Alessandro Corrado
30 Giugno 2020

l Codice della Crisi e dell'Insolvenza disciplina per la prima volta in modo organico la sorte dei rapporti di lavoro subordinato in caso di apertura della liquidazione giudiziale. L'art. 189 definisce infatti un articolato quadro normativo che in gran parte si rifà ad orientamenti giurisprudenziali consolidatisi nel tempo sotto il vigore delle norme della Legge fallimentare del 1942 (quali quelli che stabiliscono la sospensione del rapporto alla data di apertura della procedura, comma 1), ma introduce anche regole nuove quando non innovative: è il caso della risoluzione di diritto del rapporto di lavoro che opera in mancanza di subentro o recesso, decorsi quattro mesi dalla sentenza dichiarativa (comma 3) e delle dimissioni del lavoratore, qualificate ex lege per giusta causa quando intervengano una volta "trascorsi quattro mesi dall'apertura della liquidazione giudiziale" (comma 5).

Inquadramento

Il Codice della Crisi e dell'Insolvenza disciplina per la prima volta in modo organico la sorte dei rapporti di lavoro subordinato in caso di apertura della liquidazione giudiziale.

L'art. 189 definisce infatti un articolato quadro normativo che in gran parte si rifà ad orientamenti giurisprudenziali consolidatisi nel tempo sotto il vigore delle norme della Legge fallimentare del 1942 (quali quelli che stabiliscono la sospensione del rapporto alla data di apertura della procedura, comma 1), ma introduce anche regole nuove (come quelle riguardanti la procedura di licenziamento collettivo semplificata, comma 6), quando non innovative: è il caso della risoluzione di diritto del rapporto di lavoro che opera in mancanza di subentro o recesso, decorsi quattro mesi dalla sentenza dichiarativa (comma 3) e delle dimissioni del lavoratore, qualificate ex lege per giusta causa quando intervengano una volta "trascorsi quattro mesi dall'apertura della liquidazione giudiziale" (comma 5).

Il Codice conferma inoltre l'insensibilità del rapporto di lavoro all'apertura del concordato preventivo, disponendo quindi implicitamente che commissario e liquidatore dovranno gestirlo secondo le ordinarie norme del diritto del lavoro.

I rapporti di lavoro nella Legge Fallimentare del 1942

Il Regio Decreto n. 267/1942 non disciplina in modo specifico gli effetti del fallimento sui rapporti di lavoro subordinato e l'art. 2119, comma 2 del codice civile (nel testo attuale e fino a quando non entrerà in vigore il Codice, il cui art. 376 ne prevede la riformulazione) dispone unicamente che "il fallimento dell'imprenditore non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto": quindi l'apertura della procedura fallimentare non determina la risoluzione del contratto di lavoro.

In questo lacunoso panorama normativo, ci si è quindi chiesti se ai rapporti di lavoro fosse applicabile o meno l'art. 72 della (ormai prossima alla pensione) Legge fallimentare e la disciplina ordinaria dei licenziamenti.

L'art. 72 è in realtà dedicato ai "rapporti pendenti" in generale e dispone che se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l'esecuzione del contratto ... rimane sospesa fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo.

Mentre in dottrina si sono registrati contrasti circa l'applicabilità di tale norma al rapporto di lavoro, la giurisprudenza è oramai favorevole.

Ne consegue che, una volta dichiarato il fallimento, il rapporto entra in una fase di sospensione dalla quale uscirà solo quando il curatore dichiarerà di subentrare nel contratto o di sciogliersi da esso (cfr., per tutte, Cass. 14 maggio 2012, n. 7473); durante tale fase rimangono sospese anche le rispettive obbligazioni (quali le prestazioni lavorative a carico del lavoratore e quelle retributive e contributive a carico del curatore); il recesso del curatore dal rapporto di lavoro ha effetto con decorrenza alla data di apertura del fallimento e quindi la relativa indennità sostitutiva del preavviso andrà richiesta in via privilegiata ex art. 2751-bis n. 1 c.c. con apposita domanda di ammissione al passivo, proprio in considerazione del fatto che il licenziamento non avviene per giusta causa.

La giurisprudenza ha raggiunto un orientamento consolidato anche con riguardo all'applicabilità della disciplina dei licenziamenti: tra le più recenti, infatti, la Cassazione, con sentenza 11 gennaio 2018, n. 522, ha chiarito che "la decisione del curatore di sciogliersi dal rapporto di lavoro sospeso ex art. 72 alla data di apertura del fallimento dev'essere esercitata nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo sottratta ai vincoli dell'ordinamento lavoristico".

L'impianto normativo dell'art. 189 CCII: la sospensione ed il subentro

In continuità con il quadro normativo e giurisprudenziale vigente con la legge fallimentare del 1942, il comma 1, primo periodo, dell'art. 189 del Codice della crisi e dell'insolvenza dispone innanzitutto che "l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento" --> art. 2119 c.c.

Il secondo periodo del comma 1, recependo l'orientamento giurisprudenziale formatosi con l'interpretazione dell'art. 72 l.f., stabilisce la sospensione dei rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale.

I rapporti restano "sospesi fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso".

L'art. 189 (comma 2) ha introdotto a carico della curatela un nuovo adempimento consistente nell'inviare all'Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo dov'è stata aperta la liquidazione giudiziale un elenco dei dipendenti dell'impresa in forza al momento dell'apertura della procedura, entro 30 giorni dalla sua nomina. Tale termine può essere prorogato dal Giudice Delegato di ulteriori 30 giorni quando l'impresa occupa più di cinquanta dipendenti".

La finalità sembra riconducibile alla necessità di acquisire in tempi rapidi piena cognizione dei rapporti di lavoro pendenti alla data di apertura della procedura.

Qualora il curatore non dovesse ricevere un'adeguata informativa in tal senso da parte dell'imprenditore assoggettato alla liquidazione giudiziale, potrà ricavarle dal c.d. Cassetto previdenziale aziendale Inps, a condizione che i flussi uniemens (ovvero lo strumento con il quale il datore di lavoro comunica all'Istituto i redditi percepiti dai propri dipendenti nel periodo di paga di riferimento, sul quale devono essere calcolati i contributi previdenziali dovuti all'Istituto nazionale della previdenza sociale) siano stati trasmessi in modo corretto e siano aggiornati.

Tanto precisato, occorre osservare che la norma non prevede alcuna sanzione per il caso in cui il curatore ometta l'adempimento: di tal che è lecito dubitarne dell'efficacia.

Come si evince dal comma 3 dell'art. 189, i rapporti di lavoro possono restare sospesi senza dare origine ad obbligazioni retributive e contributive per un periodo di 4 mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.

Il periodo di sospensione può essere prorogato dal Giudice Delegato di un ulteriore periodo non superiore a otto mesi su istanza qualora sussistano possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell'azienda o di un suo ramo.

Legittimati a richiedere tale proroga sono Curatore, Direttore dell'ITL e singoli lavoratori, purché - a pena di inammissibilità - entro quindici giorni prima della scadenza del periodo di 4 mesi.

La sospensione dei rapporti può quindi arrivare in totale a 12 mesi e costituisce un effetto dell'apertura della liquidazione giudiziale.

Al contrario, il subentro del curatore nei rapporti necessita, come chiarisce il comma 1 dell'art. 189, dell'autorizzazione del Giudice Delegato, previo parere del Comitato dei Creditori.

A differenza della sospensione, che retroagisce alla data di apertura della liquidazione giudiziale, il subentro decorre invece - come stabilisce il comma 2 - dalla comunicazione del curatore ai lavoratori: pertanto, dalla data di apertura della liquidazione al subentro, non sono dovute retribuzioni e contribuzioni.

Diversa è la regola nel caso in cui il tribunale autorizzi il curatore all'esercizio provvisorio dell'impresa del debitore, ai sensi dell'art. 211, comma 8, del Codice della crisi: in tal caso, come precisa il comma 9 dell'art. 189 CCII, i rapporti di lavoro proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderli o procedere al licenziamento secondo le norme della disciplina lavoristica vigente.

Evidentemente, la scelta di sospendere tutti o (ipotesi più realistica) solo una parte dei rapporti di lavoro nel corso dell'esercizio provvisorio dipenderà dalle esigenze organizzative e produttive da verificare di volta in volta.

Dal momento che la prosecuzione dei rapporti nel caso di esercizio provvisorio costituisce la regola, il subentro del curatore sarà automatico ed avverrà senza necessità di forma o comunicazione in tal senso.

Avvenga o meno nell'ambito della continuazione dell'attività disposta dal tribunale, il subentro comporterà a carico della liquidazione giudiziale il sorgere di obbligazioni retributive e contributive mensili in prededuzione, così come - una volta intervenuto il recesso - per l'indennità sostitutiva del preavviso e delle quote di TFR maturate dalla data di apertura della procedura.

(segue): il recesso individuale

Chiariti a grandi linee gli effetti dell'apertura della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro, è necessario verificare tempistiche, modalità e forme con cui il curatore deve esercitare il recesso dai rapporti di lavoro.

Il comma 3 dell'art. 189 CCII indica innanzitutto che "qualora non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell'azienda o di un suo ramo o comunque sussistano manifeste ragioni economiche inerenti l'assetto dell'organizzazione del lavoro", egli dovrà procedere "senza indugio al recesso dai relativi rapporti di lavoro subordinato" che dovrà essere effettuato per iscritto, dopo aver acquisito il parere del comitato dei creditori e l'autorizzazione del giudice delegato.

Seguendo l'orientamento giurisprudenziale predominante (oltre alla già citata Cass., 11 gennaio 2018, n. 522, cfr. inoltre Cass. 22 ottobre 2018, n. 26671, Cass. 23 marzo 2018, n. 7308) il recesso dovrà avvenire applicando le ordinarie norme del diritto del lavoro.

Pertanto, sia nell'ipotesi di cessazione dell'attività aziendale, quanto in quella di trasferimento d'azienda (che verosimilmente avverrà nell'ambito dell'art. 47, legge n. 428/1990, in deroga all'art. 2112 c.c. e con conseguente passaggio parziale dei dipendenti), il curatore dovrà scegliere lo strumento corretto per gestire il personale in esubero.

Il tipo di procedura da seguire - tra licenziamenti individuali e licenziamenti collettivi - dipenderà dal numero dei dipendenti in carico alla procedura e dei recessi da intimare: il curatore potrà metter mano ai primi sia quando il numero dei lavoratori sia inferiore a quindici unità, sia nel caso in cui, pur essendo superiore a tale soglia, il numero dei recessi non ecceda quattro unità (se, infatti, i licenziamenti fossero almeno cinque, sarebbe obbligatorio il ricorso alla disciplina dei licenziamenti collettivi prevista dalla legge n. 223/1991).

In tale ultimo caso, tuttavia, prima del recesso il curatore dovrà attivare la procedura disciplinata dall'art. 7, legge n. 604/1966 con una comunicazione (da inviare all'Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo in cui il lavoratore presta la sua opera) che ne preannuncia intenzioni e motivazioni dando così avvio al tentativo di conciliazione in sede amministrativa. Tale regime è applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, non rientranti quindi nel regime del c.d. Jobs Act.

L'onere della motivazione, imposto dall'art. 2, legge n. 604/1966 dovrà essere assolto facendo riferimento al giustificato motivo oggettivo previsto dall'art. 3 della legge n. 604 del 1966. A tal proposito, sarà opportuno, se non necessario, fare riferimento alla cessazione dell'attività ed alla conseguente impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle svolte, adempiendo così all'onere di allegare (e provare nell'eventuale giudizio sulla legittimità del recesso) l'impossibilità del c.d. repêchage del lavoratore licenziato, che per giurisprudenza costante incombe sul datore di lavoro (Cass., sez. lav., 12 febbraio 2020, n.3475).

L'indicazione delle ragioni del recesso individuale singolo o plurimo sarà per il curatore compito ancor più delicato nel caso di continuazione anche parziale dell'attività, per via dell'autorizzazione all'esercizio provvisorio (anche se solo limitatamente ad alcuni rami aziendali) o per il disbrigo di commesse già avviate, ovvero ancora per adempimenti di natura amministrativa, contabile e fiscale, soprattutto nel caso in cui le posizioni lavorative siano fungibili (è il caso di due o più lavoratori impiegati per lo svolgimento dei medesimi compiti): in tal caso la decisione dei lavoratori da licenziare dev'essere effettuata alla luce di criteri che garantiscano scelte imparziali ed obiettive.

Soccorre a tal fine l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo la quale, pur non versandosi nell'ipotesi di licenziamento collettivo regolata dalla Legge n. 223/1991, la legittimità di un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo indotto da esigenze inerenti all'attività produttiva dipende, oltre che dalla condizione della comprovata impossibilità di utilizzare "aliunde" il lavoratore licenziato, anche dal rispetto delle regole di correttezza di cui all'art. 1175 c.c., che nel caso in esame possono essere desunte, in via analogica e pur nella diversità dei rispettivi regimi, proprio dalla legge n. 223/1991, potendosi far riferimento in particolare ai criteri dei carichi di famiglia, dell'anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (cfr. Cass., 21 novembre 2001, n. 14663, Trib. Monza, 16 maggio 2005 in Riv. crit. dir. lav. 2005, 4, p. 894).

(segue): il licenziamento collettivo: requisiti e procedura semplificata ex art. 189, comma 6 CCII

Per le imprese di maggiori dimensioni, il curatore dovrà verificare la sussistenza delle due condizioni che impongono l'attivazione della procedura di licenziamento collettivo, secondo l'iter disciplinato dal comma 6 dell'art. 189 CCII: la prima riguarda l'impresa ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale che, nel corso di attuazione di uno dei programmi previsti dall'art. 21, d.lgs. n. 148/2015, non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative ai licenziamenti e troverà applicazione alle imprese in possesso dei requisiti per l'accesso alla CIGS individuati dall'art. 20, d.lgs. n. 148/2015 (più di quindici o cinquanta dipendenti occupati mediamente nel semestre precedente la data di presentazione della domanda, rispettivamente per le imprese industriali e per quelle esercenti attività commerciale, logistica, agenzie di viaggio e turismo).

La seconda consiste nella riduzione di personale che le imprese con più di quindici dipendenti devono esperire anche a prescindere dalla preventiva ammissione al trattamento straordinario di integrazione salariale, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività che renda necessario effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia.

Ai fini della verifica della sussistenza del requisito dimensionale necessario per poter valutare la necessità di avviare la procedura di licenziamento collettivo, i criteri per il computo dei lavoratori sono indicati dall'art. 27, d.lgs. n. 81/2015.

La formulazione scelta dal legislatore ("nel caso in cui il curatore intenda procedere a licenziamento collettivo"), uguale a quella prevista dall'art. 4, legge n. 223/1991 non deve trarre in inganno: il curatore non è titolare di una facoltà, ma di un vero e proprio obbligo.

Pertanto, qualora sussista il requisito dimensionale nella misura sopra considerata, esperire la procedura, anche nel caso in cui l'attività d'impresa sia già cessata prima dell'apertura della liquidazione giudiziale, sarà un vero e proprio obbligo, come chiarito da un orientamento giurisprudenziale consolidato (Cass. 11 gennaio 2018, n. 522; Cass. 8 luglio 2004, n. 12645; Cass. 3 marzo 2003, n. 3129).

La procedura prevista dal comma 6 dell'art. 189 CCII, che ricalca quella prevista dall'art. 4 della legge n. 223/91, seppure in una forma più semplificata, prevede il seguente iter:

  • il curatore deve trasmettere la comunicazione di avvio, oltre che a r.s.a. costituite ex art. 19, S.L. (ovvero alle R.S.U.) nonché alle associazioni di categoria, altresì (adempimento non previsto dalla legge n. 223) all'Ispettorato territoriale del lavoro del luogo ove i lavoratori interessati prestano in prevalenza la propria attività e, comunque, all'Ispettorato territoriale del lavoro del luogo ove è stata aperta la liquidazione giudiziale;
  • la comunicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza deve essere sintetica;
  • l'esame congiunto può essere convocato anche dall'Ispettorato Territoriale del Lavoro, nel solo caso in cui l'avvio della procedura di licenziamento collettivo non sia stato determinato dalla cessazione dell'attività dell'azienda o di un suo ramo. Qualora entro il termine di sette giorni non sia pervenuta alcuna istanza di esame congiunto o lo stesso non sia stato fissato dall'ITL in data compresa entro i quaranta giorni dal ricevimento della comunicazione di avvio, la procedura si intende esaurita;
  • all'esame congiunto può partecipare il direttore dell'Ispettorato territoriale del lavoro o funzionario da questi delegato;
  • la procedura trova applicazione anche nel caso di licenziamento di uno o più dirigenti, in tal caso svolgendosi l'esame congiunto in apposito incontro;
  • la consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo sindacale, salvo che il giudice delegato, per giusti motivi ne autorizzi la proroga, prima della sua scadenza, per un termine non superiore a dieci giorni.

La risoluzione di diritto del rapporto di lavoro

La maggiore novità introdotta dall'art. 189, CCII riguarda il fatto che il rapporto di lavoro si può risolvere di diritto qualora, decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, il curatore non abbia comunicato il subentro, a condizione che non sussistano i presupposti per l'avvio della procedura di licenziamento collettivo. Anche in tal caso, come per il recesso scritto, la decorrenza della cessazione viene fatta retroagire alla data di apertura della liquidazione giudiziale.

Ci si potrebbe chiedere se la risoluzione di diritto contrasti con l'art. 2 della legge n. 604/1966, secondo cui il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, a pena di inefficacia “deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro” (comma 1) e “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato” (comma 2). A ben riflettere, in mancanza di subentro nel rapporto di lavoro, il curatore difficilmente può essere ritenuto un datore di lavoro. Tanto è vero che non è obbligato al versamento della retribuzione e dei relativi contributi previdenziali, non predispone misure per la tutela e la sicurezza dei lavoratori; non esercita alcun potere gerarchico e disciplinare sul lavoratore, né disciplina modalità, tempi e luoghi della prestazione. In definitiva, non appare poi così avventato affermare che il curatore della liquidazione giudiziale – nella fase di sospensione del rapporto di lavoro – possa essere ritenuto estraneo al rapporto di lavoro e che di conseguenza non si debba paventare alcun rischio di violazione dell'art. 2 legge n. 604/1966 nel caso di risoluzione di diritto.

Questa, in ogni caso, opera anche nel caso di proroga del termine di sospensione dei rapporti di lavoro oltre i quattro mesi qualora il curatore non proceda al subentro o al recesso (art. 189, comma 4, sesto periodo, CCII): con la differenza che in tal caso a favore di ciascun lavoratore nei cui confronti è stata disposta la proroga è riconosciuta un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a otto mensilità, che è ammessa al passivo come credito successivo all'apertura della liquidazione giudiziale e quindi in prededuzione.

Tale previsione, che incide in modo pesante sull'attivo della procedura e potrebbe essere fonte di responsabilità per il curatore inerte, dovrà indurlo a gestire con efficacia i rapporti di lavoro, imponendogli di definirne le sorti entro i primi 4 mesi.

Le dimissioni del lavoratore

La cessazione del rapporto di lavoro può avvenire anche su impulso del lavoratore, con l'esercizio delle dimissioni: l'attuale versione del comma 5 dell'art. 189 CCII dispone che queste "si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale" dopo la proroga del periodo di sospensione di 4 mesi.

Sembra quindi che la legge abbia stabilito una presunzione legale.

L'art. 21, comma 1, lett. a) del decreto correttivo intende qualificare per giusta causa anche quelle presentate prima della scadenza di tale periodo al fine di consentire l'accesso alla NASpI.

Se approvato, il nuovo testo del comma 5 dell'art. 189 CCII disporrebbe che "le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione del rapporto e prima della comunicazione di cui al comma 1, si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale" a condizione che il lavoratore non goda di uno dei trattamenti di integrazione salariale previsti dal decreto legislativo n. 148 del 2015 o di altre prestazioni di sostegno al reddito.

Le indennità di fine rapporto: privilegio ex art. 2751 bis n. 1 c.c. o prededuzione?

Il comma 8 precisa che in caso di recesso del curatore, di licenziamento, dimissioni o risoluzione di diritto, al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato spetta l'indennità di mancato preavviso che, ai fini dell'ammissione al passivo, è considerata, unitamente al trattamento di fine rapporto, come credito anteriore all'apertura della liquidazione giudiziale e quindi di natura privilegiata ai sensi dell'art. 2751-bis n. 1 c.c.

Medesimo grado di privilegio spetta al c.d. contributo per la NASpI previsto dall'articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92, da versare per ciascun licenziamento.

Diverso sarà il caso in cui il recesso venga esercitato dal curatore dopo il subentrato nel rapporto di lavoro: difatti, l'indennità sostitutiva del mancato preavviso di licenziamento sarà da riconoscere in prededuzione, anche in mancanza di autorizzazione alla continuazione dell'attività con l'esercizio provvisorio (cfr. Cass. 07 luglio 2008, n. 18565; Cass. 7 febbraio 2003, n. 1832), così come le quote di trattamento di fine rapporto maturate dalla data di apertura della procedura al licenziamento.

Sempre in prededuzione sarà da riconoscere l'indennità sostitutiva del preavviso nel caso in cui, successivamente al subentro nel rapporto, il lavoratore si dimetta legittimamente per giusta causa.

Rapporti di lavoro nel concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 84 CCII e di tipo liquidatorio

A differenza di quanto avviene nel caso dell'apertura della liquidazione giudiziale, i rapporti di lavoro sono insensibili all'apertura della procedura di concordato preventivo.

Tale soluzione si deve sia al fatto che l'art. 72, l.f. – interpretato da dottrina e giurisprudenza maggioritarie in via analogica al fine di comprendere tra i contratti non ancora o non compiutamente eseguiti per i quali è possibile la sospensione anche quelli di lavoro – non viene richiamato dalle norme dedicate al concordato preventivo; sia al fatto che l'imprenditore concordatario resta – seppur sotto il controllo del commissario giudiziale – titolare dei beni aziendali che potrebbero essere conservati o nuovamente ceduti come complesso per la continuazione di un'attività di impresa (in tal senso, Cass. civ., sez. lav., 20/01/1984, n. 512; cfr. anche Trib. Napoli 29/01/1982).

Ma soprattutto questa soluzione si fonda su quanto ora stabilito in modo espresso dall'art. 97, CCII: ricalcando sostanzialmente il contenuto dell'art. 169 bis l.f., tale norma detta le condizioni in presenza delle quali il debitore concordatario può chiedere di essere autorizzato allo scioglimento o alla sospensione di “contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti alla data della presentazione del ricorso”, chiarendo che (comma 13) “le disposizioni del presente articolo non si applicano ai rapporti di lavoro subordinato”. Questi, tanto nel caso di concordato preventivo in continuità quanto di quello liquidatorio, andranno pertanto gestiti, sia nella fase della prosecuzione, sia in quella della cessazione, con il ventaglio di regole dettate dalle ordinarie norme di diritto del lavoro.

Conclusioni

L'entrata in vigore del Codice della crisi e dell'insolvenza, programmata per il 15 agosto 2020, è slittata al 1° settembre 2021 (cfr. art. 5, d.l. n. 23/2020 che ha sostituito il comma 1 dell'art. 389 CCII) per via dell'emergenza derivante dall'epidemia di COVID-19 e alle connesse ripercussioni economico-finanziarie.

C'è quindi ancora tempo per una messa a punto delle articolate norme dell'art. 189 CCII, che in ogni caso sembrano aver superato il vaglio dei commentatori.

Inoltre, se il decreto correttivo emenderà il comma 5 nel senso prospettato (cfr. paragrafo 7 del presente contributo), verrà consentito al dipendente dimissionario per giusta causa di accedere alla NASpI già qualche giorno dopo l'apertura della liquidazione giudiziale e senza dover per forza attendere l'esaurimento del primo periodo di sospensione del rapporto di quattro mesi: in tal modo, sarebbe di fatto garantita fin da subito la possibilità di accesso ad una misura di sostegno al reddito anche ai lavoratori dell'imprenditore "liquidato" (com'era stato inizialmente ipotizzato dall'art. 195 dello schema di decreto legislativo dell'ottobre 2018 che intendeva introdurre la c.d. NASpI L.G. poi espunta) e verrebbe sanata la disparità di trattamento tra i lavoratori dell'impresa in crisi, ma ancora in bonis, e quelli dell'impresa assoggettata alla procedura di liquidazione.

Proprio l'emergenza sanitaria Covid-19, che ha costretto il Governo a reintrodurre universalmente la Cassa integrazione in deroga, ha indotto a riflettere sulla cattiva sorte dei lavoratori dipendenti di imprese fallite, sforniti di ammortizzatori sociali ad hoc, tanto da spingere il Ministero del lavoro (cfr. Circolare n. 8 dell'8 aprile 2020) ad estendere a questi ultimi la previsione dell'art. 22 del decreto-legge Cura Italia: che sia un primo passo per un ripensamento?

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