rassegnare le dimissioni per giusta causa ai sensi dell'art. 2119, comma 1, c.c., nell'ipotesi in cui le condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica “nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda”. Di tale norma, la giurisprudenza di merito tende a dare un'interpretazione piuttosto restrittiva, affermando che “l'espressione ‘modifica sostanziale' delle condizioni di lavoro di cui al comma 4 dell'art. 2112 c.c., deve intendersi riferita al solo caso in cui la variazione in peius di dette condizioni derivi dall'applicazione, al lavoratore ceduto, del contratto collettivo del cessionario in luogo di quello applicato dal cedente” (in tal senso, Trib. Bologna, 11/01/2005).

Ed inoltre sono previste delle forme di tutela in caso di modifica delle condizioni di lavoro dei dipendenti ceduti, nell'ambito della previsione di un medesimo trattamento retributivo. È infatti previsto al co. 3 che “il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento”.

I lavoratori il cui rapporto venga trasferito alle dipendenze dell'impresa cessionaria hanno dunque diritto al mantenimento del trattamento giuridico e retributivo di cui abbiano già usufruito alle dipendenze della cedente; tale disposizione mira a tutelare i crediti già maturati dal lavoratore ed i trattamenti in vigore, ma non anche a garantire l'omogeneità dei trattamenti retributivi e normativi all'interno del complesso aziendale risultante dal trasferimento. Ne consegue che i dipendenti dell'azienda ceduta non avranno titolo per pretendere che si applichino loro le disposizioni contrattuali più favorevoli previste nell'azienda subentrante in favore di coloro che erano dipendenti di quest'ultima prima della data della cessione (Cass. sez. lav. 23/12/2003, n. 19681).

Trasferimento di un ramo d'azienda

Le disposizioni dell'art. 2112 c.c. trovano applicazione anche quando il mutamento della titolarità riguardi anche solo una parte del complesso aziendale, purché potenzialmente idoneo all'esercizio dell'impresa.

Per potersi configurare una cessione riconducibile alla suddetta disciplina deve trattarsi di un'entità economica dotata di autonomia organizzativa: la Suprema Corte ha chiarito che tale criterio scriminante ai fini dell'applicazione dell'art. 2112 c.c. richiede l'esistenza in concreto di un reale nesso funzionale tra i beni, e in particolare i rapporti di lavoro, relativi alla parte di azienda da cedere ed è, al tempo stesso, idoneo a scongiurare ipotesi in cui le operazioni di trasferimento si traducano in forme incontrollate di espulsione di personale (cfr. in tal senso, Cass. sez. lav., 09/04/2015, n. 7144).

La ricorrenza di tale nesso funzionale è infatti in grado di assicurare che il complesso organizzativo ceduto sia idoneo ad iniziare o proseguire una determinata attività economica ed esclude che la disciplina codicistica possa essere applicata a cessioni che riguardino rapporti di lavoro tra loro non collegati o segmenti organizzativi inidonei allo svolgimento di un'attività d'impresa.

Tale interpretazione fa proprie le indicazioni della Corte di Giustizia (sentenza C-458/12, Caso Amatori) secondo cui il dettato letterale della Direttiva 2001/23/CE contenuto nell'art. 1, lett. b) (“è considerato trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità”) porta a ritenere incluso nel concetto di autonomia anche quello della preesistenza al trasferimento, espressione testuale ora non più presente nel comma 5 dell'art. 2112 c.c. intorno al quale si era sviluppato un intenso dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Come infatti afferma la Corte di cassazione, “si può conservare solo qualcosa che già esiste” (cfr. Cass. sez. lav. 04/12/2012, n.21711).

Elemento fondamentale e necessario perché un ramo d'azienda costituisca oggetto di trasferimento è la sua autonomia funzionale.

L'evoluzione economica e lo sviluppo tecnologico hanno evidenziato in taluni casi la sopravvenuta inadeguatezza di una nozione restrittiva di azienda: la giurisprudenza più attenta accoglie una definizione di trasferimento ampia, interpretata secondo più attenuati caratteri di materializzazione: sempre più di frequente, infatti, il valore dell'azienda non è determinato dai beni, materiali o immateriali, che la compongono, ma dal bagaglio di conoscenza dei dipendenti.

Pertanto, quand'anche non venisse ceduto un insieme di beni materiali ma solo un gruppo di lavoratori, questi potranno essere considerati come entità autonoma funzionale allo svolgimento di un'attività d'impresa purché professionalmente coesi e dotati di un corredo di nozioni e di esperienze che li rendano in grado di svolgere autonomamente – e, quindi, pur senza il supporto di beni immobili, macchine, attrezzi di lavoro o di altri beni – le proprie funzioni anche presso il nuovo datore di lavoro (cfr. Cass. sez. lav. 22/07/2002, n. 10701).

Poggia sui medesimi principi la sentenza con cui la Suprema Corte ha escluso la sussistenza del trasferimento di ramo d'azienda nel caso di cessione di un ramo d'azienda per lo svolgimento di alcuni servizi (supporto fornitori, supporto tecnico, reclami, supporto vendite, variazioni, subentri, attivazioni, standard/network/fisso, e gestione crediti) presso diverse sedi territoriali: seppure infatti con la suddetta operazione fossero stati ceduti i dipendenti pertinenti al ramo d'azienda, i contratti ad esso inerenti nonché tutti i beni mobili di alcune sedi (inclusi arredi e PC comprensivi dei sistemi operativi), rimaneva tuttavia escluso il trasferimento dei programmi e dei sistemi informatici della società cedente (Cass. n. 17366/2016).

La mancata configurabilità del trasferimento di un ramo d'azienda conduce alla diversa ipotesi di cessione del contratto che, ai sensi dell'art. 1406 c.c., richiede il consenso del contraente- lavoratore ceduto

La procedura di informazione e consultazione sindacale ex art. 47, commi 1 e 2, legge n. 428/1990 e le conseguenze del mancato o non corretto svolgimento della procedura

Prima di formalizzare il negozio giuridico finalizzato alla cessione d'azienda, le parti contrattuali sono tenute a coinvolgere in via preventiva le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con una comunicazione scritta “almeno venticinque giorni prima che sia perfezionato l'atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un'intesa vincolante tra le parti”, come prevede l'art. 47 legge. 428/1990. Sul punto, con sentenza 21/10/2015, n. 21430, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che le organizzazioni sindacali destinatarie di tale comunicazione devono essere le R.S.U. (Rappresentanze Sindacali Unitarie) o le R.S.A. (Rappresentanze Sindacali Aziendali) costituite ai sensi dell'art. 19 Stat. lav. presenti nelle unità produttive interessate dal trasferimento e i sindacati di categoria che hanno stipulato (o abbiano partecipato alle trattative di) un contatto collettivo "normativo" applicato nelle medesime unità produttive, non essendo sufficiente la firma di contratti c.d. gestionali. In mancanza delle predette rappresentanze sindacali, l'obbligo di comunicazione deve essere assolto nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi.

L'articolo 368, comma 4, lettera a), d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ha aggiunto all'art. 47 il comma 1 bis secondo il quale, a decorrere dal 15 agosto 2020, “nei casi di trasferimenti di aziende nell'ambito di procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza di cui al presente codice, la comunicazione di cui al comma 1 può essere effettuata anche solo da chi intenda proporre offerta di acquisto dell'azienda o proposta di concordato preventivo concorrente con quella dell'imprenditore; in tale ipotesi l'efficacia degli accordi di cui ai commi 4-bis e 5 può essere subordinata alla successiva attribuzione dell'azienda ai terzi offerenti o proponenti”.

Presupposto per l'avvio dell'esame congiunto ai sensi dell'art. 47 è il requisito dimensionale delle imprese coinvolte: la procedura trova infatti applicazione per i trasferimenti di aziende che occupino più di quindici dipendenti. Tale requisito deve riguardare il numero di occupati nell'intero complesso aziendale, nonostante il ramo o la parte di azienda da trasferire non raggiungano la soglia indicata. Nel silenzio della norma, si ritiene corretto effettuare il computo secondo i criteri dettati dall'art. 35, legge n. 300/1970, ovvero secondo quegli stessi utilizzati per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, in modo da fare riferimento all'occupazione che precede la data del trasferimento. Non vanno computati i dipendenti assunti con contratto di apprendistato e con contratto di inserimento, come espressamente indicato dagli artt. 53, comma 2 e 59, comma 2, d. lgs. n. 276/03, né quelli che prestano lavoro in modo saltuario od occasionale.

Il parametro dimensionale minimo di quindici lavoratori occupati nell'azienda cedente, previsto ai fini dell'obbligo di comunicazione del trasferimento d'azienda alle rappresentanze sindacali unitarie, è da ritenersi sussistente anche nel caso in cui, alla data di cessazione dell'attività, il dato numerico sia inferiore alle quindici unità per il solo fatto che una parte dei lavoratori si sia dimessa con decorrenza dal giorno prima (cfr. trib. Varese 22/09/2011).

Diverse sono le interpretazioni riguardanti la decorrenza del termine di venticinque giorni, ovvero se il dies a quo debba farsi decorrere a ritroso rispetto al perfezionamento di qualsiasi accordo che vincoli cedente e cessionario a porre in essere una vicenda traslativa idonea a produrre conseguenze sui rapporti di lavoro.

Quanto al contenuto della comunicazione, la norma in esame precisa che l'informazione deve riguardare la data del trasferimento, i motivi, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori, nonché eventuali misure prese nei confronti di questi ultimi.

Una volta inoltrata la comunicazione contenente tali informazioni, su richiesta scritta delle organizzazioni destinatarie, il cedente e il cessionario sono tenuti ad avviare, entro sette giorni, un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. Questo costituisce la fase della procedura in cui le parti interessate dalla vicenda traslativa (cedente e cessionario) si confrontano con le rappresentanze sindacali dei lavoratori. Come espressamente previsto dal comma 2 dell'art. 47, la consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto alcun accordo.

Dal tenore letterale della norma traspare che l'esame congiunto è una fase eventuale che ha luogo solamente se i sindacati dei lavoratori ne facciano richiesta e si può concludere anche con il mancato raggiungimento di un accordo. In tal caso, cedente e cessionario rimarranno liberi di dare seguito alla vicenda traslativa. In ogni caso il confronto deve essere ispirato al rispetto della buona fede e della correttezza e non presuppone un obbligo a contrarre trattandosi di una fase consultiva che non comporta necessariamente lo svolgimento di trattative.

Il mancato o non corretto adempimento della procedura integra condotta antisindacale, contro la quale i sindacati possono agire in giudizio ai sensi dell'art. 28 legge n. 300/1970, chiedendone “la cessazione e la rimozione degli effetti”.

Il mancato coinvolgimento del sindacato rileva sul piano sanzionatorio esclusivamente per quanto riguarda l'antisindacalità della condotta, ma non intacca la validità del negozio traslativo che rimane valido ed esplica tutti i suoi effetti, rimanendo al più inefficace sotto il profilo del trasferimento dei rapporti di lavoro, fino a quando i soggetti che ne sono tenuti non abbiano esperito in modo corretto la procedura.

Sul punto, infatti, la Corte di legittimità ha affermato che “la definizione in positivo, che risulta ("costituisce condotta antisindacale ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28"), del sistema sanzionatorio - per il mancato rispetto della procedura sindacale - intende escluderne, qualsiasi sanzione ulteriore e, segnatamente, qualsiasi incidenza sul trasferimento di azienda (come è confermato, peraltro, anche dai lavori preparatori della stessa legge)”. Di conseguenza, “il mancato rispetto della procedura sindacale non incide sulla validità del negozio traslativo" (in tal senso, cfr. Cass. sez. lav. n. 19238/2006).

Tuttavia, la declaratoria di antinsindacalità della condotta per omessa informativa alle organizzazioni sindacali consente, in caso di tempestivo ricorso all'azione ex art. 28, di inibire gli effetti della cessione fin tanto che le procedure non siano state debitamente rispettate, mentre, in caso di ricorso intervenuto oltre il decorso dei 25 giorni previsti dall'art. 47 per il perfezionamento della procedura, deve arrestarsi alla mera declaratoria di antisindacalità, senza che sia possibile emanare alcun ordine di rimozione degli effetti, salvi, se ricorrenti, effetti di tipo risarcitorio (Trib. Roma 21 dicembre 2010 n. 20072).

Le condizioni che consentono la disapplicazione delle tutele dell'art. 2112 c.c. nelle procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza

Quando la vicenda traslativa riguardi aziende di imprese in crisi o in stato d'insolvenza, il focus del legislatore si sposta dal piano della tutela del singolo rapporto di lavoro a quello collettivo: l'obiettivo è infatti la salvaguardia dei livelli occupazionali che viene perseguito cercando di favorire il passaggio dell'azienda dal contesto colpito da dissesto a realtà imprenditoriali in grado di risollevarne le sorti, anche – ove necessario – con il parziale sacrificio di alcuni dei diritti garantiti ai lavoratori.

In tale ottica, l'art. 47 legge n. 428/90 contiene una serie di disposizioni che regolamentano le condizioni ed i limiti per poter derogare alle tutele dell'art. 2112 c.c., frutto di interventi legislativi finalizzati a renderlo conforme all'ultima delle Direttive in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, la n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001.

L'attuale formulazione delle norme dedicate alla regolamentazione di tali aspetti è frutto di un iter articolato e travagliato, sfociato nel 2011 in una procedura di infrazione ed in una conseguente condanna da parte della Corte di Giustizia.

Prima di verificare la modalità di armonizzazione del diritto interno con quello comunitario, appare opportuno ripercorrere le tappe salienti di tale iter, seppure in sintesi.

L'art. 47, comma 5, legge n. 428/90 nella formulazione originaria consentiva di disapplicare l'art. 2112 c.c. in modo indiscriminato sia nel caso di procedure concorsuali liquidatorie (fallimento, concordato preventivo con cessione di beni, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria nel caso di continuazione di attività non disposta o cessata), sia nel caso di situazioni di crisi transitorie dirette al risanamento, a condizione che nel corso della consultazione sindacale ci fosse stato un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione.

Tale norma era ritenuta conforme alle disposizioni delle Direttive (precedenti alla citata n. 2001/23/CE, sono la n. 77/187/CEE e la n. 98/50) solo nella parte in cui consentiva di disapplicare le tutele a favore dei lavoratori nel caso di “una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente” (cfr. art. 5, comma 1, Dir. 2001/23/CE e le sentenze della Corte di giustizia 07/02/1985, causa n- 135/83 Abels e 25/07/1991, causa n. 362/89 D'Urso); problematici risultavano invece i casi di crisi risanabile che comportassero la continuazione dell'attività d'impresa: questi consentivano solo “modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa, dello stabilimento” o dei loro rami (art. 5, comma 2, lett. b) Dir. 2001/23/CE).

Di conseguenza, anche a fronte dell'inerzia del legislatore nazionale, la Commissione europea aveva promosso una procedura di infrazione a carico dell'Italia, culminata in una condanna della Corte di Giustizia proprio a causa della non conformità del previgente comma 5 dell'art. 47, legge n. 428/90 (sentenza 11 giugno 2009, C-561/07).

Con l'art. 19 quater del d.l. n. 135/2009 (convertito, con modifiche, in legge n. 166/2009) l'Italia, al fine di adeguarsi alle norme comunitarie e alla loro interpretazione da parte della Corte di Giustizia, modificava quindi l'art. 47 della legge n. 428/1990 lasciando confinate al comma 5 le ipotesi di insolvenza, liquidazione e cessazione dell'attività e aggiungendo il seguente comma 4 bis: “nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione, l'articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell'articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675; b) per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività”, integrato poi dall'art. 46 bis, comma 2, d.l. 22/06/2012, n. 83 al fine di includere tra le situazioni di risanamento della situazione economica e finanziaria dell'impresa anche le ipotesi per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo (comma 4 bis, lett. b-bis) e l'omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti (comma 4 bis, lett. b-ter).

Tuttavia, anche la nuova formulazione del comma 4 bis, con il suo riferimento al raggiungimento di un “accordo” che possa prevedere “il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione” per le situazioni di crisi aziendali in cui l'attività continui in vista del risanamento, è apparsa in contrasto con la Direttiva: questa infatti, in tali casi, dispone testualmente che l'esito del confronto che avviene durante l'esame congiunto possa semmai prevedere modifiche delle condizioni di lavoro“intese a salvaguardare le opportunità occupazionali”.

Pertanto, l'art. 368 del codice della crisi ha modificato il comma 4 bis del citato art. 47: l'accordo sindacale raggiunto all'esito delle consultazioni sindacali ora è (in sintonia con il testo della Direttiva) finalizzato alla “salvaguardia dell'occupazione” e può limitare l'applicazione dell'art. 2112 c.c. – unicamente per quanto riguarda le condizioni di lavoro – qualora il trasferimento riguardi aziende: a) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai sensi dell'articolo 84, comma 2, del codice della crisi e dell'insolvenza, con trasferimento di azienda successivo all'apertura del concordato stesso; b) per le quali vi sia stata l'omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando gli accordi non hanno carattere liquidatorio; c) per le quali è stata disposta l'amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività.

Quanto ai requisiti che l'intesa sindacale sottoscritta ai sensi dell'art. 47 deve possedere per consentire alle parti di flessibilizzare gli obblighi discendenti dall'art. 2112 c.c., la Corte di cassazione, con la sentenza 22/09/2011, n. 19282 ha chiarito che essa dev'essere idonea “a costituire la norma che regola la fattispecie ...”, riespandendosi, in caso contrario, “... con tutta la forza imperativa, la norma dell'art. 2112 cod. civ.”. Pertanto, qualora l'accordo collettivo non sia in grado di operare, “... vuoi perché privo dei requisiti minimi essenziali per essere definito tale, vuoi perché non sia in esso neppure chiaramente desumibile ... la natura eccedentaria della posizione dei lavoratore non passato alle dipendenze dell'impresa subentrante...” si versa, inevitabilmente – sempre secondo la Suprema Corte –, in una situazione che non può essere regolata, per alcuna ragione, dalla norma derogatoria collettiva, sicché la vicenda traslativa viene a trovare la sua fonte regolatrice nell'art. 2112 cod. civ., con conseguente diritto dei lavoratori di passare alle dipendenze dell'impresa cessionaria, quante volte, ovviamente, nella fattispecie sia individuabile un trasferimento di azienda”.

Molto dibattuto è il tema riguardante l'efficacia erga omnes dell'accordo sindacale stipulato ai sensi dell'art. 47 legge n. 428/90.

Accedendo alla tesi secondo cui si tratterebbe di intese con funzione gestionale (cfr. sentenza della Corte cost. 30/06/1994 , n. 268 resa in merito all'art. 5, legge 223/91 sui criteri di scelta dei lavoratori da licenziare all'esito di una procedura di licenziamento collettivo), “l'efficacia (…) si fonda sulla legge” di rinvio e quindi investirebbe anche i lavoratori non iscritti alle organizzazioni sindacali sottoscriventi.

Tuttavia, la Corte di cassazione, con la sentenza del 12/05/1999, n. 4724, ha confermato la pronuncia di merito che, con riferimento ad affitto di azienda attuato nell'ambito di un concordato preventivo con cessione dei beni, aveva escluso la legittimità della riduzione del trattamento economico, secondo le previsioni di un accordo collettivo di contenimento del costo del lavoro, nei confronti di lavoratore non iscritto alle organizzazioni sindacali stipulanti, il quale non aveva sottoscritto tale accordo, benché esso subordinasse la propria efficacia all'adesione dei singoli lavoratori.

Di contrario avviso rispetto all'efficacia erga omnes, Tribunale di Sulmona, 5 dicembre 2007, secondo il quale “l'accordo sindacale di cui all'art. 47 della legge n. 428/1990 non consente alle parti di vincolare i lavoratori non aderenti essendo a tal fine indispensabile la ratifica degli interessati”.

Proprio per evitare di correre i rischi derivanti dall'incerta e discussa efficacia erga omnes dell'accordo sindacale, nella prassi si usa far sottoscrivere ai lavoratori esclusi dal trasferimento al cessionario o colpiti in qualsiasi modo da eventuali altre deroghe alle garanzie disposte dall'art. 2112 c.c., accordi individuali nelle sedi di cui all'articolo 2113, ultimo comma del codice civile, come del resto dispone ora espressamente il comma 5-bis introdotto dall'art. 368 del codice della crisi e dell'insolvenza.

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