Da Mafia capitale a corruzione capitale: la sentenza della Suprema Corte e l’epilogo della vicenda

27 Luglio 2020

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha segnato l'epilogo della saga “Mafia capitale”, sancendo che non si è trattato di ‘vera mafia'. È stata infatti esclusa la possibilità di sussumere i fatti contestati agli imputati della nota vicenda romana nel delitto di associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416-bis c.p., derubricandoli in quello di cui all'art. 416 c.p.
La vicenda “Mafia Capitale”

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha segnato l'epilogo della saga “Mafia capitale”, sancendo che non si è trattato di ‘vera mafia' (per un primo commento G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, in Sist. pen., 18 giugno 2020; A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", in www.giustiziainsieme.it).

È stata infatti esclusa la possibilità di sussumere i fatti contestati agli imputati della nota vicenda romana nel delitto di associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416-bis c.p., derubricandoli in quello di cui all'art. 416 c.p.

Si tratta del punto di approdo di una lunga ed articolata vicenda giudiziaria (in argomento, per tutti, G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa, Roma, 2017, 23 ss.; T. Guerini, Il reato di associazione di tipo mafioso nel sistema di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, in L. Della Ragione, G. Insolera, G. Spangher, I reati in materia di stupefacenti, Milano, 2019, 539 ss.; C. Visconti-I. Merenda, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell'art. 416 bis c.p. tra teoria e diritto vivente, in E. Mezzetti-L. Luparia Donati, a cura di, La legislazione antimafia, Bologna, 2020, 37 ss.), iniziata nel dicembre 2014, allorchè si avviava una vasta operazione volta ad eseguire circa quaranta ordinanze di custodia cautelare in carcere, disposte in relazione ad altrettanti indagati per il reato di associazione di tipo mafioso, contestato in relazione ad una mafia romana autoctona, composta da alcuni soggetti legati alla banda della Magliana e da manager operanti nel settore degli appalti pubblici. Alla base dell'ipotesi accusatoria, vi era la tesi della nascita e dello sviluppo nel territorio romano di una associazione di tipo mafioso con caratteristiche proprie, “solo in parte assimilabili a quelle delle mafie tradizionali e agli altri modelli di organizzazione di stampo mafioso (...) che delineano un profilo affatto originale e originario” (Tribunale di Roma, Ufficio GIP, dott.ssa Flavia Costantini, Ordinanza del 28 novembre 2014, 33).

Tra le peculiarità di questo gruppo criminale, generatosi — in adesione alla tesi della gemmazione da un sodalizio matrice, la cui accumulazione criminale originaria rappresenta lo stato embrionale del metodo mafioso (G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 133 ss.) - dal connubio tra soggetti che avevano fatto parte di gruppi della galassia del terrorismo nero – e, in particolare, dei NAR – e alcuni componenti della Banda della Magliana, successivamente confluiti in Mafia Capitale, vi sarebbe l'attitudine a costituire un punto di incontro, o meglio un mondo di mezzo, nel quale convergono gli interessi dei criminali di strada (il mondo di sotto), e quelli di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni (il mondo di sopra).

Elemento caratteristico di questo sodalizio, sarebbe stato lo scarso utilizzo di metodi violenti (nel processo sono stati ritenuti provati solo undici episodi di crimini violenti, commessi nell'arco di tre anni, dal 2012 al 2014) ai quali veniva preferito il sistematico ricorso a tecniche corruttive, volte a garantire ai sodali — e in particolare alle imprese da questi controllate — l'affidamento di appalti per servizi di pubblica utilità.

Il Tribunale di Roma, che ha pronunciato la prima sentenza di merito, pur condannando la gran parte degli imputati a pene estremamente severe, aveva negato l'applicabilità dell'art. 416-bis, optando per una qualificazione giuridica dei fatti che ricadeva nell'alveo della comune associazione per delinquere (Trib. Roma, Sent. 20 luglio 2017 -dep. 16 ottobre 2017, in Dir. pen. cont. 27 novembre 2017; in argomento, G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso, in Giur. it., 2018, 956 ss.).

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, veniva innanzitutto negata la natura unitaria del sodalizio, determinando così il venir meno delle fondamenta che stessa teoria del Mondo di mezzo: da un lato vi sarebbe una associazione per delinquere dedita alla commissione di delitti contro il patrimonio, tradizionalmente appannaggio della criminalità romana, come l'usura o l'estorsione; dall'altro invece avrebbe operato una distinta struttura criminosa, dedita alla corruzione e alla turbativa delle licitazioni pubbliche. Inoltre, nessuna delle due associazioni avrebbe avuto caratteristiche tali da consentire di qualificarle autonomamente come mafiose. La prima associazione, la cui natura criminale era comunque ritenuta pacifica, avrebbe posto in essere atti di intimidazione volti a coartare la volontà di singoli debitori, provocando nelle vittime uno stato di grave preoccupazione e timore. Tuttavia, quell'associazione non avrebbe mai operato nel settore della pubblica amministrazione, ove invece agiva la seconda struttura criminale. Dunque, non un'unica associazione di stampo mafioso, bensì due sodalizi comuni, distinti sia per la diversità dei soggetti coinvolti, sia per la diversità delle azioni criminose e per la eterogeneità delle condotte organizzative ed operative. Infatti, non sussisterebbe nemmeno l'elemento della mafiosità derivata, in quanto non sarebbe possibile stabilire un rapporto tra queste e la Banda della Magliana, gruppo criminale “ormai estinto”, riguardo al quale, “non si è potuti giungere ad affermare che si trattasse di un'associazione di tipo mafioso”, così come i NAR sarebbero “una formazione politica ormai cancellata dalla storia”, ma non sarebbe nemmeno possibile riconoscere alle due associazioni una mafiosità autonoma. Una affermazione, peraltro, contestata nell'appello del Pubblico Ministero, ove si afferma che il processo per la Banda della Magliana si è concluso, nei confronti di taluni imputati, con sentenza di condanna, all'esito di giudizio abbreviato, per il delitto di cui all'art. 416-bis, divenuta successivamente definitiva (Corte d'Assise di Roma, 23 luglio 1997, n. 27). Vero è che per altri imputati, per i quali venne celebrato il giudizio ordinario, tale qualifica venne esclusa. Pertanto, secondo la Procura capitolina, la questione della mafiosità della Banda della Magliana sarebbe “controversa negli esiti giudiziari”.

La sentenza di primo grado è stata oggetto di gravame sia da parte della Procura di Roma, sia da parte della Procura Generale presso la Corte d'Appello di Roma e il processo d'appello, che si è tenuto nella primavera-estate del 2018, ha ribaltato le conclusioni dei giudici di primo grado, riconoscendo — solo per taluni degli imputati — la sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso (Corte d'Appello di Roma, sent. 10010/2018). Secondo la Corte, questa associazione — che avrebbe peraltro avuto rapporti con le altre mafie romane — sarebbe stata la risultante di due progetti espansionistici: quello di chi, venendo dalla criminalità comune, voleva inserirsi anche nel settore amministrativo e imprenditoriale di cui altri associati, a loro volta interessati ad utilizzare la fama criminale e i rapporti politici dei primi, erano espressione. La forza di intimidazione, peraltro, sarebbe stata particolarmente rivolta al settore imprenditoriale e a quello dei pubblici funzionari, per comprimere ulteriormente attività concorrenziali rispetto agli interessi del sodalizio, già fortemente pregiudicati dal sistematico ricorso ad attività corruttive. Ulteriori elementi a sostegno delle tesi d'accusa vengono poi ricavati dall'attività di intimidazione posta in essere dai vertici dell'associazione e in particolare da colui che ne è sempre stato indicato come il capo. Ne sarebbe così derivato uno stato di assoggettamento e omertà, “nel settore economico e in quello della pubblica amministrazione, dove la percezione esterna della forza intimidatrice espressa dal sodalizio, come si è visto, è stata talmente radicata e pervasiva, che nessuno, in sede politica ovvero giudiziaria, ha mai osato innalzare una voce di dissenso, o sporgere formali atti di denuncia”.

In sintesi, secondo quanto accertato dai giudici d'appello, Mafia Capitale fu una associazione di tipo mafioso di nuova formazione, sia pure di piccole dimensioni e operante in un ambito limitato. Come si è detto, nel settore degli appalti essa agì come gruppo imprenditoriale ed era identificabile e riconoscibile all'esterno.

Proprio per queste sue caratteristiche l'associazione ha cessato la sua operatività con gli arresti del dicembre 2014, che coinvolsero i capi e quasi tutti gli altri associati. Anche l'amministrazione giudiziaria dell'associazione ne ha disarticolato l'organizzazione impedendo l'ulteriore prosecuzione della sua attività. Pertanto, non può essere applicata alla fattispecie la massima secondo cui “in tema di delitto associativo di stampo mafioso, l'arresto non sempre interrompe la permanenza nel reato, giacché l'associato può ben continuare a far parte del sodalizio e mantenere i contatti con i complici in libertà anche durante lo stato di detenzione” (così Cass. n. 1793/1994).

Breve: una piccola — piccolissima — mafia, che ha operato per tre anni, che è stata disarticolata con l'arresto dei suoi pochi membri, punita con pene inferiori a quelle comminate in primo grado applicando ai suoi membri il reato associativo comune di cui al 416 c.p.

Le perplessità sull'applicazione ad un sodalizio dotato di queste caratteristiche dell'art, 416-bis, sono numerose (cfr. T. Guerini, Il reato di associazione di tipo mafioso nel sistema di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, cit., 539 ss.).

Seguendo questa impostazione, infatti, la forza di intimidazione diviene fluida, slegata dall'utilizzo di metodi violenti e fondata sulla capacità del sodalizio criminale di avere rapporti con apparati “deviati” dello Stato: servizi segreti e forze dell'ordine da un lato, funzionari corrotti dall'altro.

È del resto questa l'ottica che nel caso di specie ha deciso di seguire la Corte di Cassazione, che ha avuto modo di pronunciarsi con due sentenze, rese in fase cautelare (Cass. pen., Sez. VI, 10 aprile-9 giugno 2015, n. 24535 e Cass. pen., Sez. VI, 10 aprile-8 giugno 2015, n. 24536, in Cass. pen., 1-2016, 87 ss.), non a caso più volte richiamate dai giudici d'appello.

Vale la pena riprenderne alcuni passaggi.

A parere della Corte: “la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politico-elettorali, con l'uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell'assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio”.

Da qui la conseguenza secondo cui anche le piccole mafie, dotate di una riserva di violenza tale da non rendere necessaria l'estrinsecazione del metodo mafioso, che prediligono forme larvate di assoggettamento e che operino al fine di controllare un settore economico, ovvero un ambito territoriale circoscritto (Come ha stabilito una recente sentenza della Corte di Cassazione: “Il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. è configurabile in relazione ad organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette “tradizionali”, anche nei confronti di un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti, che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare, sia pur in un ambito territoriale circoscritto, una condizione di assoggettamento ed omertà diffusa”. Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 57896 del 26 ottobre 2017), possono integrare il tipo legale descritto dall'art. 416-bis c.p.

Eppure, coma stato acutamente osservato (cfr. T. Guerini, Il reato di associazione di tipo mafioso nel sistema di contrasto al traffico di sostanze stupefacenti, cit., 539 ss.), difficile “non vedere in questa faticosa esegesi, volta a valorizzare elementi periferici della fattispecie — come il riferimento al numero minimo di aderenti — e a svilire l'essenza del reato associativo di stampo mafioso — il metodo — la rincorsa ad uno Zeitgeist che vuole nel riconoscimento della mafiosità un valore in sé, tale da porre in secondo piano persino la riduzione delle pene comminate in primo grado…con il paradosso della pubblica accusa che festeggia una diminuzione di pena, vissuta come una sconfitta da parte della difesa”.

La sentenza della Suprema Corte: non era vera mafia

La Suprema Corte - con un impianto logico-argomentativo lineare - ha proceduto a confutare la qualificazione dei fatti fornita dalla Corte di Appello di Roma a vantaggio di quella proposta dal Tribunale di primo grado, ravvisando l'esistenza di due distinti gruppi criminali comuni riportabili entrambi nel tipo criminoso dell'associazione per delinquere semplice ex art. 416 c.p., uno orientato alla realizzazione di delitti-scopo di carattere patrimoniale, l'altro di delitti-scopo contro la pubblica amministrazione.

Così, pur ritenendo così astrattamente possibile la configurabilità del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. anche in contesti non storicamente mafiosi, lo stesso è stato escluso nel caso di specie, riscontrando la sussistenza di un sistema corruttivo stabile e pervasivo che si era infiltrato in profondità negli uffici pubblici della capitale e che meritava di essere adeguatamente punito ai sensi di figurae criminis ‘altre' rispetto al 416-bis c.p., difettando la prova dell'effettivo impiego del metodo mafioso da parte di entrambi i sodalizi.

Si ha tuttavia cura di precisare, con il comunicato stampa dell'Ufficio relazioni con i mezzi di informazione, che la sentenza non ha demolito l'impianto accusatorio, negando l'esistenza di gruppi criminali dediti anche alla gestione corruttiva degli appalti pubblici nella capitale, ma si è limitata ad escluderne la riconducibilità ad unico sodalizio di tipo mafioso e quindi sussumibile nel paradigma di cui all'art. 416-bis c.p.

La sentenza si caratterizza per una corretta ricostruzione della tipicità di cui all'art. 416-bis c.p., rinforzata rispetto a quella ‘esangue' dell'art. 416 c.p., per terminare con una rigorosa descrizione dei vizi di legittimità della decisione dei giudici del gravame che, ribaltando il giudizio di primo grado, avevano ravvisato nella vicenda mafia capitale una associazione di tipo mafioso.

(Segue). Il “metodo mafioso”

Va premesso che l'art. 416-bis c.p. definisce, al terzo comma, l'associazione di tipo mafioso nell'ipotesi in cui coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano sia per commettere delitti sia per compiere una serie di attività (lecite o illecite) tassativamente indicate dalla norma.

La definizione normativa del metodo mafioso ruota, pertanto, attorno all'elemento della forza d'intimidazione del vincolo associativo; la capacità intimidatrice è la cifra identificativa del sodalizio, ne caratterizza l'attività e determina le situazioni di assoggettamento e omertà, strumentali al perseguimento dei fini dell'associazione (A. Dell'Osso, I “limiti” del reato di associazione di tipo mafioso di fronte alla “Mafie in trasferta”, in A. Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell'attività d'impresa al Nord, Torino, 2017, 66 ss.).

Ciò che contraddistingue un sodalizio di tipo mafioso rispetto a un'associazione per delinquere “pura” è, dunque, dal lato attivo, l'utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo; dal lato passivo, la condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano.

In sintesi, i due termini si pongono in rapporto, rispettivamente, di causa ed effetto.

La fattispecie delineata dall'art. 416-bis c.p. è, in effetti, costruita attorno alla descrizione del metodo mafioso, che deve sussistere, e come tale deve essere percepito e vissuto: di questa consapevolezza non sembrano essere stati sempre perfettamente consapevoli le decisioni della giurisprudenza e le riflessioni della dottrina sul tema, oggi attente a darne una ragionata applicazione a nuove realtà criminologiche, delle “mafie straniere”, dell'espansione delle mafie “storiche” in aree di non tradizionale radicamento, nonché delle mafie autoctone.

Il dettaglio finalistico che arricchisce il quadro degli elementi costitutivi della tipicità penale ex art. 416-bis c.p. (segnatamente, comma 3) esprime chiara questa direzione, e fornisce così un palese indizio semantico anche per la delimitazione del concetto di “delitti” cui si riferisce la clausola generale dell'orizzonte teleologico dell'associazione mafiosa. In questo senso, si pensi al favoreggiamento della prostituzione, dell'immigrazione clandestina, all'illecito sfruttamento del lavoro altrui ovvero all'illecita intermediazione nello stesso, all'usura, al traffico illecito di rifiuti come di sostanze stupefacenti, alla gestione e controllo di appalti e servizi pubblici; al pari, l'associazione può risultare indirizzata a perseguire questa ricchezza come l'effetto consequenziale/indiretto dell'influenza esercitata sui centri del potere decisionale-politico, per mezzo di un turbamento della libertà delle procedure elettorali.

La forza d'intimidazione del vincolo consiste nella “quantità di paura che una persona (fisica o giuridica) è in grado di suscitare nei terzi in considerazione della sua predisposizione ad esercitare sanzioni o rappresaglie [... in una] fama tale da porre i terzi in una condizione di assoggettamento e omertà”; ancora, nell' “intrinseca idoneità di un aggregato umano di incutere paura nei terzi in ragione del già sperimentato esercizio della coazione” (M. Ronco, L'art. 416-bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in B. Romano – G. Tinebra, Il diritto penale della criminalità organizzata, Milano, 2013, 139).

Tali definizioni legano la capacità intimidatrice alla storia dell'associazione: l'attitudine a incutere timore è una qualità ottenuta “sul campo”, in ragione dell'attività illecita esercitata da parte del sodalizio. Dietro un'associazione di tipo mafioso si colloca un “precedente sodalizio criminoso indifferenziato”; in tale prospettiva, non è cioè possibile che un nucleo criminale di “nuova” formazione presenti da subito i tratti della consorteria mafiosa: a tal fine, è necessario un periodo di “gavetta”, nel corso del quale far nascere e maturare - attraverso la commissione di atti di violenza o minaccia - la fama criminale necessaria per innescare la richiesta forza intimidatrice (G. Forti (agg. Matteo Caputo), art. 416-bis, in A. Crespi- G. Forti – G. Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Cedam, Padova, 2017, 1002 ss.).

Ed è proprio una siffatta fama che consente alle associazioni mafiose di “incutere timore per la loro stessa esistenza” e giustifica la connotazione del sodalizio in termini di “attualità criminosa”. Ne deriva che, una volta acquisita tale attitudine, non occorre un ricorso costante e quotidiano ad atti d'intimidazione: a un certo punto, l'associazione mafiosa - divenuta effettivamente tale - può, per così dire, vivere di rendita, contando sulla percezione effettiva di timore ormai diffusa nella popolazione.

La controversia interpretativa circa i limiti di estensione del concetto penalistico di mafia è dunque nata dalla stessa formulazione normativa dell'art. 416-bis c.p., caratterizzata da un ampio alone di indeterminatezza e vaghezza anche in ragione della prevalente connotazione a carattere sociologico-ambientale dei principali elementi identitari che il legislatore ha prescelto per definire l'associazione mafiosa: per cui sin dall'origine essa costituisce un modello di reato dalla tipicità debole e incerta, con la conseguenza di far apparire ancora più problematica la distinzione tra interpretazione estensiva (ammissibile) e interpretazione analogica (vietata).

Va comunque osservato che requisiti identificativi, quali forza intimidatrice del vincolo associativo, da un lato, e condizione di assoggettamento e di omertà, dall'altro, sono stati adottati dal legislatore del 1982, avendo come punto di riferimento le mafie classiche storicamente insediate al Sud (mafia siciliana, camorra campana, ‘ndrangheta calabrese). Sicché non ha tardato ad emergere in giurisprudenza il problema (in verità, affacciatosi sin dai primi anni '80 del Novecento), se siano riconducibili al paradigma normativo dell'associazione mafiosa anche organizzazioni criminali diverse da quelle storiche e situate in contesti territoriali nuovi. Si tratta, dunque, di un problema interpretativo-applicativo che ha radici alquanto risalenti e che è andato ciclicamente riaffiorando anche per effetto o del trapianto al Nord di sodalizi criminali che costituiscono pur sempre filiazione di organizzazioni-madri operanti al Sud, ovvero della nascita di nuclei criminali che ambiscono a una posizione di autonomia. Per riflesso di questi fenomeni genetici e delle connesse varianti socio-criminologiche, la fattispecie dell'associazione di stampo mafioso, lungi dallo strutturarsi una volta per tutte nelle forme di un edificio solido e ben consolidato, ha finito così - specie in alcuni frangenti temporali – per alimentare la processualizzazione delle categorie di diritto penale sostanziale, in cui il tipo legale viene definito sulla base delle evidenze probatorie disponibili, con l'effetto di una frammentazione interpretativa dell'associazione mafiosa in varie sottofattispecie, ritagliate giudiziariamente in funzione delle specifiche caratteristiche empiriche dei concreti sodalizi di volta in volta sub iudice.

In tale contesto, la sentenza in commento, che chiude infine la vicenda qualificatoria riaffermando la tesi dell'esistenza di due associazioni entrambe qualificabili associazioni per delinquere semplici, si segnala per il rigore dei rilievi critici rivolti alla carente motivazione della sentenza d'appello e, soprattutto, per la comprensibile preoccupazione di accreditare una lettura dell'art. 416-bis c.p. volta a soddisfare le esigenze di tassatività della fattispecie incriminatrice, in conformità al principio di riserva di legge e al connesso principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie: da qui la ritenuta necessità di intendere interpretativamente in modo uniforme, e non indebolito, il “metodo mafioso”, quale basilare elemento identificativo del tipo criminoso in questione, richiedendo sempre sul piano probatorio riscontri esterni della sua effettiva esteriorizzazione nei contesti di riferimento.

Ad avviso della Cassazione, nel caso di cosiddetta Mafia Capitale, per un verso, è mancata una adeguata verifica probatoria – oltre ogni ragionevole dubbio – dell'esistenza di una forza intimidatrice effettivamente percepibile, sia pure nell'ambito di un contesto di proporzioni ridotte, e di un conseguente assoggettamento omertoso nell'ambiente circostante; e, per altro verso, si è assistito ad una impropria sovrapposizione tra metodo corruttivo e metodo mafioso.

Più precisamente, la Suprema Corte evidenziano “l'asse legicentrico lungo cui deve essere condotto il giudizio sulla caratura mafiosa o meno dei gruppi criminali implicati nel sistema corruttivo di ‘mafia capitale' ed in quello usuraio del ‘distributore di Corso Francia'” (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Si precisa infatti che non si può mai giungere “a piegare le esigenze di tassatività della fattispecie e la prevedibilità delle decisioni ad esigenze di semplificazioni probatorie ed a necessità di andare al ‘cuore' sostanziale di intricate vicende”.

Su queste basi, si afferma che il delitto di associazione di tipo mafioso integra una fattispecie associativa mista (in dottrina G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, 85 ss.), per la cui integrazione non può essere accertata “la mera potenzialità, per quanto seria, di un futuro uso del metodo mafioso, dovendosi verificare in concreto la sua effettiva incidenza nell'ambito di operatività del sodalizio”. Diversamente dall'art. 416 c.p., che rappresenta al contrario una fattispecie associativa pura o ‘per delinquere', per la sua integrazione non è sufficiente la mera intenzione della futura commissione di delitti attraverso una stabile organizzazione di mezzi e persone, ma il concreto innesco di una serie di “effettive derivazioni causali” tra la condotta di ‘avvalimento' della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e l'assoggettamento e l'omertà diffuse nella cerchia di persone che con il sodalizio si relazionano.

Dunque, il metodo mafioso costituisce un elemento costitutivo che radica il disvalore amplificato della fattispecie incriminatrice associativa di tipo mafioso e non può essere depotenziato, pena la violazione dei “principi costituzionali di materialità e tassatività della fattispecie di cui all'art. 25 Cost.” e lo stravolgimento della natura giuridica dell'ipotesi delittuosa associativa da mista in pura.

La pronuncia precisa che l'art. 416-bis, comma 3, c.p. descrive a livello normativo generale ed astratto il modus operandi che deve contraddistinguere “un'associazione di tipo mafioso, individuandolo, da un lato, nella esternazione della forza di intimidazione da parte dell'intero sodalizio e, dall'altro, nella produzione (concretamente apprezzabile) nei territori in cui questo opera di uno stato latente di assoggettamento omertoso obiettivamente riscontrabile” (in dottrina, G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Vengono così superate le posizioni contrarie, affermando che “la capacità intimidatrice del metodo mafioso (…) deve quindi avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta. (…) Il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua ‘esteriorizzazione' quale forma di condotta positiva richiesta dalla norma con il termine avvalersi. (…) Ciò che è essenziale è che la fonte della forza di intimidazione derivi dall'associazione, cioè dal gruppo, dal suo prestigio criminale, dalla sua fama, dal vincolo associativo e non dal prestigio criminale del singolo associato”.

Sotto tale ultimo aspetto la Suprema Corte precisa che ai fini della concretizzazione del metodo mafioso non è però sempre richiesto il compimento di atti integranti gli estremi della violenza o minaccia, almeno in forma tentata, quale riflesso empirico del suo avvalimento, atteso che “la necessità di esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell'associazione e dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono solo un modo, uno strumento – eventuale, possibile, come altri – con cui quella forza di intimidazione può manifestarsi, ben potendo quest'ultima esternarsi anche con il compimento di atti non violenti, ma pur sempre espressione della esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo”.

Allineandosi ad altra recente pronuncia (Cass., pen. Sez. II, 16 marzo 2020, n. 10255, Fasciani, sulla quale A. Manna-A. De Lia, “Nuove mafie” e vecchie perplessità. Brevi note a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Arch. pen., 1/2020, 1 ss.), relativa al clan Fasciani di Ostia, la Corte sembra dunque ribadire che la forza di intimidazione rappresenta all'interno della fattispecie associativa mafiosa “un requisito di tipicità ‘a forma libera', declinabile in modi eterogenei a seconda della sotto-tipologia mafiosa considerata e non predeterminabili tassativamente ex ante dal legislatore” (G. Amarelli, Mafie autoctone: senza metodo mafioso non si applica l'art. 416-bis c.p., in corso di pubblicazione in Giur. it., 2020, 1 ss. del dattiloscritto).

La conclusione circa la dimensione concreta e non potenziale del metodo mafioso vale quindi per tutte le tipologie di mafie atipiche: le straniere, le delocalizzate e le autoctone; ciò che muta è solamente il materiale probatorio utile a configurarlo, potendo crearsi “sottotipi applicati” in base alle caratteristiche assunte dai diversi gruppi criminali nei loro contesti di azione, come dimostra, ad esempio, l'erosione del requisito della territorialità per le mafie straniere. Risulta così chiara la distanza da quelle pronunce, in contrasto con il principio di determinatezza/tassatività, che riconducevano l'associazione di tipo mafioso ad una fattispecie associativa pura, essendo imprescindibile l'esteriorizzazione in concreto della capacità di intimidazione all'esterno e la connessa produzione di un assoggettamento omertoso diffuso. Detto altrimenti, il metodo mafioso deve costituire oggetto di verifica effettiva in tutte le sue articolate componenti e va compitamente accertato il metus nel territorio di insediamento con i suoi effetti diretti dell'assoggettamento e dell'omertà.

L'opposta soluzione rischia di equiparare dal “punto di vista del disvalore situazioni profondamente eterogenee, punendo irragionevolmente con le stesse sanzioni comminate per la partecipazione ad un sodalizio effettivamente operante con metodo mafioso, la partecipazione ad un gruppo criminale solo potenzialmente mafioso, ma non ancora percepito come tale nel contesto circostante” (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

La Suprema Corte sotto tale aspetto ha cura di evidenziare che l'equiparazione sanzionatoria tra mafie nuove e mafie tradizionali, in forza del principio di proporzionalità-ragionevolezza ed offensività, implica un attento accertamento in entrambe le situazioni della effettiva sussistenza del metodo mafioso: “la tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie di cui all'art. 416 bis, ultimo comma, c.p., piccole o grandi che siano”.

(Segue). Le critiche all'impostazione della Corte di Appello

Ricostruita la struttura normativa tipica del delitto di cui all'art. 416-bis c.p., la Suprema Corte inizia a confutare la ricostruzione della Corte di Appello di Roma, che si ritiene non aver fatto corretta applicazione dei principi di diritto appena richiamati.

In particolare, si afferma che la decisione della Corte di Appello di ribaltare in senso peggiorativo la decisione del giudice di primo grado di condanna, riqualificando la partecipazione associativa dei vari imputati ai sensi dell'art. 416-bis c.p. anziché dell'art. 416 c.p., avrebbe meritato – secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, avallato anche da S.U. 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino – una motivazione rafforzata, dotata di forza persuasiva superiore, configurando un'ipotesi di reformatio in peius.

La Corte di Appello avrebbe dovuto quindi supportare il suo overruling in malam partem circa “la natura mafiosa delle vicende apprezzate, indicando analiticamente gli errori di valutazione contenuti nella sentenza di primo grado e le ragioni opposte che imponevano la soluzione contraria” (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Per contro, i giudici del gravame non hanno proceduto ad “uno smantellamento punto per punto della decisione di primo grado che aveva escluso la configurabilità dell'art. 416 bis c.p. e alla confutazione degli elementi di fatto su cui questa si fondava, ma si sono limitati al mero recupero delle sentenze gemelle della Cassazione relative alla fase cautelare, con cui era stata temporaneamente confermata l'impostazione mafiosa sostenuta dall'accusa, sulla scorta, però, di fatti rivelatisi nel giudizio di merito ben diversi” (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Per la Suprema Corte, ad essere “gravemente erronea” non è, quindi, “l'impostazione accusatoria circa la natura mafiosa della vicenda fornita dalla Procura, né tanto meno la conforme valutazione provvisoria contenuta nelle decisioni di legittimità cautelari, quanto piuttosto la decisione della Corte di appello di Roma, perché si è basata su fatti rivelatisi all'esito del giudizio di merito sensibilmente differenti da quelli posti a fondamento delle decisioni in materia de libertate pregresse” (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Il ribaltamento di valutazione circa la connotazione mafiosa di ‘mafia capitale', infatti, è stato ancorato ad acquisizioni ben diverse da quelle emerse nel dibattimento e sulla cui scorta si era pervenuti a conclusioni difformi, vale a dire al convincimento che si trattasse di un'unica associazione criminale, operante con modalità mafiose in un ambito territoriale molto più ampio di quello successivamente accertato in giudizio, diretta da C., dotata di armi, collegata con la ‘ndrangheta ed altri sodalizi criminali mafiosi e dedita ad attività economiche finanziate con i proventi dei delitti dell'associazione (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Ne deriva che è risultata pertanto del tutto inadeguata la motivazione della sentenza di secondo grado nella parte in cui ravvisa nuovamente nella vicenda un'unica associazione di tipo mafioso, piuttosto che due distinte associazioni per delinquere comuni, prive di un organico e permanente collegamento e dedite alla commissione di specifiche tipologie delittuose senza esternazione di una propria forza di intimidazione (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Tale assunti sarebbero dovuti essere supportati da una verifica, oltre ogni ragionevole dubbio, che la nuova formazione avesse conseguito un proprio prestigio criminale, differente da quello dei suoi singoli affiliati; avesse manifestato in concreto la sua forza di intimidazione anche in un contesto oggettivo e soggettivo ridotto; tale manifestazione fosse stata percepita nell'ambiente circostante producendo un diffuso assoggettamento omertoso.

La motivazione della sentenza di appello viene così ritenuta gravemente carente perché, “piuttosto che confrontarsi con il ragionamento probatorio del Tribunale, ha invece meramente recepito la decisione adottata dalla Corte di cassazione in ambito cautelare, senza, tuttavia, considerare la diversa base probatoria nel frattempo formatasi”.

Sul piano del metodo mafioso osserva la Suprema Corte che (come evidenziato da G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.):

  1. la sentenza di appello ha ricavato inferenzialmente la sussistenza del metodo mafioso attraverso l'apprezzamento isolato della caratura criminale di un singolo partecipe, piuttosto che dell'intero sodalizio, senza integrarlo neanche con il complementare riscontro dell'effettivo assoggettamento omertoso dell'area territoriale in cui questo operava;
  2. la prova è stata desunta tramite un'impropria sovrapposizione con il metodo corruttivo che ha caratterizzato la vicenda di ‘mafia capitale' sul versante della infiltrazione negli appalti pubblici. Per la Corte di Cassazione, infatti, il sistema degli appalti nel comune di Roma era gestito, piuttosto che attraverso il metus promanante dal vincolo associativo, tramite un oleato sistema di pratiche corruttive. Il mondo delle gare pubbliche capitoline sembrava, invero, “gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”; la vendita delle funzioni avveniva invero non per il timore di ritorsioni violente da parte di un gruppo già noto per l'impiego pregresso di simili modalità operative e per la sua comune storia criminale, ma grazie alla stipula di intese sinallagmatiche nel reciproco interesse delle parti nell'ambito di un “fenomeno diverso, di collusione generalizzata, diffusa e sistemica”. Le decisioni dei funzionari, infatti, non sono state indotte coattivamente dalla capacità di violenza, intimidazione e costrizione sprigionata dal sodalizio esistente alle spalle dei loro interlocutori interessati alla assegnazione delle gare, ma adottate liberamente sulla scorta di accordi illeciti e paritari, stipulati all'esito, sovente, di trattative sui tempi e sui costi. La pubblica funzione è stata cioè compromessa sulla base di una scelta autonoma e consapevole, ancorché criminale, di un elevato numero di pubblici amministratori, di politici, di pubblici funzionari mossi da logiche di indebita locupletazione a discapito del pubblico interesse, non da decisioni coartate di soggetti tenuti ad ottemperare alle richieste per paura di ritorsioni in cambio di piccole prebende.

Nessuna forza di intimidazione risulta quindi essere stata esplicitata neanche nei confronti degli imprenditori esclusi dagli appalti; la maggior parte, infatti, accettava la logica spartitoria proposta da B. ed incentrata su accordi corruttivi e non sull'intimidazione, traendone vantaggi.

In conclusione, per la S.C. “le risultanze probatorie del processo non consentono affatto di affermare, sul piano generale ed astratto, che sul territorio del Comune di Roma non possono esistere fenomeni criminali mafiosi, quanto, piuttosto, che con specifico riguardo al caso in esame, si è indebitamente piegata la tipicità della fattispecie prevista dall'art. 416-bis c.p. per farvi confluire fenomeni ad essa estranei.

Dalla decisione di annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p. discende quale conseguenza ulteriore e non secondaria l'automatico annullamento della sentenza in relazione alla applicazione a taluni reati scopo della aggravante soggettiva della agevolazione mafiosa ex art. 416-bis.1, comma 1, c.p. e delle aggravanti di cui agli artt. 628 e 629, comma 3, n. 3 c.p., in quanto tutte presuppongono l'effettiva previa esistenza di una associazione mafiosa (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Si arriva anche a cassare la parte della pronuncia in cui, rispetto a taluni reati di estorsione, era stata ritenuta sussistente l'altra aggravante oggettiva del metodo mafioso di cui all'art. 416-bis.1, comma 2, c.p., ritenendo non provato che gli autori avessero utilizzato in taluni episodi delittuosi di matrice estorsiva modalità tali da fare ritenere alle vittime che operassero per conto di un'associazione mafiosa.

Per la Suprema Corte dunque a Roma non solo non è esistita un'unica associazione operante con il metodo mafioso nel settore degli appalti pubblici e delle estorsioni; ma addirittura, non è stato commesso da parte dei partecipi di entrambe le distinte associazioni per delinquere comuni – neanche quella finalizzata alla commissione di reati con matrice patrimoniale – alcun delitto con il metodo mafioso.

Tale aspetto non appare del tutto convincente, laddove si consideri la tendenza ad applicare con grande elasticità l'aggravante oggettiva mafiosa, anche a prescindere dall'effettiva esistenza di un sodalizio mafioso, e tenendo conto delle conseguenze che può riverberare il suo annullamento (G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Ed invero, oltre che sul versante sanzionatorio, tale scelta incide anche sul versante penitenziario, determinando l'esclusione della applicazione del regime ostativo dei benefici penitenziari previsto dall'art. 4-bis ord. penit., oltre che per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., anche per quelli aggravati dall'art. 416-bis.1 c.p., nonché sul fronte delle misure cautelari, come testimoniato dalla recentissima ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma con cui è stata disposta la liberazione di taluni imputati per decorrenza della durata complessiva massima della custodia cautelare (Tribunale di Roma, Sezione Riesame, ord., 15 giugno 2020; in dottrina, G. Amarelli – C. Visconti, Da ‘mafia capitale' a ‘capitale corrotta'. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, cit.).

Osservazioni

La sentenza della Suprema Corte sulla saga di “Mafia capitale” radica la oramai stabile inversione di tendenza della giurisprudenza di legittimità rispetto al problema della qualificazione giuridica delle mafie atipiche, che dopo anni di pericolosi sbandamenti, ha optato per una impostazione fedele al modello costituzionale di lotta al delitto, fondato su i principî costituzionali di legalità, offensività e proporzionalità-ragionevolezza della pena (tendenza che oggi può ritenersi stabile nella connessione con altre tre decisioni coeve della stessa Corte di Cassazione; Pres. Agg. Cass. S.u., ord. restituzione atti, 17 luglio 2019; Cass., Sez. I, 29 novembre 2019, n. 51489; Cass., Sez. II, 16 marzo 2020, n. 10255).

La questione non era del resto di poco conto, perché – come è noto – l'art. 7 e l'interpretazione che ne dà la Corte europea integrano i parametri di legittimità delle norme nazionali: non va infatti taciuto che la conformità dell'art. 416-bis alla “determinatezza/tassatività europea”, così legata all'"interprétation donnée par les tribunaux" e alla prevedibilità degli esiti giudiziari, poteva e potrebbe ancora, laddove tali risultati non fossero mantenuti stabili, essere oggetto di valutazione della Corte di Strasburgo, con tutte le possibili, delicate implicazioni che un giudizio di difformità potrebbe sviluppare sull'assetto e sull'applicazione del diritto interno (L. Fornari, Il metodo mafioso, dall'effettività dei requisiti al “pericolo di intimidazione” derivante da un contesto criminale, in Dir. pen. cont., 2016), ripetendo nel sistema interno una vicenda simile alla Contrada, che ha condotto ad una censura per l'applicazione del concorso esterno in associazione mafiosa a fatti che secondo il tempo in cui sono stati commessi non erano previsti dalla “giurisprudenza” come reato (in tema, per tutti, V. Maiello, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Torino, 2019, 219 ss.).

Viene dunque ad essere sempre più stabile, con una valorizzazione del canone convenzionale di acessibilità/prevedibilità, l'impostazione secondo cui l'art. 416-bis tipizza un'associazione a struttura mista in cui, ai fini della punibilità, si rende necessaria un'esteriorizzazione effettiva e concretamente tangibile del “metodo mafioso”, quale forma di condotta positiva richiesta dall'uso del termine “si avvalgono” di cui all'al secondo capoverso della disposizione.

Secondo tale condivisibile orientamento interpretativo, l'elemento che diversifica il delitto di associazione mafiosa dall'associazione per delinquere semplice va, appunto, individuato nel metodo utilizzato, consistente nell'avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell'organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell'ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. L'associazione si assicura così la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo per l'ordine pubblico economico La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forza intimidatrice dell'associazione. Se essa è invece indotta da altri fattori, si avrà l'associazione per delinquere semplice.

Tale orientamento, più aderente alla lettera della legge e quindi maggiormente in sintonia con il principio di stretta legalità, considera necessario l'effettivo utilizzo della forza di intimidazione dell'associazione. L'uso dell'indicativo da parte del legislatore non consentirebbe, infatti, di dare rilevanza a mere proiezioni programmatiche del sodalizio, come sarebbe stato invece possibile qualora si fosse usata la diversa locuzione “intendono valersi” (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

La formulazione letterale non consente di prescindere dall'esistenza della forza intimidatrice e dalla sua utilizzazione. Forza intimidatrice e condizioni di assoggettamento risultano, dunque, elementi oggettivi della fattispecie. In tal modo l'art. 416-bis c.p. si collocherebbe tra i reati associativi a struttura mista “per i quali la legge richiede non solo l'esistenza di un'associazione, ma anche la realizzazione o un inizio di realizzazione del programma criminoso”. L'associazione mafiosa, in questa prospettiva, si strutturerebbe più che come un'associazione per delinquere, come un'associazione che delinque, per la cui configurabilità è indispensabile il concreto esercizio da parte degli associati della forza di intimidazione; pur non richiedendo l'effettivo conseguimento del programma associativo, la fattispecie richiederebbe una manifestazione all'esterno di atti dimostrativi della forza intimidatrice (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Questa chiave di lettura – a tratti incompatibile con la teorizzazione di una mafia silente – è, d'altronde, l'unica che consenta di tradurre in un fatto empiricamente percepibile il c.d. metodo mafioso, elemento normativo-sociale che appare dotato di una forte carica di indeterminatezza, mantenendo la norma entro il solco dei principi di tassatività e materialità del fatto di reato.

Breve, la configurazione dell'associazione di tipo mafioso come reato associativo a struttura mista, spostando il baricentro dell'incriminazione sullo sfruttamento effettivo della forza intimidatrice scaturente dal vincolo, è da preferire, in quanto unica impostazione ermeneutica in grado di conciliarsi con i principi di stretta legalità, di tipicità, di offensività, di materialità e di proporzionalità della risposta sanzionatoria –giacché, esigendo un più impegnativo onere probatorio in ordine alla carica lesiva del sodalizio, esalta il maggior disvalore insito nella più rigorosa forbice edittale dell'art. 416 bis rispetto a quella prevista per l'associazione a delinquere “pura”- (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Tale impostazione trova conferma nella posizione della Consulta (Corte cost., sentenza n. 48 del 2015), secondo la quale “caratteristica essenziale è la specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall'altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso...”. Con questi assunti, la Corte Costituzionale valorizzazione il rapporto tra forza di intimidazione e condizione di assoggettamento e di omertà in termini di causa-effetto offensivo e consente una corretta valutazione dello stesso requisito della potenza intimidatrice propria del vincolo mafioso, riassumendone i caratteri identitari. Non la minaccia di un pregiudizio in senso lato, né di un generico pregiudizio “fisico”. Piuttosto, quel potere di supremazia violenta, che sta nella violenza sanguinaria, “regolarmente” capace - nell'esperienza umana - di ridurre al governo del consorzio criminale l'ordine dei rapporti interni alla collettività (assoggettamento); sì da lasciar apparire vano ed inutile, e finanche svantaggioso, riferirsi all'inerme apparato protettivo dell'autorità statale (omertà) (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

A ben vedere, la tesi che enfatizza la mera capacità di intimidazione “potenziale” del sodalizio di tipo mafioso non poteva essere accolta neppure aderendo a quella ricostruzione, pur criticata da autorevole dottrina (in senso critico su questo orientamento M. Ronco, L'art. 416-bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in AA.VV., Il diritto penale della criminalità organizzata, a cura di B.Romano e Tinebra, Milano, 2013, 62), dell'art. 416-bis quale fattispecie di pericolo concreto: come è stato efficacemente osservato, anche ad ammettere che l'attribuzione di tale natura sia esatta, ciò non spiegherebbe alcun effetto sugli elementi della fattispecie - quali la forza di intimidazione -, destinati necessariamente a trovare concreta e attuale manifestazione ai fini della sussistenza del reato. Una cosa è dire che la consumazione del reato può anche non implicare il danno all'interesse tutelato; altra è che possano anche non sussistere tutti gli elementi del reato.

In definitiva, se si vuole davvero rimanere fedeli – al di là di comode scorciatoie probatorie di tipo presuntivo – ai vincoli imposti dal ricorso al modello del reato associativo a struttura mista, sembrerebbe allora non residuare altra possibilità se non quella di recuperare l'impostazione ricostruttiva di chi, con più generale riferimento ai contesti territoriali di tradizionale radicamento, aveva ritenuto necessario il compimento di specifici atti di sfruttamento della forza di intimidazione. Nel preciso senso che, nei “contesti immuni”, il metodo mafioso assume una marcata caratterizzazione evolutiva o in fieri, come il condensato o la risultante finale di una pregressa serie di reiterati atti di intimidazione e violenza. Fermo restando che la verifica probatoria dell'intervenuto ‘distacco' di una capacità intimidatrice autonoma, di difficilissima e incerta individuazione se proiettata su scala macrosociale, risulta comparativamente più agevole (e plausibile) se tarata su microcontesti socioeconomici (per esempio, il settore della movimentazione terra, quello della grande distribuzione, e cosi via) (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

E del resto, il pesante carico sanzionatorio connesso ad un'imputazione per 416-bis trova la sua giustificazione sostanziale, in linea con le pretese avanzate dal principio di materialità-offensività, solo nell'ottica di un effettivo riscontro degli estremi tipici dell'agire mafioso, senza cedimenti dettati da pur comprensibili obbiettivi politico-criminali (C. Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell'anno Treccani del diritto 2016, Roma, 2017; Id., La mafia è dappertutto. Falso, Roma-Bari, 2016).

Muovendo dalla premessa che è sempre necessario, ai fini della configurabilità di un'associazione di tipo mafioso, che l'organizzazione abbia raggiunto una sufficiente “fama criminale”, derivante da una pregressa attività di sopraffazione e di violenza con finalità, per l'appunto, intimidatoria, ne deriva che, allorquando abbia raggiunto l'obiettivo di aver sviluppato intorno a sé uno stato di assoggettamento e di omertà diffuso, attuale e persistente, ciò consente di prescindere dall'attualità di atti di intimidazione.

In altri termini, proprio di fronte alle organizzazioni criminali più temibili può operarsi una sorta di scissione tra attualità dello sfruttamento della forza intimidatrice ed attualità degli atti di intimidazione: di talché, lungi dall'obliterare il requisito strutturale dell'effettiva utilizzazione del metodo mafioso, intanto si può prescindere dal ricorso alla violenza (o alla minaccia) proprio perché si sfrutta la forza di intimidazione già conseguita dal sodalizio.

Va quindi ribadito che possono essere considerati mafiosi solo quei gruppi criminali che presentino, da punto di vista della struttura legale tipica, tutti i requisiti formalizzati nella definizione codicistica di cui all'art. 416 bis, comma 3 c.p., nel rispetto di un diritto penale saldamente ancorato al principio di stretta legalità. Detto altrimenti, alla domanda “se le mafie delocalizzate possano essere o meno associazioni di tipo mafioso”, va risposto: “solo se sussistono tutti gli elementi strutturali indicati dalla fattispecie che descrive espressamente tali gruppi criminali” (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Del resto, il rigore sanzionatorio che caratterizza la fattispecie associativa di cui all'art. 416-bis c.p. rispetto a tutte le altre ipotesi di reati associativi contenuti nella legislazione penale è, infatti, strettamente correlato con il metodo mafioso e con la peculiarissima struttura mista di questo delitto. Se non si accertano nel dettaglio ed in termini di attualità ed effettività tanto la forza di intimidazione, quanto le condizioni di assoggettamento ed omertà che ne discendono, l'irrogazione delle rigorosissime pene previste per questa ipotesi delittuosa proprio a causa della presenza di simili caratteri risulterebbe del tutto irragionevole e sproporzionata, producendo l'effetto di assimilare quoad poenam situazioni fortemente eterogenee fra loro (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Ed invero, a differenza dell'art. 416 c.p. e di tutte le altre fattispecie similari qualificate in cui manca una qualsiasi definizione, una lettura costituzionalmente conforme ai principî di determinatezza ed offensività (sottolineano la difficile compatibilità dei reati associativi con un sistema penale dal volto costituzionale incentrato sui principi di determinatezza ed offensività G. Fiandaca-C. Visconti, Il concorso eventuale nel reato associativo, in Foro it., 2006, 337) impone di accertare gli elementi identitari del fenomeno mafioso onde limitare a monte, a livello generale ed astratto, lo spazio di discrezionalità del giudice e garantire quel principio-diritto oggi reputato sempre più importante alla luce dell'art. 7 CEDU della prevedibilità delle decisioni giudiziarie da parte dei consociati (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Il metodo mafioso costituisce, difatti, il profilo oggettivo-fattuale che giustifica, in forza del principio di proporzionalità della pena di recente rivitalizzato dalla Corte costituzionale nelle note sentenze nn. 222/2018 e 40/2019 (entrambe le decisioni sono consultabili in www.penalecontemporaneo.it. In tema, P. Insolera, Discrezionalità legislativa in materia penale-sanzionatoria ed effettività della tutela dei diritti fondamentali, in Ind. pen., 2019, 93 ss.), i rigori punitivi dell'art. 416.bis c.p., perché trasforma una vicenda associativa da reato di mera condotta e di pericolo, a reato di evento e di danno, o quanto meno a struttura mista di danno e pericolo; nonché, da delitto monoffensivo in delitto plurioffensivo, dal momento che questo è posto a presidio non più solo dell'ordine pubblico o dei singoli beni specifici tutelati dalle altre fattispecie associative qualificate, ma di un ampio ventaglio di interessi di carattere individuale o collettivo, come la libertà morale delle persone, la concorrenza sul mercato, il diritto di voto ecc. (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Ogni altra soluzione introdurrebbe una evidente distonia di trattamento tra situazioni sostanzialmente omogenee, del tutto inconferente, ancora una volta, rispetto ai principî di rango costituzionale già ripetutamente richiamati in precedenza di uguaglianza-ragionevolezza e proporzionalità delle pene.

Il c.d. metodo mafioso asservito alla realizzazione del programma associativo costituisce, quindi, l'elemento aggiuntivo e distintivo in termini di disvalore oggettivo di una associazione mafiosa rispetto ad una comune; quello che altera profondamente la struttura della corrispettiva figura delittuosa, facendola transitare sul terreno della sottocategoria dei reati associativi a struttura mista e non pura, ovvero di quelle fattispecie plurisoggettive necessarie “che delinquono” e non “per delinquere”, dove cioè la ratio della incriminazione non risiede nel mero pericolo per l'ordine pubblico suscitato dalla peculiare destinazione teleologica illecita dell'associazione, ma nel danno che questa condotta associativa già produce ad una serie di persone già solo esistendo.

Il ricorso costante ed attuale al metodo mafioso normativamente descritto dall'art. 416-bis,comma 3 c.p. fa sì che, quand'anche l'associazione persegua scopi leciti, quali «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche etc.», lo faccia comunque in modo illegale, utilizzando una pregressa fama criminale acquisita tramite violenza o minacce e capace di incutere effetti minatori e di coartare la libertà morale degli individui che si rapportino con essa, o con i suoi emissari.

Come è stato osservato dalla dottrina, si deve allora “attribuire un significato pregnante in senso oggettivo alla locuzione normativa ‘si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo' che apre la descrizione del metodo mafioso” (C. Visconti-I. Merenda, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell'art. 416 bis c.p. tra teoria e diritto vivente, cit., 37 ss.).

Non è necessario, perché ricorra il delitto di cui all'art. 416 bis c.p. associazione di tipo mafioso, che l'associazione abbia origine dagli organismi tradizionalmente noti come mafiosi, ovvero sia ispirata o collegata alla mafia, poiché l'elemento fondamentale caratterizzante il delitto è l'adozione del metodo mafioso, come strumento di intimidazione per indurre sudditanza psicologica e omertà in settori della vita socio-economica (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Il tratto identitario più forte del metodo mafioso è pertanto costituito dalla forza intimidatrice che deve promanare dal vincolo associativo, essendo al contempo strumento primario per l'affermarsi della mafia in un dato contesto storico/sociale e requisito fondamentale e specializzante della fattispecie (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Con tale locuzione va intesa la intrinseca idoneità di un aggregato umano di incutere paura nei terzi in ragione del già sperimentato esercizio della coazione fisica o psichica. In particolare, il termine “forza” rivela il profilo di un potere che si dispiega in modo arbitrario, mentre il termine “intimidazione” evoca l'aura di timore ingenerato in un novero indeterminato di soggetti dall'incombere di tale potere.

La forza intimidatrice connota l'aggregato umano in sé, come risorsa da questo stabilmente acquisita per la realizzazione degli obiettivi del sodalizio. Ne consegue che non necessariamente il singolo partecipe deve far ricorso attualmente o aver fatto ricorso in passato ad atti diretti di violenza o minaccia, potendo la condotta attuale di ciascun soggetto limitarsi a far valere socialmente gli effetti di comportamenti prevaricatori degli altri associati.

L'intimidazione specificamente caratterizzante l'associazione mafiosa presenta aspetti di durata nel tempo, di sistematicità e di diffusività, differenziandosi in ciò dal timore ingenerato occasionalmente da un'associazione di semplici estorsori. Allo stesso tempo, però, l'intimidazione ha una declinazione aperta, potendo manifestarsi in tanti disparati modi, anche tramite semplici atteggiamenti di minaccia implicita, allusiva, ambientale o in assenza di parole o di gesti espliciti. Com'è stato rilevato dalla prassi giudiziaria, soprattutto nei territori che riconoscono il linguaggio mafioso, può consistere anche nel mero ‘alone o fama criminale' acquisita nel tempo da un gruppo in un certo contesto (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

Per potersi ravvisare il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., non è però sufficiente accertare la forza di intimidazione che promana dal gruppo, ma è indispensabile verificare la sussistenza anche degli altri due elementi a questa avvinti in chiave di derivazione causale, vale a dire l'assoggettamento e/o l'omertà (G. Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, cit., 1197 ss.).

La qualificabilità in termini mafiosi delle nuove associazioni criminali diverse dai sodalizi storici deve pertanto essere sempre subordinata all'accertamento in concreto, nel singolo caso, dell'effettiva sussistenza dei requisiti di tipicità del delitto associativo mafioso esplicitati nel comma 3 dell'art. 416-bis c.p.

Così, piuttosto che il riconoscimento di una tipicità differenziata per le diverse associazioni mafiose, tradizionali e per quelle di recente formazione, viene richiesto un compendio probatorio differente per l'accertamento del medesimo delitto.

Vale a dire, che il fatto tipico descritto dall'art. 416 bis c.p. è e resta unico; ciò che muta sono gli elementi da cui inferire la sussistenza del metodo mafioso.

Un'ultima considerazione. Nel caso di specie, è stato accertato che alcune delle persone che facevano capo al progetto delittuoso poi ribattezzato "Mafia Capitale" avevano comunque esercitato (marginali) forme di violenza, tanto che, come anche si ricorda in sentenza, i giudici dell'appello avevano selezionato i casi in cui vi sarebbe stato l'uso manifesto della forza di intimidazione da parte dell'associazione, soprattutto tramite C.; tra questi, anche il ritiro da una gara d'appalto da parte di un imprenditore, sottolineandosi come fosse il risultato di una forma di intimidazione, consapevole questi di aver toccato un settore che doveva rimanere appannaggio dell'associazione.

A cavallo tra (marginali) violenze e (diffusa) corruzione, l'associazione capitolina, in ogni caso, agli occhi dei giudici di legittimità non presentava i problemi di valutazione su di una mafia "silente", collegata con la "casa madre", quegli stessi che avevano spinto la prima sezione della Cassazione a richiedere l'intervento delle Sezioni Unite (ed a cui il primo presidente aggiunto della Corte aveva risposto con la restituzione degli atti) (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.).

Nel caso di "Mafia Capitale" l'associazione era attiva sul territorio e nei palazzi capitolini. Ma richiamare il principio del concreto dispiegamento della forza intimidatrice ha permesso di risalire all'essenza della norma, adombrata dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale sulle mafie, vecchie e nuove, grandi e piccole, attive e silenti (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.).

In altri termini, il passaggio necessario - ai fini della decisione, ma anche ai fini del riordino ermeneutico della materia - era piuttosto quello di confrontare quanto accertato nell'ambito delle indagini e dei processi su "Mafia Capitale" con le istanze teleologiche e politico-criminali su cui poggia il reato di cui all'art. 416-bis, le quali non possono prescindere dal bene giuridico protetto dalla norma: “l'esistenza dell'associazione pone in pericolo l'ordine pubblico, l'ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica” (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.); e se dal fine si passa al modo, allora è necessaria “l'esistenza in concreto di una capacità di sopraffazione esterna, ovvero più in generale di una capacità di intimidazione rivolta, con carattere diffuso, nei confronti di terzi in un determinato ambito territoriale di cui vuole ottenere il controllo” (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.). Questa conseguenza in termini di pericolo concreto discende direttamente dalle tecniche di incriminazione utilizzate dal legislatore del 1982, rivolte in direzione diametralmente opposta a quella utilizzata per configurare l'art. 416 cp., norma questa talmente generica da perdere conseguentemente pregnanza rispetto alle concrete forme di manifestazione della criminalità associativa (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.).

Cosicché, mentre la tradizionale associazione per delinquere ex art. 416 anticipa la tutela ad un accordo stabile di più soggetti organizzati tra loro per commettere (anche in futuro) un numero indeterminato di delitti - e ciò solo, in base ad una valutazione d'astratta prognosi legislativa, pone in pericolo il bene giuridico dell'ordine pubblico -, diversamente l'associazione di tipo mafioso non è un'associazione per delinquere, bensì un'associazione che delinque, poiché esercita attraverso l'intimidazione un controllo immanente sul corpo sociale (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.).

Se così, a detta della Corte non rispondono allo schema tipico della norma quelle (non poche) sentenze per cui “è sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento e di omertà”.

La prova delle "effettive derivazioni causali", delle capacità di intimidazione dell' associazione deve essere diretta e rigorosa, siccome il pericolo concreto che caratterizza la norma può essere colto soltanto nella sua dimensione probatoria: nella prova cioè dei riflessi empirici dell'avvalimento del metodo mafioso (A. Apollonio, “Essere o non essere "Mafia Capitale", cit.).

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