Il reato di violazione di sigilli in relazione alle vicende del sottostante provvedimento di sequestro

Gianluca Bergamaschi
25 Giugno 2020

La questione verte sulle condizioni alle quali il destinatario di un sequestro ed avente diritto alla restituzione, possa autonomamente rimuovere i sigilli apposti e/o, comunque, reimpossessarsi del bene, senza violare l'art. 349 c.p., ossia…
Abstract

La questione verte sulle condizioni alle quali il destinatario di un sequestro ed avente diritto alla restituzione, possa autonomamente rimuovere i sigilli apposti e/o, comunque, reimpossessarsi del bene, senza violare l'art. 349 c.p., ossia, in pratica, se, intervenuto un provvedimento formale di dissequestro o essendosi realizzate le condizioni giuridiche di caducazione del sequestro, egli possa considerare cessato il vincolo reale o debba attendere l'esecuzione della formale rimozione dei sigilli e della restituzione da parte degli organi a ciò preposti.

Le posizioni giurisprudenziali

La giurisprudenza maggioritaria si attesta su posizioni rigoriste circa la ricorrenza del reato, ogni volta che, a fronte del giuridico venir meno del sequestro, non si attenda la formale rimozione dei sigilli, prima di riappropriarsi del bene ed usarne (Cass. pen., Sez. III, n. 8643/1998; Cass. pen., Sez. III, n. 3954/1997; Cass. pen., Sez. III; n. 47443/2003) (nello stesso senso, per la specifica problematica del sequestro non convalidato: Cass. pen., Sez. VI, n. 7278/1090; Cass. pen., Sez. VI, n. 14665/1990; Cass. pen., Sez. VI, n. 5992/91; Cass. pen., Sez. VI, n. 6929/1991; Cass. pen., Sez. III, n. 2393/1992; Cass. pen., Sez. III, n. 8354/1994).

In quest'ottica si segnalano due recenti sentenze: Cass. pen., Sez. III, n. 37913/2012 e la Cass. pen., Sez. III, n. 5430/17, le quali s'incaricano di confermare l'orientamento e di ribadirne le ragioni.

Cass. pen., Sez. III, n. 37913/2012, infatti, a fronte di un sequestro operato dalla P.G. e poi non convalidato nei termini di legge, ribadisce l'orientamento ritenuto prevalente, secondo il quale: «In tema - di violazione di sigilli, la giurisprudenza di legittimità è concorde nell'affermare che "una volta che il vincolo sia apposto, a tutela dell'identità e della conservazione della cosa, esso non può essere violato dal privato sino a che non venga formalmente rimosso dall'autorità competente" (vedi Cass. pen., Sez. Sez. 3; 11.12.2003, n. 47443; 25.7.1998, n. 8643; 29.4.1997, n. 3954)»; significando pure che: «Questa Corte Suprema ha altresì costantemente affermato, in particolare, l'assoluta irrilevanza che il sequestro in base al quale furono apposti i sigilli non sia stato poi convalidato (vedi, ad esempio, Cass. pen., Sez. Sez. 3: 16.5.1996, n. 4915, Pinto; 23.7.1994, n. 8354, Di Lorenzo; 5.3.1992, n. 2393, Santagata; e Sez. 6: 28.6.1991, n. 6929, Anastasio; 30.5.1991, n. 5992, Melillo; 9.11.1990, n. 14665, Di Gennaro; 15.1.1990, n. 7278, Veneruso)».

Alla stessa stregua Cass. pen., Sez. III, n. 5430/2017 – in un contesto fattuale in cui il bene venne dissequestrato con sentenza di merito, passata in giudicato anteriormente al fatto incriminato, e a fronte dell'autonoma rimozione dei sigilli, con il reimpossessamento del bene, senza una formale procedura di esecuzione della restituzione con la rimozione dei sigilli – ritiene sussistente il reato, giacché: «… il vincolo e, soprattutto, i suoi segni esteriori, permanevano ancora alla data del (OMISSIS), non essendo a tale data ancora stato eseguito il dissequestro del bene, ed occorrendo tale atto per far cessare tutti gli effetti derivanti dalla apposizione del vincolo, non essendo comunque consentito ai titolari di diritti sul bene sequestrato, sul quale siano stati apposti i segni esteriori della apposizione del vincolo, intervenirvi in assenza del dissequestro, della restituzione e, soprattutto, della rimozione dei segni esteriori del vincolo da parte degli organi dell'esecuzione.

Benché, infatti, il provvedimento di dissequestro determini il venir meno del vincolo sui beni sui quali era stato imposto, esso richiede pur sempre di essere eseguito, mediante la rimozione dei segni esteriori del vincolo e la reimmissione dell'avente diritto alla restituzione nella disponibilità del bene, cui tale soggetto non può provvedere direttamente, dovendo essere eseguito il provvedimento di dissequestro e restituzione dagli organi preposti alla sua esecuzione, che hanno anche il compito di individuare l'avente diritto cui materialmente restituire i beni: ne consegue che fino a quando non sia eseguito il dissequestro, con la restituzione del bene all'avente diritto previa rimozione dei sigilli, permane il vincolo di indisponibilità materiale del bene e con esso anche l'efficacia dei sigilli che lo rendono manifesto».

A fronte di tale orientamento, però, ne persiste un altro di segno radicalmente opposto, ossia teso a negare la ricorrenza del reato in caso di autonoma rimozione dei sigilli, successiva al giuridico venir meno del provvedimento di sequestro.

Già Cass. pen., Sez. VI, n. 738/1986, partendo dalla ratio della norma incriminatrice, afferma che: «Oggetto specifico della tutela penale del reato di violazione di sigilli, è l'interesse concernente il normale funzionamento della pubblica amministrazione in senso lato, in quanto intende garantire il rispetto dovuto a quella custodia mediante la quale si manifesta la volontà dello Stato intesa ad assicurare cose, mobili od immobili, contro ogni atto di disposizione o manomissione da parte di persone non autorizzate»; per cui: «… il reato di violazione di sigilli non può più sussistere dal momento in cui viene meno la volontà della pubblica amministrazione inizialmente manifestata con l'apposizione dei sigilli e ciò anche quando le formalità ufficiali della rimozione dei sigilli non siano state materialmente eseguite».

Il concetto è interamente ribadito dalla Cass. pen., Sez. VI, n. 6342/1994, la quale, inoltre, precisa che: «… il dissequestro, determinando la cessazione del vincolo cautelare, priva i sigilli di rilevanza giuridica ed impedisce la configurabilità stessa del reato ove il privato li rimuova senza attendere l'intervento degli organi esecutivi all'uopo delegati».

È, infine, parimenti indirizzata anche la recentissima Cass. pen., Sez. III, n. 44288/2019, che – partendo dal fatto di un bene sottoposto al vicolo del sequestro preventivo, rimosso, con sentenza di merito, al fine della demolizione del manufatto abusivo, nel frattempo, ulteriormente modificato dall'agente – fa propria l'idea che: «… il delitto di violazione di sigilli, di cui all'art. 349 c.p., non si configura allorchè la ripresa dell'attività edilizia sia avvenuta prima della rimozione dei sigilli, ma successivamente alla revoca del sequestro da parte dell'autorità giudiziaria, atteso che il fine di assicurare la conservazione ed identità della cosa risulta superato dalla nuova statuizione del giudice»; giacché: «… il dissequestro, determinando la cessazione del vincolo cautelare, priva i sigilli di rilevanza giuridica ed impedisce la configurabilità stessa del reato ove il privato li rimuova senza attendere l'intervento degli organi esecutivi all'uopo delegati».

La Corte, infatti, ritiene che tale orientamento: «… sia più conforme allo spirito ed alla finalità della disposizione che si assume violata; con essa, infatti, il legislatore ha inteso tutelare non l'astratta integrità dei segni apposti onde rendere manifesta l'avvenuta sottrazione del bene sigillato alla disponibilità di chi in precedenza lo possedeva, ma, appunto, la integrità ed immodificabilità del bene.

Si tratta, pertanto, di una tutela di carattere funzionale e non meramente formale; di ciò costituisce indicazione sia la stessa lettera della legge, laddove, nel testo dell'art. 349 c.p. ci si riferisce ai sigilli apposti "al fine di assicurare la conservazione o la identità della cosa", essendo in tal modo posto in luce che la violazione dei sigilli è penalmente sanzionata in quanto attraverso di essa è posta a repentaglio la conservazione o la identità di una cosa che, invece, l'ordinamento ha interesse che rimanga invariata, sia la radicata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale - a dimostrazione del fatto che il reato si realizza non tanto attraverso la materiale rimozione dei sigilli quanto attraverso la immutatio loci - integra la violazione della disposizione sopra richiamata qualsiasi condotta idonea ad eludere l'obbligo di immodificabilità del bene, pur in assenza di sigilli o segni esteriori dell'avvenuto sequestro (che, pertanto, non essendoci neppure possono essere materialmente infranti oppure concretamente violati), sempre che si tratti di soggetto comunque edotto del vincolo posto sul bene (Corte di cassazione, Sezione III penale 1 ottobre 2018, n. 43169).

Ritiene, pertanto, il Collegio che, laddove il provvedimento di sequestro, al cui rispetto sia stata preordinata la apposizione dei sigilli sia stato revocato, essendo in tal modo evidenziato il venir meno dell'interesse dell'ordinamento al mantenimento dello status quo, l'eventuale violazione dei sigilli diventerebbe un fatto materiale privo del requisito della offensività, e, perciò, penalmente insignificante, in quanto non sussisterebbe più il bene-interesse, id est la necessità di immutabilità dei luoghi, che la norma formalmente violata era destinata a tutelare».

L'arresto si mostra consapevole dell'esistenza di un opposto indirizzo, che, tuttavia, respinge, non solo per le predette ragioni, ma pure perché, con ciò, si farebbe dipendere l'efficacia del provvedimento di dissequestro da un intervento meramente esecutivo, la cui tempistica può dipendere da fattori contingenti e tali da determinare: «… la possibile derivante protrazione della privazione del bene in capo a chi lo deteneva da una parte e proroga delle responsabilità connesse, ad esempio, alla qualità di custode del bene sequestrato - in assenza di una qualsiasi causa che giustifichi la protrazione del vincolo, essendo questo stato ritenuto non più necessario dalla autorità che ha provveduto alla revoca del sequestro»; per cui, conclude che: «… una volta venuto meno il provvedimento in forza del quale i sigilli erano stati apposti, la loro eventuale violazione, senza che abbia un qualche rilievo la circostanza che gli stessi siano stati materialmente rimossi da parte della Autorità competente, non sia condotta tale da integrare gli estremi del reato di cui all'art. 349 c.p.».

Vi sono, poi, alcune sentenze che sfuggono a questa radicale contrapposizione, operando dei distinguo dai quali far dipendere la ricorrenza o meno del reato.

Si veda, ad esempio, Cass. pen., Sez. III, n. 4915/1996, la quale – nel contesto di un sequestro probatorio della p.g., non convalidato dal P.M. nei termini di cui all'art. 355 c.p.p. – riafferma la tesi maggioritaria, ma limitatamente a tale tipologia di sequestro, osservando che: «La giurisprudenza costante di questa corte ha statuito che per integrare il reato de quo è sufficiente che i sigilli siano apposti per disposizione di legge o per ordine di un'autorità competente, amministrativa o giudiziaria, indipendentemente dalla legittimità e dall'efficacia del provvedimento. Conseguentemente, se è stato violato un sequestro, non rileva la illegittimità del medesimo (che potrà essere rimossa solo con i rimedi processuali previsti) o la sua mancata convalida (la quale non comporta automaticamente la caducazione del vincolo di intangibilità, che resta fermo sino a che non sia ordinata la restituzione delle cose sequestrate)»; in quanto: «… l'art. 355 c.p.p. non contiene nessuna sanzione per il caso in cui la convalida del pubblico ministero non intervenga entro i termini stabiliti»; mentre nega la validità attuale dell'orientamento e quindi esclude la ricorrenza del reato, circa il sequestro preventivo: «… giacché il comma 3-ter dell'art. 321 c.p.p., introdotto col d.lgs. 14.1.1991 n. 12, stabilisce espressamente la perenzione del sequestro disposto in via d'urgenza dal p.m. o dalla p.g. se non interviene nei termini prescritti la convalida del giudice».

Più strutturale è, invece, la suddivisione operata dalla Cass. pen., Sez. III, n. 8668/2007, la quale – in una cornice fattuale in cui intervenne una sentenza di patteggiamento con dissequestro del bene e, successivamente, la rimozione dei sigilli e l'utilizzo dello stesso da parte dell'agente – distingue tra “illegittimità ed inefficacia del provvedimento di sequestro”, per i quali: «… la legge prevede solo che i sigilli siano apposti per imposizione normativa o per ordine della autorità non richiedendo, anche, che il relativo provvedimento sia immune da vizi che, se esistenti, possono essere fatti valere utilizzando i rimedi che l'ordinamento predispone»; dalla “venuta meno per disposizione della autorità giudiziaria, senza che i sigilli siano stati formalmente rimossi”, in quanto, nel primo caso, il reato è sussistente, mentre nel secondo no, giacché: «L'interesse protetto dalla norma dell'art. 349 c.p. consiste nel rispetto dei segni esteriori che sono la manifestazione della volontà, della legge o della competente autorità, di impedire atti di manomissione o di disposizione del bene da parte di persone non autorizzate. Ora, nel caso concreto, il fine di assicurare con il sigillo la conservazione o la identità della cosa era superato con la statuizione irrevocabile del Giudice che aveva revocato il sequestro con conseguente restituzione del bene allo avente diritto»; cosicché: «era venuto meno l'interesse pubblico a garantire l'intangibilità del bene mediante un sigillo che era il simbolo di un ordine del Giudice caducato con la sentenza irrevocabile. Dal momento che i sigilli erano privi di rilevanza giuridica e non vi era uno status quo da preservare, il privato era facoltizzato a rimuoverli senza attendere l'intervento degli organi esecutivi all'uopo delegati (conf. Cassazione, sezione sesta, sentenza n. 6342/1994)».

Considerazioni critiche

La giurisprudenza di legittimità, dunque, sviluppa tre tendenze: l'una rigidamente “formalista”, tesa a sanzionare sempre l'autonoma rimozione dei sigilli, con reimpossessamento del bene, da parte dell'avente diritto alla restituzione; l'altra più “sostanzialista”, che, escludendo il reato, consente tale possibilità, ogniqualvolta il sequestro sia giuridicamente venuto meno; infine, un'altra incline a operare dei distinguo legati agli aspetti giuridici propri della disciplina o della natura del sottostante sequestro.

La prima, si focalizza sull'idea che la ratio della norma incriminatrice s'incentri sulla tutela dei sigilli in sé e per sé considerati, quasi, nella loro pura e semplice materialità, finendo per tutelare, più che la “volontà della pubblica amministrazione”, la sua dimensione “autoritaristica” e “paternalistica”, come se un'autonoma rimozione dei sigilli da parte del soggetto agente, configurasse una sorta di lesa maestà, a prescindere dalle vicende giuridiche del sequestro e a dispetto del bene giuridico espressamente tutelato dalla norma.

L'unico punto a favore della posizione formalista, è rinvenibile nella questione della “individuazione dell'avente diritto”, a cui attenderebbe la procedura esecutiva della restituzione con la formale rimozione dei sigilli, nel senso che, consentire al privato destinatario del sequestro di farlo autonomamente, potrebbe compromettere l'eventuale diritto di un terzo.

Ora, sul punto, è però osservabile, intanto, che ciò può avere rilevanza solo allorché vi sia effettivamente una discrasia fra i due soggetti; inoltre, e in ogni caso, l'argomento non sembra calzante, giacché nulla ci può indurre a ritenere che lo scopo della norma sia quello di tutelare il “diritto alla restituzione del titolare effettivo”, sicché, ove concretamente si ponesse il problema, il soggetto pretermesso potrebbe, eventualmente, trovare tutela o in altre norme penali, ricorrendone le condizioni, ovvero nella disciplina civilistica.

Del resto, di regola, il bene va restituito al proprietario, il quale, di solito, corrisponde al soggetto in capo al quale è stato operato il sequestro, tanto che l'art. 324, comma 8, prevede che il giudice del riesame, a fronte di controversie sulla proprietà, debba investirne il giudice civile, mantenendo, nel frattempo, il sequestro; dal che si capisce come, in realtà, il compito d'individuare l'avente diritto alla restituzione, appartenga alla fase decisoria e non, autonomamente, a quella esecutiva, di talché l'argomento appare poco appropriato giuridicamente, oltre che poco rilevante sul piano pratico.

La seconda, di contro, valorizza proprio le vicende giuridiche del sequestro, ritenendo che la ratio della norma non tuteli i segni esteriori del provvedimento, ma l'intangibilità del bene in quanto e fino a quando sia ad esso sottoposto, cosicché, una volta venuto meno quest'ultimo e privati di rilevanza giuridica i relativi sigilli, la loro rimozione, senza attendere la procedura esecutiva dell'autorità competente, non possa costituire il reato di cui all'art. 349 c.p., perché, tale condotta, non può più offendere il bene giuridico tutelato dalla norma.

Tale indirizzo ha pure il pregio di porsi e di risolvere il problema pratico, ma di rilevanza giuridica costituzionale (artt. 3 e 42), della fattuale protrazione di un sequestro giuridicamente cessato, laddove la procedura esecutiva formale venga ritardata e, cionondimeno, si voglia sanzionare penalmente l'avente diritto alla restituzione che, stanco di aspettare, rimuova i sigilli e si riprenda il bene; cosicché, tale interpretazione dell'art. 349 c.p., appare pure quella più costituzionalmente orientata.

Circa la terza tendenza, infine, essa ha il difetto di eludere la questione sul piano sistemico, finendo per utilizzare elementi di distinzione del tutto arbitrari.

Che senso ha, infatti, far dipendere, a parità di condotta, la ricorrenza del reato dalla presenza o meno di una sanzione processuale, quale l'espressa previsione della perdita di efficacia (prevista per il sequestro preventivo e non per quello probatorio), laddove sia certa ed irrimediabile la venuta meno dell'esistenza giuridica del provvedimento reale, sia esso cautelare o probatorio.

Ancor meno conferente appare la distinzione tra “illegittimità ed inefficacia del provvedimento di sequestro” e “venuta meno per disposizione della autorità giudiziaria”, giacché, quello che conta, è la definitività della sorte toccata al provvedimento ablativo (inefficacia ex lege, annullamento, mancata concessione, conferma o convalida, ecc.), ossia il reato potrà essere configurabile solo fintanto che esso sia ancora giuridicamente in essere e, eventualmente, sub iudice, senza distinguere fra decisione ancora da prendere e decisione presa, ma impugnabile; l'unica cosa che conta, quindi, è, in ogni caso, la perenzione dei termini per un'eventuale impugnazione e, comunque, l'irreversibilità giuridica della sorte procedimentale toccata al sequestro.

In conclusione

Ciò detto, spiace, ancora una volta, dover costatare come sia la giurisprudenza più incline al formalismo a prevalere, ma tant'è, per cui si è portati a rispondere, alla domanda di partenza, nel senso di evitare, per prudenza, l'autonoma rimozione dei sigilli, quand'anche la procedura esecutiva di restituzione si faccia attendere.

Ciò, sebbene tale impostazione, sia, invero, assolutamente rigettabile, in primis, perché non è “costituzionalmente orientata”; inoltre, perché pecca, paradossalmente, di scarsa testualità, visto che l'art. 349 c.p. indica espressamente la finalità sostanziale dei sigilli, che, quindi, nulla valgono di per sé stessi e non possono, da soli, fondare la costituzione e la ricorrenza di un reato.

Ciò che più inquieta, però, è l'indifferenza circa le conseguenze di una tutela così esasperata della forma e dei segni esteriori dell'autorità pubblica, in contrapposizione al diritto di vedersi reso un bene sottratto per effetto di un provvedimento giuridicamente non più esistente o divenuto inefficace.

Tuttavia, come supra indicato, l'orientamento “sostanzialistico”, non recede di fronte alla quantità avversa, forte com'è della qualità delle sue argomentazioni giuridiche.

Ad ogni buon conto, un chiarimento risolutivo s'impone, giacché la ricorrenza o meno di un reato non può essere affidata alla pura alea della composizione di un collegio giudicante, ed è lecito sperare che esso conduca al superamento di una logica di difesa oltranzista delle vestigia esteriori di una “autorità pubblica”, che, così facendo, cerca di elidere le proprie carenze, inefficienze e ritardi, ma riesce solo a risultare “autoritaria” anziché “autorevole”, perché troppo palesemente incline a ribadire e tenere fermi quelli che, ad un certo punto, sono puri e semplici “segni del comando”.

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