I reati tributari nel D.Lgs. n. 231/2001: l'aggiornamento del modello organizzativo quale strumento per evitare gravi sanzioni per l'ente
21 Agosto 2020
Abstract
La L. n. 157/2019, di conversione del D.L. n. 124/2019 (c.d. decreto fiscale), nell'attuare una nuova riforma del diritto penale tributario, ha dato risposta a vecchi quesiti che per anni hanno animato i dibattiti di dottrina e giurisprudenza: possono gli enti essere ritenuti responsabili per la commissione, nel loro interesse o a loro vantaggio, di reati tributari? In seguito alla commissione di tali reati, possono gli enti essere soggetti alla confisca per equivalente? L'Autore, dopo aver esaminato le caratteristiche dei delitti tributari entrati a far parte del catalogo dei reati presupposto ex d.lgs. n. 231/2001, analizza le novità in materia di responsabilità amministrativa degli enti, con particolare riguardo alle sanzioni loro applicabili e al complesso tema dell'aggiornamento dei modelli organizzativi volti ora a prevenire anche i rischi penal-tributari.
Fonte: ilPenalista.it La riforma dei reati tributari 2019: i nuovi reati presupposto
A quattro anni di distanza dall'ultima riforma, la disciplina del diritto penale tributario è stata nuovamente oggetto di revisione da parte del legislatore italiano. Il primo evidente dato che traspare dalla lettura del c.d. decreto fiscale è il diffuso inasprimento delle sanzioni e la riduzione delle soglie di punibilità dei principali reati tributari contenuti nel d.lgs. n. 74/2000. A fronte di ciò non è difficile comprendere come la ratio di tale intervento sia in prima battuta quella di rafforzare la lotta all'evasione fiscale mediante la minaccia di pene più severe. In secondo luogo, con l'estensione della portata applicativa della causa di non punibilità consistente nel pagamento degli importi tributari dovuti prevista dall'art. 13 del Decreto citato - di cui si dirà meglio in seguito -, si disvela altresì il tentativo di recuperare almeno una parte del gettito fiscale. Ma la novità di maggiore rilievo apportata dalla riforma del 2019 consiste nella introduzione di alcuni reati tributari nel novero dei reati presupposto della responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 (“Decreto 231”). Introduzione tanto auspicata, non senza voci critiche, da quanti ritengono che i reati tributari rappresentino una tipica espressione della criminalità da profitto che il Decreto 231, con l'adozione del modello organizzativo, mira a prevenire. In questo senso, infatti, fino allo scorso dicembre, i reati tributari erano stati indirettamente ricondotti alla responsabilità degli enti dalla giurisprudenza di legittimità. Talvolta quali reati presupposto dei delitti di riciclaggio (art. 648 c.p.) e autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), talaltra quali reati scopo dei delitti di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) o associazioni di tipo mafioso anche straniere (art. 416-bis c.p.), già compresi nel catalogo del Decreto 231. L'impulso dato al legislatore della riforma ha una matrice di derivazione comunitaria nella Direttiva UE 2017/1371 del 5 luglio 2017, la c.d. Direttiva PIF. Tale Direttiva, infatti, ha imposto agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché le persone giuridiche responsabili di reati relativi alle frodi lesive degli interessi finanziari dell'UE, siano punite con sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, di natura pecuniaria e interdittiva, oltre alla confisca e al congelamento degli strumenti e dei proventi illeciti dei reati medesimi. Tra queste frodi erano ricomprese anche le gravi frodi IVA commesse allo scopo di ottenere indebiti vantaggi dal sistema comune dell'IVA, aventi carattere transnazionale e comportanti un danno agli interessi finanziari dell'UE pari ad almeno 10.000.000,00 di Euro. Con la Legge di conversione del decreto fiscale è stato introdotto, nel Decreto 231, l'art. 25-quinquiesdecies (rubricato proprio “Reati tributari”). Come si potrà immediatamente constatare, il legislatore italiano è andato ben oltre gli obblighi sovranazionali, che riguardavano solo le imposte con un'incidenza sulle finanze europee e relativi a condotte commesse in sistemi fraudolenti transfrontalieri. Secondo la disciplina italiana, dunque, responsabilità dell'ente sorgerà anche in caso di reati tributari consistenti nell'evasione di imposte che esulano dalla competenza dall'UE e a prescindere dal carattere transnazionale della condotta. In particolare, per effetto della novella, le società e gli enti in genere possono essere ritenuti direttamente responsabili anche per la commissione dei delitti di: dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, d.lgs. n. 74/2000); dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, d.lgs. n. 74/2000); emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, d.lgs. n. 74/2000); occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10, d.lgs. n 74/2000); sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, d.lgs. 74/2000). Tuttavia, non va in questa sede sottaciuto come quello appena descritto sia solo un primo passo. Il 23 gennaio 2020, infatti, il Consiglio dei Ministri ha approvato in esame preliminare uno schema di decreto legislativo che, al fine di dare piena attuazione alla Direttiva PIF, prevederà – se confermato – l'introduzione nell'art. 25-quinquiesdecies di ulteriori ipotesi di reati tributari, commessi anche in parte nel territorio di altro Stato membro dell'Unione europea, al fine di evadere l'imposta sul valore aggiunto per un importo complessivo non inferiore a 10.000.000 di Euro. Si tratterà dei reati di dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. n. 71/2000), omessa dichiarazione (art. 5, d.lgs. n. 74/2000) e indebita compensazione (art. 10quater, d.lgs. n. 74/2000). Posta questa necessaria premessa, e ritornando ai reati tributari attualmente previsti dall'art. 25quinquiesdeciesdel d.lgs. n. 231/2001, gli stessi si dividono in (a) reati dichiarativi (artt. 2 e 3), connotati dal carattere della fraudolenza, e (b) reati documentali e in materia di pagamento di imposte (artt. 8, 10 e 11).
I reati dichiarativi. Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2) si configura qualora un soggetto, al fine di evadere le imposte sui redditi (IRPEF o IRES) o sul valore aggiunto (IVA), presenti una dichiarazione falsa relativa a tali imposte, indicando in essa elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quali, ad esempio, le note spese dei dipendenti, i documenti di trasporto, le ricevute fiscali, i contratti, ecc. Per questa fattispecie di reato non è prevista una soglia di punibilità, pertanto le condotte assumono rilevanza penale a prescindere dall'importo dell'imposta evasa. Il fatto illecito presuppone che le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti siano registrati nelle scritture contabili obbligatorie e/o detenuti dall'ente a fini probatori nei confronti dell'erario e, dunque, effettivamente utilizzati nelle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi o IVA. L'aspetto centrale di questo reato riguarda, quindi, l'inesistenza dell'operazione sottostante la fattura o il documento. Ma cosa si intende per operazione inesistente? Un'operazione è considerata inesistente qualora la stessa (a) non sia stata mai effettuata, (b) sia stata realizzata ma con una controparte diversa da quella indicata in fattura o in un altro documento, oppure (c) sia stata effettuata nei confronti della controparte indicata, ma per un importo diverso – e tendenzialmente più elevato - rispetto a quello pattuito. Nel primo caso si parlerà di inesistenza oggettiva, nel secondo caso di inesistenza soggettiva e, infine, nel terzo caso di sovrafatturazione.
Al reato in analisi il legislatore ha riservato un corposo aumento sanzionatorio per effetto del quale la pena oggi prevista è compresa tra 4 e 8 anni di reclusione La pena della reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni precedentemente prevista persiste, invece, per la sola ipotesi attenuata in cui l'ammontare degli elementi passivi fittizi indicati in dichiarazione sia inferiore a 100.000 Euro. Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) si configura, quando un soggetto, fuori dei casi previsti dall'art. 2, sempre al fine di evadere le imposte sui redditi (IRPEF o IRES) o sul valore aggiunto (IVA), compia operazioni oggettivamente o soggettivamente simulate ovvero si avvalga di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indicando in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o, ancora, crediti e ritenute fittizi. In virtù della esplicita clausola di riserva in favore dell'art. 2, tale delitto riguarda gli altri artifici contabili, ad esempio, realizzati attraverso la manomissione della contabilità con lo specifico fine di sviare od ostacolare la successiva attività di accertamento e di ricostruzione dei redditi e/o del volume d'affari da parte dell'amministrazione finanziaria. Diversamente dal reato di cui all'art. 2, in questo caso sono previste delle soglie di punibilità e il fatto assume rilevanza penale ove, congiuntamente:
Per verificare l'effettivo superamento della soglia prevista dalla norma, l'imposta evasa sarà determinata per differenza tra quanto effettivamente dovuto e quanto indicato in dichiarazione, al netto delle somme già versate a titolo di acconto, di ritenuta o in pagamento dell'imposta medesima, prima della presentazione della dichiarazione. Nel concetto di imposta evasa rientra anche l'indebita richiesta di rimborso e l'inesistente esposizione di un credito d'imposta. Anche in questo caso la riforma ha comportato un innalzamento delle cornici edittali previste per la pena detentiva che va da 3 a 8 anni di reclusione (mentre in precedenza era da 1 anno e 6 mesi a 6 anni di reclusione).
I reati documentali e in materia di pagamento di imposte. Appartiene alla seconda categoria dei nuovi reati presupposto, in primo luogo, il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8). Si tratta di una fattispecie speculare rispetto al reato di cui all'art. 2, essendo tipicamente commesso da chi emette la fattura falsa. Nello specifico tale fattispecie ricorre quando un soggetto, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi (IRPEF o IRES) o sul valore aggiunto (IVA), emetta o rilasci fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In particolare, chi emette la fattura o rilascia un altro documento per una operazione inesistente, risponde del reato di cui all'art. 8 anche se il terzo ricevente non utilizza in dichiarazione la fattura o il documento falso e, quindi, a prescindere dall'effettiva commissione dell'evasione fiscale da parte di quest'ultimo. La norma precisa che l'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato. Analogamente all'art. 2, anche l'art. 8 non prevede soglie di punibilità per cui il reato si verifica anche con l'emissione di una sola fattura o il rilascio di un solo documento falsi. Simmetrico rispetto al predetto art. 2 è anche l'inasprimento sanzionatorio, infatti, la pena prevista è la detenzione da 4 a 8 anni.Invece, le cornici edittali precedentemente previste– reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni - si applicano ancora all'ipotesi attenuata in cui l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per il periodo d'imposta, sia inferiore 100.000 Euro. Quanto al delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10), questosi configura quando un soggetto, al fine di evadere le imposte sui redditi (IRPEF o IRES) o sul valore aggiunto (IVA), proprie o di terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. In ambito societario, tale reato si potrebbe verificare qualora l'amministratore, temendo un'ispezione da parte della Guardia di Finanza, distrugga o ordini ai suoi dipendenti la distruzione di fatture, registri IVA, libri contabili e altri documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da impedire all'autorità tributaria di effettuare i controlli. Anche per questo reato è prevista la pena detentiva le cui cornici edittali, erano prima comprese tra 1 anno e 6 mesi e 6 anni, mentre ora sono comprese tra 3 e 7 anni, con un sensibile aumento della pena minima. Infine, il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11) si configura quando un soggetto:
La pena prevista per questo reato è quella della reclusione da 6 mesi a 4 anni e, diversamente dalle altre fattispecie, non è stata modificata dall'intervento riformatore.
Dal 25 dicembre 2019, dunque, la commissione dei descritti reati tributari da parte di soggetti apicali e – alle condizioni previste dal decreto 231 – di soggetti sottoposti, oltre ad attivare un procedimento penale nei confronti delle persone fisiche, può determinare l'insorgere di un procedimento penale anche nei confronti dell'ente, con il rischio, in caso di riconoscimento della c.d. “colpa di organizzazione”, di sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive, oltre alla confisca e alla pubblicazione della sentenza.
Rispetto alla sanzione pecuniaria, il legislatore della riforma ha previsto che, per i reati di cui agli artt. 2, 3 e 8 questa possa arrivare fino a 500 quote, mentre per i reati di cui agli artt. 10 e 11 (e per le forme attenuate di cui agli artt. 2 e 3) fino a 400 quote. Tali sanzioni potrebbero, poi, essere aumentate di un terzo ove, dal reato tributario, l'ente consegua un profitto di rilevante entità.
Da ciò discende che, seguendo le regole generali poste dal Decreto 231 - alla cui stregua la sanzione pecuniaria viene applicata per quote in un numero non inferiore a 100 né superiore a 1.000, e l'importo di una quota ha un valore minimo di 258 Euro e massimo di 1.549 Euro - l'ente colpevole potrebbe vedersi comminare sanzioni pecuniarie del valore massimo di 1.032.666 Euro.
In aggiunta alle già rilevanti sanzioni pecuniarie previste per la commissione di reati tributari, un impatto molto significativo sull'ente lo hanno anche le sanzioni interdittive applicabili in base all'art. 25quinquiesdecies. In particolare, la norma rinvia all'art. 9, comma 2, lettere c), d) ed e) del Decreto 231 e, cioè:
È, dunque, facile notare come l'applicazione di tali sanzioni - pur se limitata ad un periodo di tempo determinato – possa creare seri problemi a società che, ad esempio, facciano spesso ricorso a finanziamenti pubblici (si pensi, ad esempio al settore dell'energia), o a società produttive che non possano fare a meno di pubblicizzare i proprio prodotti.
Proprio per la loro portata afflittiva, infatti, le sanzioni interdittive si applicano solo al ricorre di determinate condizioni, cioè:
Tuttavia, occorre sottolineare che – nel sistema posto dal Decreto 231 – le sanzioni interdittive vengono applicate anche quali misure cautelari nel corso del procedimento penale contro l'ente e, quindi, anche prima della sentenza di condanna. Ciò, chiaramente, purché:
Quale ulteriore grave effetto sotto il profilo sanzionatorio, è opportuno evidenziare che gli enti sono ora esposti anche all'applicazione della confisca diretta e per equivalente del prezzo o del profitto del reato e, conseguentemente, del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente quale misura cautelare. Vengono, così, superati i limiti che erano stati posti dalla nota “Sentenza Gubert” (Cass. Pen., Sez. Un., n. 10561/2014) con la quale le Sezioni Unite avevano affermato che, ove non fosse consentito il sequestro diretto del profitto del reato tributario nei confronti della società, verso l'ente collettivo non si poteva procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente. Ciò a meno che l'ente medesimo non costituisse uno schermo fittizio rispetto alla persona fisica autore del reato, proprio perché i reati tributari non erano ricompresi tra quelli per cui il d.lgs. n. 231/2001 consentiva il sequestro per equivalente verso una persona giuridica. La prevenzione dei rischi penal-tributari: i modelli organizzativi tra compliance integrata e cooperative compliance
Innanzi a un quadro sanzionatorio dagli effetti decisamente invasivi per gli enti collettivi, l'adozione di un modello organizzativo ai sensi del Decreto 231 – o il suo aggiornamento per gli enti che ne siano già dotati – è diventata ormai un'esigenza imprescindibile per poter beneficiare della loro efficacia esimente a fronte della commissione di reati tributai. A maggior ragione se si osserva che, diversamente dagli altri reati presupposto, i reati tributari possono essere commessi nell'interesse o a vantaggio di qualsiasi ente, a prescindere dalla propria natura, dalle proprie dimensioni o dal proprio settore di appartenenza.
A tal fine sarà necessario procedere per fasi prestabilite, tenendo conto delle possibili modalità di commissione dei reati tributari rilevanti per l'ente di riferimento. Sarà, in primo luogo, necessaria una preliminare e profonda attività di risk assessment al fine di individuare le attività sensibili, i processi rilevanti, le funzioni aziendali coinvolte. Attraverso l'analisi di documenti e lo svolgimento di interviste, si dovrà dare particolare attenzione all'area amministrativo-contabile – tipicamente deputata alla tenuta e alla conservazione della contabilità, nonché alla gestione degli adempimenti fiscali -, alla funzione acquisti – dedicata alla selezione e gestione dei rapporti con i fornitori - e alla funzione vendite – che ha il compito di gestire i rapporti con i clienti. Ciò al fine di presidiare l'intero ciclo attivo e passivo della fatturazione e prevenire situazioni in cui possano originarsi fatture false passive o attive e, più in generale, condotte fraudolente. Inoltre, in caso di società appartenenti a gruppi di imprese, si dovrà appurare l'esistenza di regole per la gestione delle operazioni infragruppo, per evitare il verificarsi di quelle operazioni straordinarie eseguite al solo scopo di rendere il patrimonio dell'ente meno aggredibile da parte del Fisco. Sarà, poi, necessario esaminare il sistema di controlli interni già vigente all'interno dell'ente, individuare eventuali gap che rendono eventualmente possibile la commissione di reati tributari, e valutare i profili di miglioramento con l'introduzione di un'apposita parte speciale del modello organizzativo contenente regole, procedure e protocolli volti ad una efficace prevenzione dei nuovi reati tributari. Così effettuato l'aggiornamento del modello organizzativo e introdotte anche nel codice etico dell'ente delle nuove disposizioni dedicate al rispetto degli adempimenti tributari, sarà necessario procedere alla diffusione di tali documenti all'interno dell'ente e alla formazione dei destinatari sui nuovi rischi e le nuove misure preventive adottate, soprattutto in relazione ai soggetti appartenenti alle aree più sensibili sopra menzionate. L'Organismo di Vigilanza (di seguito anche “OdV”) avrà, come di consueto, un ruolo chiave nella successiva fase di controllo e monitoraggio sull'effettiva applicazione del modello organizzativo. Nello specifico, infatti, dovranno essere rafforzati i flussi informativi tra l'OdV, quale garante dell'osservanza del modello organizzativo, e gli ulteriori soggetti a vario titolo coinvolti nella filiera del controllo interno e contabile. Saranno, cioè, interlocutori privilegiati dell'OdV in questa attività:
Tuttavia, è opportuno altresì sottolineare che l'introduzione dei delitti tributari tra i reati presupposto ex decreto 231 rappresenta per gli enti l'opportunità per un generale ripensamento del proprio sistema amministrativo-contabile attraverso un modello di compliance integrata che coniughi la prevenzione del rischio fiscale e la prevenzione del rischio penal-tributario. Invero, molti enti collettivi già prevedono per la propria organizzazione sistemi di tax compliance, consistenti in procedure volte a far sì che l'ente agisca in conformità alle regole fiscali e adempia spontaneamente agli obblighi di natura tributaria, primi fra tutti quelli relativi al versamento delle imposte. Pertanto, nell'ottica di una compliance integrata, tali procedure di prevenzione dei rischi puramente fiscali dovranno essere coordinate con le procedure penal-preventive introdotte nel modello organizzativo. Ma vi è di più. L'aggiornamento del modello organizzativo ai reati tributari potrà stimolare alcuni enti all'adozione di un più articolato sistema di controllo attraverso il c.d. Tax Control Framework (di seguito anche “TCF”). Con tale locuzione, ci si riferisce ad un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, inteso quale rischio di operare in violazione di norme di natura tributaria ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell'ordinamento tributario. Il TCF deve contenere una chiara e documentata strategia fiscale dell'ente-contribuente, nella quale siano evidenziati gli obiettivi dei vertici aziendali in relazione alla variabile fiscale. Inoltre, deve prevedere lo svolgimento di una attenta attività di rilevazione (risk assessment)e reporting del rischio a tutti i livelli aziendali attraverso:
Non può negarsi come il TCF e il modello organizzativo, siano accomunati sotto vari aspetti. Tuttavia, occorre tenere bene a mente come i due sistemi non siano totalmente sovrapponibili ma, piuttosto, rappresentino due cerchi che si intersecano nelle aree comuni. Il TCF, che è pacificamente volto all'implementazione di un sistema cooperative compliance, è postoalla base del regime dell'adempimento collaborativo. Quest'ultimo, come noto, è uno strumento attualmente limitato agli enti di maggiori dimensioni e con un volume di affari o di ricavi molto rilevante. In particolare, il regime dell'adempimento collaborativo – disciplinato dal d.lgs. n. 128/2015 – è finalizzato a promuovere l'adozione di forme di comunicazione e di cooperazione rafforzate fondate sul reciproco affidamento tra l'amministrazione finanziaria e i contribuenti, nonché a favorire (nel comune interesse) la prevenzione e la risoluzione delle controversie in materia fiscale. L'adesione facoltativa al regime comporta la possibilità per i contribuenti di pervenire con l'Agenzia delle Entrate a una comune valutazione delle situazioni suscettibili di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni, attraverso forme di interlocuzione costante e preventiva su elementi di fatto, inclusa la possibilità dell'anticipazione del controllo. Il vantaggio per l'ente-contribuente è costituito dagli effetti premiali derivanti dall'adesione al regime di adempimento cooperativo quali ad esempio, l'applicazione di sanzioni ridotte o l'esonero dal presentare garanzie per i rimborsi delle imposte dirette e indirette per tutto il periodo di permanenza nel regime di compliance cooperativa.
Pertanto, negli enti in relazione ai quali opera il regime dell'adempimento collaborativo, sarà importante effettuare anche un coordinamento tra modelli organizzativi e TCF nelle loro aree comuni, così da gestire in modo più completo il rischio penal-tributario. In conclusione
Le considerazioni sin qui svolte, pure con le prudenze del caso dovute alla mancanza di pronunce giurisprudenziali in merito, consentono di trarre alcune conclusioni. Innanzitutto, l'estensione del catalogo dei reati presupposto ex Decreto 231 ai delitti tributari va sicuramente salutata con favore per quanto riguarda il merito della riforma. Sussistono, tuttavia, delle perplessità legate alla mancanza di un effettivo coordinamento tra la disciplina della responsabilità da reato degli enti e il complesso apparato di norme che regolano la materia tributaria.
Una prima criticità concerne la compatibilità della novella con il principio dell'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto alla responsabilità dell'autore del reato, sancito dall'art. 8 del Decreto 231. A questo proposito si consideri che l'art. 13 del d.lgs. n. 74/2000 prevede una causa di non punibilità per le persone fisiche autrici, tra gli altri, dei reati dichiarativi sopra descritti. Tale ipotesi ricorre se i debiti tributari - comprese le sanzioni e gli interessi - siano stati estinti mediante l'integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo. È, inoltre, richiesto che il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. In relazione agli enti, invece, in assenza di un esplicito richiamo al citato art. 13, troverà applicazione l'art. 8del d.lgs.n. 231/2001. Di conseguenza, l'integrale pagamento degli importi dovuti avrà come effetto solo una riduzione della sanzione amministrativa pecuniaria ad essi applicabile, con una potenziale violazione del principio di uguaglianza costituzionalmente tutelato.
Una seconda criticità riguarda una delle caratteristiche che connotano i reati tributari quando sono commessi nell'ambito degli enti collettivi. Infatti, se da un lato, c'è un dualismo strutturale tra l'autore del reato e il contribuente (che è la persona giuridica e non la persona fisica), dall'altro lato, però, il reato è posto in essere nell'esclusivo interesse dell'ente. Infatti, il profitto del reato tributario è tratto interamente dall'ente, mentre la persona fisica non ha un effettivo beneficio dalla commissione del reato. Questa considerazione avrebbe dovuto consigliare una maggiore prudenza nell'estensione dell'istituto della c.d. “confisca per sproporzione” ex art. 240-bis c.p. in caso di condanna o patteggiamento per alcuni reati tributari (art. 12-ter, d.lgs. n. 74/2000). Tale istituto prevede che, in caso di commissione dei reati tributari, sia disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. Ove, però, il reato tributario sia commesso ad esclusivo profitto dell'ente – che, come rilevato, è l'effettivo contribuente –, diventa problematico ritenere il reato idoneo a determinare un'illecita accumulazione di ricchezza in capo alla persona fisica condannata e tale da legittimare la presunzione di origine illecita dei beni a questi confiscati.
Infine, un'ultima criticità – ma non per importanza – riguarda la moltiplicazione delle sanzioni applicabili all'ente.Infatti, dalla medesima condotta illecita potrà discendere l'applicazione all'ente sia delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui al Decreto 231, che delle sanzioni amministrative tributarie già previste dall'art. 11, comma 1, del d.lgs.n. 472/1997, con il rischio di una violazione del principio del ne bis in idem. |