Stalking e risarcimento del danno
03 Luglio 2020
Il delitto di atti persecutori
La Consulta con la sentenza 11 giugno 2014, n. 172, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale prospettate dai giudici di merito in ordine al delitto di cui all'art. 612-bis c.p., sospettata di contrasto con l'art. 25 Cost. per violazione del canone della sufficiente determinatezza/tassatività della condotta e degli elementi costitutivi del reato, ha avuto modo di "oggettivizzare" tali elementi così da rendere certamente più rigoroso e garantista l'accertamento della responsabilità penale per tale delitto. Il Giudice delle Leggi, dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale in materia di valutazione di sufficiente determinatezza delle fattispecie penali (da ultimo, sent. n. 282/2010; cfr. anche le seguenti sentenze: n. 96/1981, n. 79/1982, n. 120/1963), ha indirizzato i giudici di merito all'interpretazione della nuova norma alla luce di quelle già esistenti, che contenevano elementi costituitivi simili o identici a quelli della disposizione in parola, così da consentire di connotare di maggior significato/pregnanza le espressioni utilizzate dal legislatore nell'art. 612-bis c.p. (cfr. artt. 612, 660, 610, 628, 629 c.p.). Per la Corte, in linea col diritto vivente formatosi in merito alla norma in oggetto, trattasi "di reato abituale di evento, per la cui sussistenza occorre una condotta reiterata, idonea a causare nella vittima una delle conseguenze descritte e, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, richiede il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime a produrre almeno uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice. Quanto agli elementi costitutivi del reato la Consulta ha precisato che il concetto di "reiterazione", utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia. Ciò, tuttavia, non è sufficiente, in quanto le medesime devono anche essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Una tale valutazione di idoneità non può che essere condotta in concreto dal giudice esaminando il singolo caso sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente sottolineato la giurisprudenza di legittimità, non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale, né basta l'astratta idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall'agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima. La Corte "illumina" anche l'elemento del "perdurante e grave stato di ansia e di paura" e del "fondato timore per l'incolumità" affermando che trattasi di "eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica" e come tali "essi debbono essere accertati attraverso un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell'agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima. A questo proposito, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., 14 aprile 2012, n. 14391) ha precisato che la prova dello stato di ansia e di paura può e deve essere ancorata ad elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all'agente, e come tali necessariamente rientranti nell'oggetto del dolo. Inoltre, l'aggettivazione in termini di "grave e perdurante" stato di ansia o di paura e di "fondato" timore per l'incolumità "vale a circoscrivere ulteriormente l'area dell'incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima." Infine, chiarisce la Corte costituzionale nella richiamata sentenza "il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell'intrusione rappresentata dall'attività persecutoria, mutamento di cui l'agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l'appunto punibile solo a titolo di dolo". In altri termini, il perdurante e grave stato di ansia e di paura prescinde dall'accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza (Cass. pen., 19 febbraio 2014, n. 18999). In particolare, così come evidenziato dalla Corte di Cassazione, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. pen., 14 ottobre 2014, n. 50746). Per la consumazione dell'evento, quindi, deve ritenersi sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto comunque destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, naturalmente di una certa consistenza, come suggerisce il ricorso da parte del legislatore agli aggettivi "grave" e "perdurante". Inoltre, è stata riconosciuta la configurabilità del delitto di cui all'art. 612 bis c.p. anche nelle ipotesi in cui gli atti persecutori siano perpetrati in una sola giornata, rilevando in tale vicenda la reiterazione delle condotte, l'autonomia dei singoli atti ed il rilievo che proprio tale reiterazione, pur concentrata in un brevissimo intervallo temporale, ha rappresentato la causa effettiva degli eventi sopra evidenziati considerati dalla norma incriminatrice (Cass. pen., 16 giugno 2015, n. 33563). Il reato di atti persecutori ed i suoi riflessi civilistici
È ben possibile che l'illecito civile per il quale si pretende il risarcimento del danno poggi le sue fondamenta su di una condotta integratrice di uno o più illeciti penali, come nel caso della richiesta risarcitoria formulata dalla vittima di violenza sessuale. Sicché quando il fatto illecito integra gli estremi anche di un reato, ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., deve essere risarcito ogni danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, indipendentemente dalla sua rilevanza costituzionale. Ai fini di una corretta qualificazione e liquidazione del danno non patrimoniale subito da tale vittima è necessario un rapido excursus dello stesso nel diritto vivente della giurisprudenza; questa esigenza sembra addirittura imposta da recenti pronunce della Cassazione. In estrema sintesi, il giudice della nomofilachia con le note sentenze di San Martino 2008, ha precisato che il danno non patrimoniale, connotato da tipicità, è risarcibile: in tutte le fattispecie di reato ex art. 185 c.p., nelle ipotesi specificamente previste dalla legge e quando ricorra la lesione dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione e, cioè, in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975 e 26976). In mancanza di una di queste "tre chiavi" non si apre la porta del risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. I pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili se costituiscono la “conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto (...) e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c.” e devono rientrare nell'ambito dell'art. 2059 c.c. Si deve, in definitiva, affermare che di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere. E tuttavia le Sez. Unite ribadiscono che il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. La nozione di danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata; non ne parla la legge ed è inadeguata se si pensa che la sofferenza morale cagionata da reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo. Nell'ambito del danno non patrimoniale il danno morale non individua una autonoma sottocategoria, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi, quello costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento. Bisogna distinguere se la sofferenza soggettiva sia in sé considerata o sia componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso (ad esempio) nel dolore che subisca la persona diffamata. Se vi sono degenerazioni patologiche della sofferenza si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Il danno «biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, può contenere solo come “voci” i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.
Orbene, deve ritenersi ormai dato acquisito quello della unicità categoriale del non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. e della sua natura omnicomprensiva, principio secondo cui nella sofferenza interiore rientrano ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione (Cass. civ., 27 marzo 2018, n. 7513). Tale sentenza ha dettato il c.d. decalogo quale più ampio statuto del danno alla persona e quanto al c.d. danno morale, lo si tiene distinto da quello biologico e dinamico-relazionale. Giova difatti ricordare che: 1) l'ordinamento prevede e disciplina soltanto due categorie di danni: quello patrimoniale e quello non patrimoniale; 2) il danno non patrimoniale (come quello patrimoniale) costituisce una categoria giuridicamente (anche se non fenomenologicamente) unitaria; 3) "categoria unitaria" del danno non patrimoniale vuol dire che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 1226, 2056, 2059 c.c.); 4) nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve, da un lato, prendere in esame tutte le conseguenze dannose dell'illecito; e dall'altro evitare di attribuire nomi diversi a pregiudizi identici»; 5) il giudice, «all'uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova», dovrà opportunamente accertare «come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio». Ove in particolare nel punto 10 del “decalogo” si precisa che il danno non patrimoniale (ed anche nelle ipotesi diverse dal c.d. danno biologico) vada sempre liquidato «tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso». Già in armonia con queste statuizioni si era mostrata Cass. civ., 17 gennaio 2018, n. 901 ove si affermava che il giudice deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico. È dunque pacifico che unitarietà del danno non patrimoniale non significa che in seno ad esso debbano necessariamente convivere le componenti (descrittive) biologica, morale ed esistenziale. Infatti giova ricordare come anche ove il fatto illecito integri gli estremi di un reato ex art. 185 c.p. per il danno morale, ciò costituisca pur sempre un danno-conseguenza e dunque non possa mai essere considerato un danno in re ipsa. In particolare poi dalle Sezioni Unite del 2008 il principio ha trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità, per cui può conclusivamente affermarsi che il "danno non patrimoniale", costituendo anch'esso pur sempre un danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi in re ipsa (Cass., 13 ottobre 2016, n. 20643; Cass., 24 settembre 2013, n. 21865). Sicché si è osservato: occorre, infatti, distinguere, l'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale che si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela (nella specie l'art. 185 c.p.), che si risolve nella estensione della responsabilità civile dell'autore dell'illecito al ristoro di un'ulteriore tipologia di pregiudizio di natura non economica, dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall'ordinamento giuridico, che richiedono la dimostrazione (che implica evidentemente la allegazione) della esistenza del danno, della sua derivazione causale dall'evento lesivo della situazione giuridica tutelata, nonchè della sua entità (intensità o dimensione del pregiudizio. Che il danno morale soggettivo per essere risarcito dovesse essere sempre accertato in concreto, era peraltro nozione già da tempo ricevuta da questa Corte che aveva riconosciuto, anche ai parenti della vittima offesa dal reato di lesioni personali, il ristoro di detto danno, ma sempre subordinandolo al concreto accertamento dell'an e della sua derivazione causale ex art. 1223 c.c. dall'illecito (Cass. civ., sez. un., 1 luglio 2002, n. 9556), specificando ulteriormente che, costituendo il danno morale un paterna d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall'altra, come per tutti i moti d'animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cass. civ., 14 giugno 2006, n. 13754; Cass. civ., 3 aprile 2008, n. 8546). Pertanto, allorquando la condotta (illecita) compiuta sia (seppure valutata incidentalmente ed autonomamente) interamente riconducibile al reato ex art. 612-bis c.p., ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale richiesto, può tenersi conto della durata degli atti persecutori, dell'intensità e frequenza di tali atti, del tipo di minacce, dello stato d'ansia ingenerato nella vittima e se vi è stata alterazione delle sue abitudini. Infatti è evidente come non ogni condotta persecutoria abbia la stessa dirompenza o gravità (ad es. la persecuzione attraverso molteplici telefonate potrà essere assai meno grave rispetto a pedinamenti, appostamenti, incursioni fisiche nella vita privata, minacce; atti persecutori della durata di svariati anni saranno ben più gravi di quelli di qualche settimana o mese; le qualità stesse, lavorative, sociali, familiari della vittima, possono rendere più o meno grave gli atti persecutori etc.) Quando, il reato di c.d. stalking, accertato giudizialmente, può dirsi astrattamente idoneo a determinare un danno non patrimoniale (descrittivo c.d. morale inerente il grave e perdurante stato di ansia del danneggiato, nonché un descrittivo c.d. esistenziale inerente il cambiamento di abitudini dello stesso danneggiato), occorre verificare in concreto se il danno non patrimoniale si è realizzato. Orbene tale danno può essere provato anche per presunzioni. Nel giudizio civile che ha ad oggetto (anche) l'accertamento del fatto-reato in sede incidentale, al fine di provare l'evento dannoso rappresentato dall'anzidetto stato psicologico, l'attore possa giovarsi pure della prova per presunzioni semplici. Quest'ultima, a norma dell'art. 2729 c.c., esige unicamente che gli elementi presuntivi addotti siano gravi, precisi e concordanti (potendosi peraltro fondare la prova presuntiva, secondo la giurisprudenza, anche su un solo fatto noto purché grave e preciso e quindi tale da far presumere di per sé solo quello ignoto da provarsi). In un'ottica processuale completamente diversa rispetto a quella del processo penale (rivolto ad accertare la colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio), com'è quella propria del giudizio civile (diretta invece ad accertare la sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato dall'attore mediante i mezzi di prova propri del processo civile), l'idoneità o, più precisamente, l'attitudine di una determinata serie di condotte del danneggiante può indubbiamente contribuire a far presumere, in relazione alle circostanze del caso concreto, il prodursi dell'anzidetto stato d'ansia o di paura nel danneggiato. Ciò fermo restando che, a maggior ragione, eventuali comportamenti di quest'ultimo che appaiano obiettivamente indicativi di uno stato emotivo di tal genere possono assumere un significativo rilievo ai fini presuntivi. Il Trib. Alessandria 8(sentenza 10 giugno 2019), relativamente alla liquidazione dei danni non patrimoniali conseguenti al delitto di atti persecutori realizzato da un uomo in danno della ex amante ha ancorato il risarcimento ad alcuni parametri necessariamente orientativi l'entità del danno, quali: a) la durata delle condotte persecutorie; b) l'intensità e la varietà delle condotte (appostamenti, moltissime telefonate, minaccia di divulgare foto intime al marito); c) le caratteristiche della vittima (sposata, con due figlie); d) la conferma solo generica dei testi del danno riportato dalla vittima; e) l'assenza di qualsivoglia perizia inerente il grave disagio psichico della vittima, disagio comunque ricavabile dalle nozioni di comune esperienza, liquidando la somma di 1000,00 per ciascun mese in cui si è protratta la condotta delittuosa, ovvero sette mesi ( sulla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale conseguente al delitto di atti persecutori, v., anche, Trib. Roma, 21 novembre 2013). Al panorama dei danni non patrimoniali da reato che possono conseguire agli atti persecutori, che si è sin qui cercato di delineare, va soggiunto che, ovviamente, tale fattispecie criminosa può indubbiamente dar luogo anche a danni patrimoniali. Questi potranno consistere tanto in danni emergenti di vario genere (si pensi, per fare un solo esempio, al danneggiamento di cose di proprietà della persona offesa quale specifico mezzo di molestia o di intimidazione), quanto un lucro cessante (al riguardo del quale si può ipotizzare la perdita del lavoro, e del conseguente reddito, per effetto dell'attività molestatrice), come tali anch'essi risarcibili ex artt. 1223 e 2043 c.c., ove ne vengano provate l'esistenza e l'ammontare. Aspetti processuali
Come si è innanzi accennato, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell'art. 2059 c.c., l'inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile in virtù degli art. 651 e 652 c.p.p., l'estinzione del reato e l'improponibilità o improcedibilità dell'azione penale non costituiscono impedimento all'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza degli elementi costitutivi del reato. Tuttavia, l'accertamento del giudice civile deve essere condotto secondo la legge penale e deve avere ad oggetto l'esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese le eventuali cause di giustificazione e l'eccesso colposo ad esse relativo. Ne consegue che, affinché possa ritenersi configurato un reato e consequenzialmente la responsabilità del suo autore per il danno non patrimoniale, occorre non solo che sia integrato l'elemento materiale del reato, ma anche l'elemento psicologico, il cui mancato accertamento esclude l'ipotizzabilità del danno non patrimoniale ai sensi del combinato disposto degli art. 2059 c.c. e 185 c.p. (Cass. pen., 25 settembre 2009, n. 20684). Il fatto che il giudice penale non abbia pronunciato una sentenza di accertamento dell'esistenza del reato, nei termini in cui questa può esplicare efficacia di giudicato anche nel giudizio civile ai sensi degli artt. 651 e 652 c.p.p., non preclude al giudice civile di procedere egli stesso, con piena libertà di cognizione, a tale accertamento, sulla base di quanto allegato e provato dalle parti. Tale constatazione implica l'assoluta autonomia del giudizio civile, avente ad oggetto l'accertamento dell'illecito e la condanna del responsabile al risarcimento del danno che ne sia conseguito, rispetto al processo penale eventualmente originatosi dalla querela proposta dal danneggiato (ovvero promosso d'ufficio nei casi contemplati dal comma 4 dell'art. 612-bis c.p., salvo ovviamente che non sopravvenga una sentenza penale definitiva suscettibile di far stato fra le parti anche ai fini civili ex artt. 651 e 652 c.p.p. In altre parole, la sussistenza del fatto-reato nel giudizio civile dev'essere pur sempre accertata secondo la legge penale, e cioè ai fini di valutare la sussistenza di tutti gli elementi che integrano la fattispecie criminosa secondo quest'ultima, ma sulla base dei mezzi di prova che sono propri del giudizio civile ed utilizzando i criteri di valutazione della prova tipici di quest'ultimo. Nel giudizio civile, inoltre, il danneggiato dal reato (a questi ed altri fini) potrà giovarsi anche di eventuali prove raccolte nel processo penale che fosse stato radicato per i medesimi fatti (ancorché non conclusosi o definito da una sentenza insuscettibile di far stato in sede civile), conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza civile, fondato sul principio giuridico dell'unità della giurisdizione, trattandosi invero di prove atipiche (in quanto non esplicitamente contemplate dall'ordinamento processuale civile), ciò nondimeno pienamente ammissibili nel giudizio civile (Cass. civ., 30 gennaio 2013 n. 2168; Cass. civ., 2 marzo 2009 n. 5009). Conclusioni
Sul piano della politica del diritto, si è osservato che il reato ex art. 612-bis c.p. sanziona la lesione di beni “intermedi”, al chiaro fine di assicurare una protezione più efficace ai beni “finali” che restano sullo sfondo: la vita, l'integrità fisica, la libertà sessuale: il legislatore ha inteso reprimere penalmente gli atti persecutori anche al fine di prevenire reati più gravi che spesso, in progresso di tempo, si pongono in linea di continuità con tali comportamenti. Quanto ai danni risarcibili prodotti dal reato di atti persecutori, con specifico riferimento a quelli di natura non patrimoniale, trattandosi di danno da reato, risulta anzitutto evidente la risarcibilità del danno morale soggettivo ovvero del danno non patrimoniale da sofferenza morale, volendo impiegare il lessico utilizzato dalle Sezioni Unite nelle ricordate sentenze di San Martino. Nel caso in cui lo stato psichico della vittima non sia degenerato in senso patologico e difetti, quindi, la lesione dell'integrità psico-fisica della persona offesa dal reato, si avrà quella sofferenza soggettiva in sé considerata consistente in un mero turbamento dell'animo (privo di degenerazioni patologiche) che è quindi autonomamente risarcibile ex art. 2059 c.c. nel caso abbia a derivare da un fatto previsto dalla legge come reato. Tanto lo stato di ansia o paura che il fondato timore per l'incolumità propria individuati dall'art. 612-bis c. p. sono invero suscettibili di integrare un turbamento ed una sofferenza di tal genere, per cui, come si è già scritto, una volta che si sia provato l'evento di danno sotto questi aspetti si saranno altresì dimostrati tanto la sussistenza della fattispecie criminosa, ai fini della legge penale, quanto l'esistenza del danno non patrimoniale da sofferenza morale. Il non poter fare (ovvero la sofferenza morale che ne consegue) è previsto dalla legge penale, e cioè all'art. 612-bis c.p., come elemento costitutivo del fatto-reato di atti persecutori», laddove il mutamento delle abitudini di vita della vittima è contemplato come uno dei tre eventi che alternativamente questa prevede debbano verificarsi per aversi la consumazione del reato. Al che logicamente consegue che, con riferimento a tale specifica fattispecie di reato, il danno in questione è risarcibile non già solo in quanto conseguenza della lesione del diritto inviolabile alla autodeterminazione previsto dalla Costituzione, bensì anche perché direttamente e immediatamente previsto dalla legge penale quale elemento costitutivo di una fattispecie tipica di illecito. Tale constatazione peraltro non modifica il punto fermo posto dalla sentenza di San Martino in ordine alla natura unitaria del danno non patrimoniale ed all'impossibilità di scindere quest'ultimo in diverse categorie, ciascuna delle quali autonomamente risarcibile, ma chiama in causa l'ulteriore principio dettato dalla medesima decisione, per cui il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente pregiudizio, ma non oltre », essendo «compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrare riparazione. Infatti, è indubbio che il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa dagli atti persecutori non solo è previsto dalla norma penale quale pregiudizio tipico derivante dal reato, ma rappresenta altresì un pregiudizio diverso ed ulteriore rispetto al turbamento di natura psichica connesso allo stato di ansia o di paura ovvero al fondato timore parimenti contemplati dalla norma in questione quali eventi di danno derivanti dalle condotte dell'agente. Qualora la vittima risenta dell'attività molestatrice o minacciosa non già solo sotto il profilo psichico, ma anche in termini limitativi della sua libertà di agire, per esser stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, subirà un danno ulteriore rispetto al predetto turbamento e quindi indubbiamente maggiore, ragion per cui, sotto il profilo risarcitorio, avrà diritto al risarcimento, sempre a titolo di danno non patrimoniale, ma tenendo conto di entrambi tali diversi pregiudizi. G. Miotto, Il reato di stalking e i suoi riflessi civilistici, in Resp. civile e previdenza, 2014, 1296 ss.; A. Valsecchi, Il delitto di “atti persecutori” (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1377. |