La proposta di modifica del rito appalti: complicazioni e decodificazioni senza utilità?

Marco Lipari
03 Luglio 2020

In questi giorni è circolata l'ipotesi dell'intervento normativo sul rito appalti, che il Governo intenderebbe varare .Si tratta di uno schema, come tale suscettibile di ripensamenti, anche radicali. Tuttavia, nella sua attuale formulazione, la proposta in oggetto risulta di dubbia utilità ed è destinata a complicare ulteriormente il quadro vigente...
La proposta del Governo

In questi giorni è circolata l'ipotesi dell'intervento normativo sul rito appalti, che il Governo intenderebbe varare (1).

Si tratta di uno schema, come tale suscettibile di ripensamenti, anche radicali.

Tuttavia, nella sua attuale formulazione, la proposta in oggetto risulta di dubbia utilità ed è destinata a complicare ulteriormente il quadro vigente. Comporta il rischio di limitare la tutela delle parti, senza alcun beneficio complessivo, anzi abbassando la capacità del sistema di reagire a illegittimità, anche gravi. Non realizza effettive accelerazioni nella definizione del contenzioso. Preannuncia incertezze, dubbi di legittimità, difficoltà applicative, per le parti e per i giudici. Non reca particolari giovamenti alle stazioni appaltanti.

La tutela cautelare nelle procedure sottosoglia

Si interviene, anzitutto, sul contenzioso relativo ai contratti sottosoglia, correlati al rilancio economico, dopo l'emergenza COVID.

L'innovazione prevede, in tali ipotesi, l'estensione della previsione dell'art. 125, comma 2, del codice del processo amministrativo.

La norma richiamata stabilisce un particolare onere motivazionale della decisione cautelare, inteso a verificare l'impatto della pronuncia sull'interesse pubblico legato all'esecuzione dell'appalto (2).

È difficile comprendere il senso della proposta.

Si dimentica, infatti, che la previsione di una ricca motivazione della pronuncia cautelare è già stabilita dal comma 8-ter del codice del processo amministrativo, con riferimento a tutte le controversie soggette al rito appalti (3). La norma indica in modo puntuale, sia attraverso il rinvio ai criteri degli articoli 121 e 122, sia mediante la menzione dell'interesse generale e alle esigenze imperative, la necessità di considerare adeguatamente l'interesse pubblico implicato.

Non a caso, gli interpreti dubitano che l'art. 125, comma 2, sia stato abrogato, per incompatibilità, dal comma 8-ter (4).

La proposta normativa in esame crea confusione, perché non chiarisce nemmeno se la nuova regola prevalga, o si aggiunga, alla disciplina del comma 8-ter.

Si potrebbe sottilizzare sulla diversa formulazione delle due norme. Ma, nel suo complesso, sembra indubitabile che il comma 8-ter contenga una disciplina completa, incentrata sull'obbligo di motivare la decisione cautelare valorizzando il criterio della bilateralità del periculum, in relazione agli interessi pubblici in rilievo.

Rispolverare il vecchio articolo 125, comma 2, che corrisponde alla norma varata a suo tempo, con i decreti attuativi della legge obiettivo, nel 2002, sembra un passo indietro, non un'innovazione moderna.

L'inciso qualora rientranti nell'ambito applicativo dell'articolo 119, comma 1, lettera a), utilizzato dalla norma per delimitare l'ambito applicativo della norma, poi, è inutile e fuorviante.

Inutile, perché il rito di cui all'art. 125 presuppone l'applicabilità degli articoli 119 e 120. Fuorviante, perché lascia supporre che le innovazioni sostanziali portate dal decreto in itinere potrebbero riferirsi a procedure di scelta del contraente non soggette al rito speciale. Se è così, il legislatore dovrebbe forse spiegare, almeno nella relazione, la portata oggettiva della disciplina.

La limitazione della tutela annullatoria per le opere di interesse nazionale

Il secondo intervento riguarda il contenzioso relativo alle opere inserite nel programma di rilancio delineato dal Governo e specificamente enumerate da appositi DPCM.

Per tali fattispecie si stabilisce l'applicazione dell'intero art. 125 del CPA (5).

Quindi, si estende anche la previsione del comma 3, riguardante i limiti alla caducazione del contratto in seguito all'accertata illegittimità dell'aggiudicazione (6).

La norma richiamata forma oggetto, da tempo, di serie obiezioni di legittimità costituzionale e comunitaria. È ritenuta irrazionale l'inesorabile preclusione della tutela caducatoria, collegata al solo fatto dell'intervenuta stipulazione, senza tenere conto dell'effettivo stato di esecuzione del contratto, della natura del vizio e di altri molteplici fattori rilevanti nella singola vicenda.

La norma fa salvi i soli casi delle “gravi violazioni” di cui all'art. 121: sono le ipotesi di violazione del termine sospensivo per la stipulazione del contratto e gli affidamenti illegittimi senza gara. Si tratta di fattispecie assai circoscritte, che difficilmente potranno manifestarsi nelle procedure di affidamento delle opere di interesse nazionale.

Non sono comprese nelle eccezioni di cui all'art. 121 altre ipotesi di violazioni sostanzialmente gravi, che potrebbero riferirsi, tanto per esemplificare, anche alla stessa capacità minima dell'operatore economico o violazioni riguardanti l'errata formazione della graduatoria.

La limitazione della tutela della parte interessata è palese e desta preoccupazione. Così, del resto, è messo in pericolo anche l'interesse pubblico alla garanzia della legalità sostanziale.

Siamo sicuri che l'interesse a realizzare comunque presto l'opera prevalga sull'interesse (pubblico) all'aggiudicazione ad un operatore affidabile?

E l'interesse dell'aggiudicatario individuato illegittimamente, dopo la stipulazione del contratto è sempre, indefettibilmente prevalente su quello dell'operatore economico che avrebbe dovuto ottenere l'appalto?

E se l'intera procedura risulta irrimediabilmente viziata da gravi difetti sostanziali che hanno impedito l'effettivo svolgimento di un confronto concorrenziale.

Ora, nella situazione attuale, si può anche ritenere, forse, che la disciplina legislativa riguardante i limiti alla tutela demolitoria (annullatoria e caducatoria) prevista in determinati casi non sia, di per sé, illegittima, alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale (7).

La previsione si riferisce, pur sempre a ipotesi circoscritte. Ma proprio questa particolarità potrebbe accrescere i dubbi di legittimità costituzionale, anziché risolverli, perché introduce ingiustificate differenziazioni di disciplina con riguardo alla tutela giurisdizionale.

Ma, realisticamente, la questione si presenterà prestissimo nelle aule della giustizia amministrativa, suscitando nuove incertezze, rinvii alla Corte del Lussemburgo e alla Corte costituzionale. La dottrina è largamente critica sull'attuale indirizzo della Consulta, che, comunque, si è riferita a ipotesi ben caratterizzate dalla specificità delle situazioni contemplate.

Né va trascurato un passaggio di estremo interesse, contenuto nella decisione della Corte costituzionale n. 160 del 2019. La pronuncia pone in rilievo che nel giudizio risarcitorio, viene in rilievo “l'accertamento incidentale condotto dal giudice amministrativo sulla legittimità dell'atto, di cui anche gli organi dell'ordinamento sportivo non possono non tenere conto.”

In altri termini, la Corte evidenzia che la pronuncia del TAR costituisce il presupposto del doveroso avvio di un procedimento di autotutela, che dovrà tenere conto della decisione del giudice amministrativo, pur senza esserne vincolato in modo rigido.

È un'indicazione importante. Già a diritto vigente, infatti, si potrebbe ragionevolmente sostenere che l'art. 125 comma 3 debba essere inteso nel senso che, accolta la domanda risarcitoria per equivalente, la stazione appaltante sia tenuta a rivalutare l'atto di affidamento e il correlato contratto, stabilendo se il vizio riscontrato sia tale da pregiudicare gli interessi pubblici perseguiti. Se è così, la prevista tutela risarcitoria non determina alcuna certezza sulla stabilità dell'affidamento, ma riapre il contenzioso, che si riferirà al provvedimento adottato all'esito del doveroso procedimento di autotutela.

Anziché semplificare il contenzioso, dunque, la norma proposta lo renderà lungo e incerto, in considerazione dei tempi fisiologici di decisione delle Corti.

Senza dire che l'opzione prescelta, essendo destinata ad un'applicazione limitata ad alcuni contratti presumibilmente di valore comunitario, sembra porsi in contrasto con il principio di equivalenza della tutela. Perché precludere forma di protezione che l'ordinamento nazionale assicura per tutti i contratti?

Ma è proprio l'utilità concreta della proposta a risultare inconsistente.

L'attuale disciplina generale degli articoli 121 e 122 contiene, infatti, una disciplina completa degli effetti dell'annullamento dell'aggiudicazione sul contratto.

È una normativa perfettamente coerente con le direttive comunitarie e di cui nessuno ha mai messo in discussione la funzionalità e razionalità.

La normativa è incentrata su un principio di flessibilità che permette di armonizzare le esigenze in conflitto. E, in modo intelligente, impone di valutare il dato pratico dello stato di esecuzione del contratto e non quello formale della stipulazione, anche in relazione alla possibilità di subentro.

La presenza di preminenti interessi generali è pienamente idonea a prevalere, di volta in volta, sulla tutela caducatoria. Ma non in astratto, bensì alla luce di un bilanciamento concreto. Basterebbe pensare ai casi in cui l'illegittimità si basi sulla riscontrata inidoneità tecnica o inaffidabilità economica o morale dell'aggiudicatario: tutti casi in cui proprio l'interesse nazionale dovrebbe imporre la caducazione del contratto.

In concreto, non esistono casi significativi in cui l'art. 122 abbia impedito di salvaguardare adeguatamente l'attuazione di interessi pubblici.

La rigidità della preclusione derivante dall'intervenuta stipulazione, senza possibilità di deroghe, non comporta alcun vantaggio, ma ingessa la decisione del giudice, privandola di una flessibilità che è connaturata al contenzioso in materia di appalti. Ma penalizza la stessa amministrazione, costretta a mantenere il rapporto con un appaltatore che potrebbe essere risultato non idoneo.

Un meccanismo che dilata i tempi e spinge verso la sospensione dell'aggiudicazione

L'esperienza dell'applicazione concreta dell'art. 125, poi, ha dimostrato che il complessivo meccanismo previsto è destinato ad allungare i tempi della procedura, non ad abbreviarli, nella scansione che va dalla decisione cautelare di primo grado a quella definitiva in appello.

Infatti, poiché l'art. 125 non deroga al principio dello stand still processuale, è scontato che la parte ricorrente proporrà la domanda cautelare, che congela la stipulazione del contratto.

In tali casi, il giudice, nel dubbio, sarà molto più propenso alla sospensione dell'aggiudicazione e della conseguente stipulazione, considerando che il rigetto dell'istanza cautelare determinerebbe la prosecuzione della procedura e la stipulazione, con il conseguente effetto preclusivo dell'annullamento.

L'effettiva utilità della disciplina dell'art. 125, comma 3, del resto, era stata da tempo messa in discussione dalla circostanza che essa non preclude il potere di autotutela della stazione appaltante.

Ora, lo schema del decreto-legge in esame sembra impedire radicalmente all'amministrazione di adottare provvedimenti interinali di autotutela, volti a differire o sospendere la stipulazione. Ma anche tale previsione appare di dubbia legittimità, perché sembra in contrasto con i principi dell'art. 97 della Costituzione.

La scelta di limitare la tutela a quella risarcitoria per equivalente, poi, comporta una serie di inconvenienti più volte segnalati, che comprendono la maggiore esposizione finanziaria delle stazioni appaltanti e la conseguente responsabilità erariale dei funzionari (8).

E la previsione della copertura assicurativa facoltativa, stabilita dal decreto-legge, non risolve il problema nella sua dimensione macroeconomica: il mercato del settore dovrà definire premi assicurativi almeno pari alla prevedibile sommatoria dei risarcimenti dei danni complessivamente pagati dalle stazioni appaltanti. Cioè, tranquillizza, forse, la singola amministrazione (e i funzionari), ma non alleggerisce affatto il debito pubblico.

E, sul piano dell'affollamento delle aule di giustizia, la tecnica risarcitoria comporta un notevole aggravamento del contenzioso, dovendosi affrontare delicate problematiche di liquidazione.

L'art. 125: una norma vecchia

Non va dimenticata una considerazione “di sistema”. L'art. 125 è un “residuo” della disciplina posta nel lontano 2001 dalla legge-obiettivo n. 443/2001 e dai decreti attuativi (poi esteso ad altre fattispecie), in un contesto che non conosceva ancora la normativa, chiara e funzionale, del rito appalti ordinario, consacrata nei citati articoli 121 e 122 del CPA.

È rimasta nel Codice del processo amministrativo, con molte critiche e riserve, perché si è reputato che potesse servire a “chiudere” vicende ancora in atto.

Sorprende, allora, che il legislatore, annunciando modernità e dinamismo, voglia modificare il rito appalti rispolverando una norma vintage, che ha esaurito, in tutto o in parte, la sua funzione ed è palesemente disallineata al contemporaneo disegno comunitario e nazionale,

La disciplina degli articoli 121 e 122, e, per la fase cautelare, dell'art. 120, comma 8-ter, affronta le stesse problematiche disciplinate a suo tempo dalla legge obiettivo in modo chiaro e razionale: una normativa frutto di attenta ponderazione, dapprima nel lungo iter che ha portato al varo della direttiva n. 66/2007, poi nel suo accurato recepimento nazionale, nel perfezionamento nel codice del processo e nel codice n. 50/2016.

Insomma, sembra quasi che il legislatore odierno si dimentichi che la questione della sorte del contratto stipulato sia disciplinata dal codice, con regole molto efficaci.

La definizione del merito in sede cautelare

Le altre proposte del Governo intendono incidere sui tempi di decisione nel rito appalti.

Anche in questo caso, l'intento di velocizzare la decisione sconta l'illusione di voler essere, a tutti i costi, più rapidi di qualsiasi altro precedente Governo: come se l'efficienza del rito appalti si misurasse come una gara di cento metri: con il cronometro in mano.

Anzitutto, sembra volersi favorire la decisione del merito in sede cautelare.

La formulazione adoperata dal legislatore è però incerta e confusa e si risolve in una generica affermazione di principio di favor per la decisione semplificata, che, alla fine, è inutile.

La possibilità della definizione della controversia in sede cautelare è, infatti, una regola generale. Vale anche nel rito appalti ed è molto utilizzata nella prassi.

Non si comprende che necessità ci sia di stabilire una espressa “deroga” all'art. 74.

Senza dimenticare, poi, che, nell'art. 120 è già previsto che la motivazione della sentenza è ordinariamente in forma semplificata.

È del resto pacifico che, nell'art. 60, la possibilità della definizione della controversia in sede cautelare prescinde dalla “liquidità” dell'esito, diversamente da quanto prevede l'art. 74.

In ogni caso, nella prassi, la scelta del giudice di decidere il merito all'udienza cautelare (non solo nel rito appalti) non si preoccupa mai di enunciare la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 74.

Né la decisione di definire il merito è sindacabile in appello, se non in caso di accertata carenza dei presupposti indicati dall'art. 60 (lesione del diritto di difesa).

Se si vuole introdurre un rito camerale decisorio alternativo a quello in udienza pubblica bisogna dirlo con maggiore chiarezza. È un'opzione forse possibile, ma davvero poco appetibile, tenendo conto dei tempi rapidissimi del rito appalti.

Insomma, la confusa previsione della decisione immediata va espunta, perché non aggiunge nulla alla disciplina vigente e appesantisce inutilmente il testo normativo dell'art. 120.

Resta, in ogni caso il dubbio sulla utilità di questa annunciata accelerazione estrema del giudizio di merito.

Le parti hanno diritto di difendersi in tempi ragionevoli. Chi ha detto che tutti desiderino chiudere subito la partita, in sede cautelare, senza poter svolgere compiutamente le proprie argomentazioni?

L'art. 74 lo dice in modo chiaro, del resto: la decisione semplificata si adotta quando l'esito è manifesto. È una previsione irragionevole?

E anche sul piano dell'efficienza e dell'organizzazione dell'attività del giudice, il sovraccarico dell'udienza camerale non è necessariamente positivo. Rischia di incidere sulla qualità della decisione.

La pubblicazione della sentenza entro quindici giorni dall'udienza

Da ultimo, la proposta governativa ipotizza un'accelerazione ulteriore della fase decisoria, intervenendo su regole che già prevedono tempi assai stretti per la redazione della sentenza.

Ovviamente, si può senz'altro scegliere di accelerare ulteriormente la pubblicazione della sentenza, ritenendo che trenta giorni siano ancora troppi, in un contenzioso caratterizzato da evidenti complessità giuridiche e rilevanti interessi economici e pubblici.

Si consideri che il rito elettorale preparatorio prevede la pubblicazione della sentenza, completa della motivazione, lo stesso giorno dell'udienza. E tale prescrizione è scrupolosamente rispettata dal giudice amministrativo.

In quei casi, però, si tratta di definire la platea dei soggetti che parteciperanno alla competizione elettorale, garantendo il rispetto del calendario.

Nel contenzioso dei contratti pubblici l'opportunità di una decisione rapidissima è fuori discussione, ma non emerge la stessa necessità di inderogabile definizione in tempi altrettanto brucianti.

Ma, anche accettando l'impostazione che vuole a tutti i costi l'accelerazione, la proposta governativa non funziona e, così come è formulata, va accantonata.

L'attuale formulazione dell'art. 120 prevede già tempi velocissimi: trenta giorni per la pubblicazione della motivazione in primo grado e i tempi dimezzati dell'art. 119 in appello (9) (ventitré giorni).

Sono davvero ancora troppo lenti e inadeguati? Forse, ma bisogna stare con i piedi per terra ed evitare banalizzazioni.

In ogni caso, occorre equilibrare l'esigenza di certezza dei tempi di definizione della lite con la qualità della decisione.

E questo rileva particolarmente in appello, considerando la responsabilità nomofilattica del Consiglio di Stato. Una decisione ponderata fatta bene, chiara e approfondita, risolve, per il futuro, mille controversie. Una decisione velocissima, ma non adeguatamente motivata, moltiplica incertezze e alimenta il contenzioso.

Cambiare ancora la disciplina dei tempi fissati dall'art. 120, ipotizzando di guadagnare qualche giorno, non sembra una soluzione ragionevole.

La proposta, poi, è strutturata con regole poco chiare e destinate a creare confusione.

Il differimento della pubblicazione del dispositivo

La prevista accelerazione della pubblicazione della motivazione si accompagna alla incongrua eliminazione della pubblicazione rapida del dispositivo, entro due giorni dall'udienza. A meno che non si ritenga che, eliminata la specialissima regola, si riespanda la regola generale di cui all'art. 119 che prevede la pubblicazione del dispositivo, a domanda di parte, entro sette giorni.

Ma questa soluzione interpretativa pare smentita dalla previsione dello schema del decreto-legge, secondo cui la pubblicazione anticipata del dispositivo, si deve compiere nei soli casi di motivazione complessa, da depositare nel termine di trenta giorni.

L'effetto pratico è che, in questo modo, l'esito del giudizio si conoscerebbe più tardi di quanto attualmente previsto: quindici giorni, anziché due in primo grado o sette in appello.

In ogni caso, la prevista omogeneizzazione dei tempi di pubblicazione in primo e in secondo grado è una scelta che va studiata con attenzione. Si ripete: i tempi più lunghi per il giudizio di appello non sono un privilegio, ma un'esigenza legata alla funzione nomofilattica del Consiglio di Stato, come pure alle caratteristiche devolutive del processo, che spesso impongono al giudice di appello di esaminare per la prima volta in secondo grado le questioni assorbite dal TAR, per ragioni sostanziali o processuali.

Non convince, poi, il meccanismo della pubblicazione anticipata del dispositivo nel caso di “motivazione complessa”.

Non è chiarito, intanto, con quali modalità il giudice dovrebbe stabilire che procederà alla pubblicazione anticipata del dispositivo. A quanto pare, allo scadere dei quindici giorni potrebbe, alternativamente, essere pubblicato un dispositivo o una sentenza completa.

E questo determina incertezza ulteriore.

Non solo. È assai prevedibile che il giudice, per comprensibili ragioni di prudenza, preferirà attestarsi sulla “motivazione complessa”, depositando la sentenza nel termine di trenta giorni. Insomma, lo stesso termine attualmente previsto. L'unica differenza consiste nell'obbligo di depositare il dispositivo, benché nel termine di quindici giorni, molto più comodo di quello ora vigente.

Perché complicare allora l'art. 120? Per offrire l'ingannevole promessa di un'accelerazione dei tempi di pubblicazione della sentenza, lasciando tutto uguale nella sostanza?

Poco convincente, infine, è la pleonastica indicazione del contenuto del dispositivo.

C'è bisogno di dire che il giudice specifica le domande accolte? Il dispositivo ha questa funzione. Non dovevamo aspettare il 2020 per scoprirlo.

Forse il legislatore voleva imporre di indicare nel dispositivo il motivo accolto? Ma, anche ammettendo questa finalità, che però non è affatto esplicitata, è concretamente difficile ammettere che il dispositivo possa – e debba - avere una così chiara analiticità.

E l'eventuale “dimenticanza” della menzione di un motivo, nel dispositivo potrebbe alimentare incertezze sulla modificabilità delle decisioni in sede di redazione della motivazione.

Poco perspicuo, poi, è il riferimento alla indicazione delle “misure attuative”?

Il giudice deve forse anticipare l'ottemperanza in sede di cognizione?

L'art. 34 lo prevede (10), ma si tratta di un potere che deve essere sollecitato dalla parte. In concreto ciò avviene raramente.

Resta fermo, invece, che il giudice, fisiologicamente, dispone subentri nel contratto e annulla gare intere, o singoli segmenti.

Ma questo significa, semplicemente, che il dispositivo può assumere contenuti diversificati, in funzione del contenzioso.

L'opzione zero

Siano consentite un paio di considerazioni finali di sistema.

Un intervento legislativo che assume l'ambiziosa etichetta della semplificazione deve sempre ricordare che l'opzione zero è quasi sempre la migliore. Almeno quando l'intervento non è accompagnato da un'adeguata illustrazione delle ragioni della riforma. Non necessariamente una formale analisi di impatto della regolazione (AIR), ma almeno una ricognizione reale delle problematiche riscontrate, basata su dati e non su generiche impressioni.

In concreto: quali dati del Governo giustificano l'estensione dell'art. 125?

E quali dati indicano lentezze nella pubblicazione delle decisioni?

Meglio non aggiungere norme. Meglio ancora sarebbe un intervento che elimina e riduce: questa è la vera semplificazione.

La metafora di Michelangelo che crea per sottrazione dal marmo vale anche per l'ordinamento giuridico.

E questo vale per il processo in modo particolare.

Occorrono regole stabili e leggere. Le modifiche continue creano effetti negativi quasi sempre superiori – e di molto - a quelli positivi: specie se sono modifiche poco meditate, contestate dal foro e dalla dottrina, non condivise con i giudici.

Nella migliore delle ipotesi richiedono uno sforzo di metabolizzazione e recepimento.

Comprendiamo bene il paradosso della politica: il bisogno di esporre la propria capacità di “intervenire” comunque sulla materia, confidando sulla “percezione mediatica” della riforma; l'intramontabile convinzione che due o tre norme discutibili sono sempre meglio di niente. Perché l'importante è che le Agenzie di stampa lancino la notizia del processo-sprint.

In quest'ottica, la proposta in esame potrebbe andare avanti e passare alle cronache come saggia modernizzazione di un sistema giudiziario che rallenta le opere pubbliche. Il bilancio sull'impatto delle innovazioni avverrà solo a distanza di mesi, e non avrà le prime pagine.

Ma, forse, anche sul piano della comunicazione le cose stanno cambiando. E un intervento semplificatore che complica non passa più inosservato ed è un boomerang per le istituzioni che lo propongono. Fanno perdere la fiducia e gettano ombre sulla credibilità su chi ci mette la faccia, quale che sia il suo colore.

È indispensabile la legislazione d'urgenza?

La scelta del decreto-legge per intervenire sul rito appalti è ormai un'abitudine. Ma forse è arrivato il momento di cambiare. Questo sarebbe un vero segnale di discontinuità, serietà, concretezza.

Il decreto-legge si può e si deve adottare per ragioni di urgenza reali. Così, nessuno ha dubitato della utilità del decreto-legge per introdurre norme processuali eccezionali nella fase della pandemia.

Ma interventi destinati a incidere sulle forme di tutela e sui meccanismi di svolgimento del rito devono essere sempre ponderati.

Un'ultima considerazione riguarda la trasparenza dell'intervento normativo.

Sono passati decenni dai decreti-legge catenaccio, con sui si aumentava il prezzo della benzina alle tre di notte.

Oggi, le forze politiche sostengono, giustamente, la regola dello streaming, la verificabilità dei percorsi politici di decisione, anche su temi delicatissimi.

Le modifiche del processo amministrativo, come quelle oggi in discussione, hanno un contenuto tecnico e non mettono in discussione la tenuta politica di una maggioranza. Allora, dovrebbero uscire dai corridoi segreti del Palazzo ed essere più verificabili, esporsi al confronto e al dibattito dei protagonisti del processo. Senza veti e senza corporativismi, ma con una nitida rappresentazione dei possibili rilievi sulla proposta.

E, forse, nell'interesse di tutti, si potrebbero seguire i percorsi istituzionali già delineati dall'ordinamento: primo fra tutti, il parere del Consiglio di Stato sui disegni di legge che toccano il suo funzionamento e la disciplina della Giustizia Amministrativa.

Che cosa può temere un Governo forte e autorevole da un parere non vincolante, espresso ai sensi dell'art. 100 della Costituzione? Tempi lunghi? Valutazioni scomode e critiche troppo severe?

Non sembra che i quarantacinque giorni per la pronuncia del parere del Consiglio di Stato possano considerarsi eccessivi, in relazione a procedimenti normativi che devono essere accurati e seri.

E sugli argomenti di forte impatto tecnico giuridico sembra preferibile esporsi alle valutazioni preventive dell'organo consultivo, piuttosto che incassare una probabile bocciatura dalla Corte costituzionale o dalla Corte di Giustizia.

La decodificazione

Un'ultima nota. L'intervento, nella parte in cui estende l'applicazione dell'art. 125 CPA, sceglie la tecnica del rinvio. Non modifica, dall'interno il codice.

Forse ci sono ragioni “formali”, legate alla oggettiva difficoltà di descrivere l'ambito delle nuove fattispecie e di distinguere tra applicazione integrale dell'art. 125 (ma, a voler essere pignoli, il rinvio riguarda solo i commi 2 e 3, e non certo i commi 1 e 4) e del solo comma 2.

Ma l'ipotizzata decodificazione di un testo normativo universalmente apprezzato per la sua organicità e completezza, è proprio il contrario di quello che qualsiasi intervento di semplificazione, anche non epocale, esige.

Almeno sul piano del linguaggio normativo si può provare a fare meglio.

Note

(1) Il testo diffuso informalmente è il seguente.

Conclusione dei contratti pubblici e ricorsi giurisdizionali

1. (…)

2. In caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui agli articoli 1 e 2, comma 2, del presente decreto, qualora rientranti nell'ambito applicativo dell'articolo 119, comma 1, lettera a), del codice del processo amministrativo, approvato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applica il comma 2 dell'articolo 125 del medesimo codice.

3. In caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di cui all'articolo 2, comma 3, si applica l'articolo 125 del codice del processo amministrativo, approvato con il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.

4. All'articolo 120 del codice del processo amministrativo, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 6, primo periodo, le parole “, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare ove ne ricorrano i presupposti, ” sono sostituite dalle seguenti: “è definito, in deroga al comma 1, primo periodo dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza,”;

b) al comma 9, le parole: “Il Tribunale amministrativo” sono sostituite dalle seguenti: “Il giudice” e quelle da “entro trenta” fino a “due giorni dall'udienza” sono sostituite dalle seguenti: “entro quindici giorni dall'udienza di discussione. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa, il giudice pubblica il dispositivo nel termine di cui al periodo precedente, indicando anche le domande eventualmente accolte e le misure per darvi attuazione, e comunque deposita la sentenza entro trenta giorni dall'udienza”.

Gli articoli dello schema richiamati concernono, rispettivamente:

- Le procedure sotto soglia (art. 1 e 2, comma 2)

- Le procedure relative alle opere di interesse nazionale, individuate con appositi DPCM.

(2) 2. In sede di pronuncia del provvedimento cautelare, si tiene conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera, e, ai fini dell'accoglimento della domanda cautelare, si valuta anche la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, il cui interesse va comunque comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure.

(3) 8-ter. Nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse ad un interesse generale all'esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione.

(4) Sia consentito rinviare a Lipari M. La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi: il 'rito appalti' e le esigenze imperative di interesse generale, ove ulteriori citazioni.

(5) Sul piano formale, l'estensione dovrebbe circoscriversi ai soli commi 2 e 3, dal momento che i commi 1 e 2 indicano le fattispecie soggette alle regole dell'art. 125 del CPA. È un'imperfezione esteriore innocua, che tradisce, però, la probabile fretta del legislatore.

(6) 3. Ferma restando l'applicazione degli articoli 121 e 123, al di fuori dei casi in essi contemplati la sospensione o l'annullamento dell'affidamento non comporta la caducazione del contratto già stipulato, e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente. Si applica l'articolo 34, comma 3.

(7) La decisione della Corte costituzionale n. 160 del 2019 afferma a chiare lettere che la Costituzione non impone l'indefettibilità della tutela demolitoria.

Tuttavia, la Corte sottolinea che l'esclusione della pienezza della tutela deve pur sempre collegarsi alla protezione di interessi qualificati. È il caso della peculiarità e originarietà dell'ordinamento sportivo.

In queste coordinate ermeneutiche è davvero difficile ammettere che la scelta politico amministrativa di inserire un'opera tra quelle di interesse nazionale possa, da sola, giustificare una così vistosa limitazione di tutela.

(8) Il decreto legge introduce una sorta di scudo, che temporaneamente, limita la responsabilità erariale ai soli casi di dolo. Ma la disposizione è oggetto di forti riserve e potrebbe esser stralciata nel testo definitivo.

(9) Si discute, però, sulla portata della formulazione della norma generale sui quarantacinque giorni per la redazione della sentenza (89, comma 1 del CPA) , che non menziona espressamente la pubblicazione (1. La sentenza deve essere redatta non oltre il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione della causa). Ciò conduce a ritenere che entro quarantacinque giorni (ventitré se dimezzati) sia sufficiente la trasmissione della minuta al presidente del collegio.

Sarebbe auspicabile definire in generale (anche) il termine di pubblicazione, eventualmente fissato in sessanta giorni.

(10) Art. 34, comma 1, lettera e): “dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza.”

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