Atto di nascita con due mamme: ancora un no dalla Suprema Corte

Alberto Figone
03 Agosto 2020

Il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma...
Massima

Il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con l'art. 4 comma 3 della l. 40/2004, ove si esclude il ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto.

Il caso

Una coppia di donne italiane, residenti nel nostro Paese e civilmente unite, intende attuare un progetto familiare. Una delle due, con il consenso dell'altra e senza alcun apporto biologico di costei, fa quindi ricorso all'estero alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, con utilizzo di liquido seminale di donatore anonimo. Nasce in Italia un bambino, riconosciuto da colei che lo ha partorito; la compagna chiede allora, con l'adesione delle madre, di poterlo riconoscere anch'ella. A fronte del diniego dell'ufficiale di stato civile, entrambe le donne ricorrono al tribunale, che accoglie la domanda, con pronuncia confermata in secondo grado. La Corte di Cassazione, adita dal Ministero dell'interno, perviene invece alla conclusione opposta.

La questione

È ammissibile la formazione di un atto di nascita nel quale siano indicate come genitori due persone dello stesso sesso e, più precisamente, colei che ebbe a partorire, a fronte di fecondazione eterologa praticata all'estero, e la compagna della medesima, che aveva condiviso il progetto di filiazione, senza peraltro fornire apporto alcuno di tipo genetico?

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, in caso di nascita fuori del matrimonio, il rapporto giuridico di filiazione si instaura solo a fronte del riconoscimento da parte di uno o di entrambi i genitori, secondo il disposto dell'art. 250 c.c. La norma, solo parzialmente modificata dalla riforma della filiazione del 2012/2013, presuppone una genitorialità strutturata sulla diversità di genere, come si evince dal primo comma, ove si fa riferimento alla “madre” e al “padre” del nato. Essa dunque è declinata sulla base di una visione naturalistica del vincolo di filiazione, quale frutto di un rapporto sessuale, con conseguente fusione di gameti femminili e maschili, e formazione di un embrione. La l. 40/2004, nel suo contenuto originario, antecedente ai numerosi interventi della Consulta che l'hanno destrutturato, era del tutto coerente con detta premessa: essa doveva servire per ovviare a problemi riproduttivi della coppia eterosessuale (anche non coniugata), sterile ovvero infertile. Il divieto iniziale di procreazione di tipo eterologo dava atto di come la scienza medica, in Italia, avrebbe potuto intervenire solo per favorire il concepimento in vivo o in vitro da parte di quella coppia. In altri termini la scienza medica si sarebbe dovuta limitare ad agevolare un percorso riproduttivo, che la coppia non sarebbe stata in grado di affrontare autonomamente.

Ben consapevole del fatto che malgrado la sanzione (inizialmente penale) in Italia si potesse dar corso a tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo, che comunque da tempo già erano lecite in molti altri Stati, anche all'Italia molto vicini, il legislatore del 2004 introdusse, all'art. 9, il ben noto principio per cui, in caso di accesso alle suddette tecniche, effettuate con il consenso di entrambi i componenti della coppia, non sarebbe stato ammissibile l'esperimento dell'azione di disconoscimento della paternità o dell'impugnazione del riconoscimento (a seconda che la nascita fosse avvenuta in costanza o meno di matrimonio). La previsione, in realtà, ha ripreso quanto già in precedenza affermato dalla Consulta e dalla Suprema Corte circa l'inammissibilità dell'azione di disconoscimento della paternità del figlio nato in costanza di matrimonio, a seguito di fecondazione eterologa, concordata fra i coniugi. Si tratta di una norma assai importante, perché equipara la genitorialità d'intenzione a quella biologica. Genitori, pertanto, si può diventare non solo per il fatto di aver trasmesso al figlio parte del proprio patrimonio genetico, ma anche per aver assunto nei suoi confronti obblighi di cura, mantenimento e sostegno. Viene così a strutturarsi una particolare connotazione nell'ambito della più ampia categoria del c.d. terzo genitore, da intendersi come colui che si fa carico del figlio non proprio, al pari che se lo avesse generato, a prescindere dal fatto che questa relazione possa assumere una veste giuridicamente conformata, ovvero permanere come situazione di fatto.

Negli ultimi anni, un forte desiderio di genitorialità è emerso nelle coppie same sex, come tali incapaci fisiologicamente di procreare. Non è questa la sede per ripercorrere il lungo percorso giuridico e culturale, che ha condotto all'emanazione della l. 76/2016 sulle unioni civili, ove si attribuisce natura di famiglia anche a quella costituita da persone del medesimo sesso, individuata come una di quelle organizzazioni sociali, meritevoli di tutela a norma dell'art. 2 Cost.. E' vero che l'art. 1 comma 20 della l. in questione vieta espressamente alla coppia fondata su un'unione civile di poter presentare domanda di adozione di un minore in stato di abbandono (potendo accedervi solo le coppie formate da persone di sesso diverso e coniugate), ma è innegabile che, poco prima e dopo la l. 76/2016, la filiazione è stata progressivamente sdoganata dalla regola di natura, che impone la diversità di genere dei genitori. La fase iniziale, per così dire, ha visto la rinnovata applicazione dell'art. 44 lett. d) della l. 183/1984, prevalentemente all'interno di coppie femminili, nelle quali una delle donne aveva già un figlio, ovvero il figlio è stato frutto di una scelta condivisa, realizzata da una delle due tramite fecondazione assistita all'estero. Meno frequenti sono stati i casi di genitorialità in una coppia maschile, proprio perché, in questo caso, si rende necessario il ricorso alla maternità surrogata, che l'ordinamento italiano, come pure quasi tutti quelli dell'Europa occidentale, vieta. Sta di fatto che, se pur ingiustamente osteggiato, anche il partner (o coniuge) di colui che aveva donato il proprio seme, in previsione di una gestazione per altri, ha potuto vedersi riconosciuto lo status di genitore adottivo del figlio dell'altro ex art. 44 lett. d). In oggi, sussiste una piena identità tra i due modelli familiari nell'accedere all'adozione in casi particolari, a prescindere dal genere dei componenti la coppia: nessuna discriminazione, dunque, legata al sesso dei futuri genitori, ma solo la valutazione della capacità di accudimento del minore e la ricerca del suo best interest (in questo senso, emblematiche le due pronunce dal Trib. min. Bologna 17 luglio 2017, Adozione coparentale per le coppie same sex: prevale l'interesse del minore ad avere due genitori in IlFamiliarista con nota di Figone). Può dunque, dirsi che il riconoscimento di una genitorialità derivante, per uno dei membri della coppia, da adozione ex art. 44 lett. d) del figlio dell'altro, rappresenti il “minimo sindacale”, per la costituzione di una famiglia, nel cui interno i titoli dello status sono differenti, come pure gli effetti. È noto infatti che l'adozione in esame può essere revocata e che non determina legami successori in favore dell'adottante.

Ma il desiderio di genitorialità, nella coppia omoaffettiva, può realizzarsi anche in altri modi, che privilegiano quella “lesbica”, in ragione della gestazione e del parto che rimangono, per legge di natura, prerogative della sola donna. Si è così assistito alla nascita di un figlio, concepito con l'utilizzo di ovociti della compagna della partoriente, fecondati con seme di donatore anonimo, in un Paese straniero (nella specie, la Spagna) che consente la fecondazione anche in favore di donna single. La Corte di Cassazione, con la significativa pronuncia n. 30 settembre 2016, n. 19599, ha ritenuto doversi trascrivere in Italia l'atto di nascita (formato sempre in Spagna, in conformità alla legislazione locale) in cui erano indicate come genitori entrambe le due donne, escludendosi qualsiasi contrasto con l'ordine pubblico. I principi affermati da quella pronuncia sono stati ripresi da una recentissima decisione di merito, in una vicenda nella quale la nascita era avvenuta in Italia, e dunque si versava in ipotesi di rettifica del relativo atto di stato civile, che inizialmente indicava come madre solo colei che aveva partorito (Trib. Rimini 3 dicembre 2019, A. Figone, Bimbi con due mamme anche se nati in Italia, in IlFamiliarista).

Nel contempo, la giurisprudenza, anche della Suprema Corte ha ritenuto potersi trascrivere in Italia un atto di nascita, nella versione rettificata in un Paese estero (il Galles), in cui la maternità di un bambino era stata attribuita anche alla compagna di colei che aveva partorito e con la quale era stato condiviso un progetto familiare (Cass. 15 giugno 2017, n. 14878). Di contro, le Sezioni Unite, riesumando una nozione, che si sperava superata, di ordine pubblico, hanno escluso il riconoscimento in Italia della sentenza straniera, che aveva riconosciuto lo status di genitore al compagno di colui che, tramite la donazione del proprio seme e la gestazione per altri in Canada, era divenuto padre. Il tutto, a tacer d'altro, con un'evidente disparità di trattamento legata al genere (Cass. S.U. 8 maggio 2019, n. 12193).

Se dunque, quantomeno per la coppia femminile, la genitorialità d'intenzione ha avuto espresso riconoscimento in Italia per il tramite della trascrizione di atti di nascita formati all'estero, in una fattispecie nelle quali una due “madri” era priva di legami genetici con il nato, ci si è chiesti se sia ammissibile la formazione nel nostro Paese di un atto di nascita con due madri, in una situazione del tutto corrispondente. Nel caso deciso dalla pronuncia della Cassazione che si annota, la compagna di colei che aveva partorito un figlio, nato a seguito di fecondazione eterologa con seme di persona sconosciuta, aveva richiesto di poter riconoscere il neonato, frutto di un progetto familiare condiviso, con l'ovvio consenso della madre genetica. A fronte del diniego dell'ufficiale di stato civile di rettificare l'atto di nascita, inserendo anche il secondo genitore, entrambe le donne ricorrono al giudice, proponendo opposizione avverso il provvedimento di diniego. In entrambi i gradi di merito, la domanda viene accolta, ma la Corte di Cassazione sovverte il verdetto, così escludendo l'ammissibilità di un secondo riconoscimento di figlio non matrimoniale, da parte di persona dello stesso sesso del “primo” genitore.

Osservazioni

La pronuncia in commento è stata resa all'esito di una camera di consiglio, nel corso della quale, con sentenza n. 7668/2020, in questa Rivista, era stata, decisa anche un'altra fattispecie del tutto identica alla presente (una donna partorisce un bambino, di cui l'altra donna chiede di essere dichiarata genitrice intenzionale, per aver dato il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita). Le conclusioni sono del tutto corrispondenti (e non poteva essere che così), ancorchè le due pronunce seguano un impianto motivazionale differente. La decisione n. 7668/2020, più essenziale e stringata, muove dal presupposto che la disciplina interna vigente (ordinamento dello stato civile e di quello anagrafico della popolazione residente) postula che nell'atto di nascita solo una persona abbia diritto di essere menzionata come madre, in forza di “un legame biologico e/o genetico” con il nato; ciò coerentemente con il disposto dell'art. 269 c.c., per cui madre è colei che partorisce. Quella sentenza ha poi modo di richiamare il recente pronunciamento della Corte costituzionale n. 23 ottobre 2019, n. 221, (S. Stefanelli, Non è incostituzionale il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali femminili, in IlFamiliarista), che ha respinto la questione di incostituzionalità degli artt. 5 e 12 della l. 40/2004, ove si esclude la possibilità di accesso alle tecniche di procreazione assistita da parte delle coppie omosessuali femminili. Ciò nel presupposto che dette tecniche sono finalizzate ad ovviare ai problemi patologici di coppie sterili o infertili (e, dunque, di coppie eterosessuali, che non sono in grado di procreare in modo naturale); il tutto senza omettere di evidenziare le differenze della fattispecie in esame rispetto all'adozione (in casi particolari) di minori, legittima anche per la coppia same sex, ed al riconoscimento di atti di nascita formati all'estero di figli di coppie omosessuali.

La pronuncia in commento, invece, se pur nel pregevole intendimento di offrire una motivazione più ampia ed articolata sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, della Corte costituzionale e della stessa Cassazione, contiene tuttavia pesanti affermazioni di principio, che riportano indietro nel tempo l'approccio al delicato tema dell'omogenitorialità. In altri termini, pur dando atto che, a seguito della l. 40/2004, così come “riformulata” dai diversi interventi della Consulta, si è ufficializzata la scissione fra atto sessuale e procreazione, tuttavia la genitorialità dovrebbe essere sempre conforme al dato di natura. In questo contesto, l'accesso alle tecniche di procreazione assistita viene negato in tutte quelle situazioni in cui fisiologicamente non vi potrebbe essere concepimento; alla coppia omosessuale è affiancata così quella eterosessuale in età avanzata, come pure la donna single.

Il ragionamento di per sé è ineccepibile, ma non tiene adeguato conto della dirimente circostanza, per cui una cosa è richiedere in Italia l'accesso alla p.m.a. da parte di soggetti diversi da quelli legittimati per legge (uomo e donna, sposati o conviventi, in età riproduttiva, affetti da infertilità o sterilità), altra cosa è domandare lo status filiationis di un bimbo già nato. Nel primo caso, correttamente sulla base della norma interna, quell'accesso verrebbe negato; il legislatore nazionale, nell'esercizio della discrezionalità che gli compete, operando un bilanciamento tra valori di pari grado nella gerarchia dei diritti, ha ritenuto che un potenziale nascituro debba trovare un ambiente idoneo alla crescita, ossia una famiglia strutturata sulla imitatio naturae (né più, né meno di quanto accade in relazione all'adozione piena). Nel secondo caso, invece, un bambino esiste già e, proprio per essere frutto di un progetto familiare comune, ha diritto ad una piena bigenitorialità, con l'instaurazione di un vincolo di filiazione non solo con la donna che lo ha partorito (e che è madre a tutti gli effetti), ma anche con chi, d'accordo con lei, ne ha voluto la nascita. In caso contrario, il minore nessun secondo genitore, potrebbe mai vantare, proprio perché concepito con seme di donatore sconosciuto. La negazione del secondo riconoscimento, se pur sulla base di stringenti argomentazioni giuridiche di tipo formale, comporta la violazione del principio, fatto proprio da tutta la legislazione, del perseguimento dell'interesse del minore, ingiustamente punito per un comportamento di chi ha deciso di metterlo al mondo.

Neppure convince la rigorosa corrispondenza univoca che, secondo la sentenza in esame, dovrebbe intercorrere tra vincolo genetico e filiazione, con conseguente negazione di una genitorialità intenzionale. Il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 221/2019 non pare certo dirimente. Era infatti alquanto prevedibile che la Consulta ritenesse inammissibili le questioni di legittimità delle norme della l. 40/2004, nella parte in cui non ammettono la coppia lesbica ad accedere alle tecniche di p.m.a. rientrando la materia nella discrezionalità del legislatore. Quel che invece lascia perplessi nella motivazione della Corte costituzionale (indirettamente condivisa dalla Corte di Cassazione) è l'implicito giudizio sull'inidoneità della coppia omogenitoriale a svolgere la stessa identica funzione di quella eterosessuale nella cura e nella crescita dei figli, che pare, allo stato, frutto di un preconcetto. Afferma infatti la Consulta che il (per la verità non molto accorto) legislatore del 2004 avesse tenuto conto “del grado del fenomeno della c.d. omogenitorialità nell'ambito della comunità sociale, ritenendo che, all'epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto”. È vero che, fino a non molti anni or sono, non era concretamente pensabile che una coppia dello stesso sesso (a prescindere dalla valutazione sociale di quest'unione) potesse elaborare un progetto di filiazione, non consentendolo la natura. In oggi, la scienza medica ha permesso a quella coppia, sia di donne che di uomini, di avere un figlio. Detta evoluzione è tendenzialmente andata di pari passo con il riconoscimento del vincolo assunto tra persone dello stesso sesso, che ha portato, in Italia, al riconoscimento delle unioni civili. La legge, tuttavia, è suscettibile non solo di un'interpretazione storica, sulla base della voluntas del legislatore, ma anche di una evolutiva, che consenta al testo normativo di adeguarsi ai cambiamenti della società e del costume, specie quando vengono in considerazione diritti fondamentali della persona.

È pacifico che non vi sia un diritto ad essere genitori, ma questo vale non solo per la coppia same sex, ma anche per quella eterosessuale, pur se accumunate entrambe dall'idea di costruire una famiglia. All'interno poi della coppia strutturata secondo natura, si verifica un'ulteriore aporia: se la causa dell'infertilità dipende dall'incapacità di procreare (con l'incontro di gameti maschili e femminili), il problema potrà essere risolto con il ricorso alle tecniche di p.m.a di tipo eterologo (con l'utilizzo di ovociti o del seme di soggetti terzi), mentre se la donna non è in grado di assumere o portare avanti una gravidanza, nessun rimedio sarà configurabile (salvo il ricorso alla gestazione per altri, vietata dall'art. 12 della l. 40/2004). In questo caso, dunque, la legittima aspettativa di avere figli verrebbe frustrata come avviene in forma fisiologica nella coppia same sex.

In una materia certamente delicata ed eticamente sensibilissima sarebbe allora essenziale l'intervento del legislatore, per disciplinare (purchè in modo chiaro e puntuale) la rigorosamente surrogazione di maternità, specie per evitare che atti di nascita regolarmente formati all'estero, in conseguenza del ricorso a questa tecnica non siano riconosciuti in Italia (e ciò dicasi sia per la coppia gay che per quella formata da un uomo e una donna), con possibile contrasto di giudicati e pregiudizio per il minore, che, in base all'ordinamento di riferimento, si troverebbe ad avere una doppia identità. Al riguardo è assai significativo rammentare come, di recente e dopo l'intervento delle Sezioni Unite del 2019 di cui si è detto, la Corte di cassazione, prendendo le distanze da quella pronuncia, abbia ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 12 l. 40/2004, 18 d.p.r. 396/2000 e 64 l. 218/1995, nella parte in cui non consentono, secondo il diritto vivente, il riconoscimento e l'esecuzione di un provvedimento straniero attributivo della genitorialità d'intenzione nei confronti di un minore, procreato con la tecnica ella gestazione per altri, per contrasto con l'ordine pubblico (Cass. civ., 29 aprile 2020, n. 8325, Minore nato all'estero da gestazione per altri: rinviata alla corte costituzionale la decisione sul riconoscimento dello status di filiazione, in IlFamiliarista, con nota di Parisi). La decisione, accuratamente motivata e strutturata sul parere consultivo della Grand Chambre della Corte Europea dei Diritti dell'uomo del 10.4.2019, ben evidenzia il carattere “fluido” delle materie afferenti lo status filiationis e la responsabilità genitoriale.

Ancora prima, però, dovrebbe essere consentito alla coppia same sex, ufficializzata con il vincolo dell'unione civile (ovvero con il matrimonio, se ed in quanto dovesse in futuro essere auspicabilmente introdotto il matrimonio egualitario) di accedere quantomeno all'adozione di minori d'età. Nessun ostacolo dovrebbe più configurarsi, attesa la funzione dell'adozione, ossia attribuire ad un minore un'adeguata famiglia d'accoglienza, con l'acquisizione dello status di figlio. In questo caso, sarebbe escluso qualsiasi preconcetto sulla capacità genitoriale legato al genere, atteso che l'idoneità della coppia (femminile ovvero maschile) a crescere ed istruire un minore sarebbe oggetto di valutazione specifica e circostanziata da parte del giudice.

Guida all'approfondimento

A.Figone, Adozione coparentale per le coppie same sex: prevale l'interesse del minore ad avere due genitori, in ilFamiliarista.it;

A. Figone, Bimbi con due mamme anche se nati in Italia, in IlFamiliarista;

S. Stefanelli, Non è incostituzionale il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali femminili, in IlFamiliarista;

I. Parisi, Minore nato all'estero da gestazione per altri: rinviata alla corte costituzionale la decisione sul riconoscimento dello status di filiazione, in IlFamiliarista.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario