Disciplina dei canoni concessori per strutture dedicate alla nautica da diporto e diritto sovranazionale

07 Settembre 2020

La normativa nazionale che dispone l'aumento dei canoni concessori estendendone l'applicazione anche alle strutture destinate alla nautica da diporto non si pone in contrasto con il diritto sovranazionale. Si tratta, invero, di una disciplina che si inserisce in un complessivo sistema di cambiamento del regime dei beni pubblici, teso alla loro utilizzazione secondo criteri economici e alla loro valorizzazione e che, per questa ragione, non sacrifica in maniera illegittima l'affidamento del privato.

Il caso. La questione posta all'esame del Consiglio di Stato attiene alla legittimità di determinazioni regionali con cui è stato disposto l'aumento dei canoni concessori applicati alle concessioni aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto.

Tali determinazioni sono state adottate dalla Regione in applicazione dell'art. 1, co. 251, l. n. 296/2006, con cui è stato esteso l'aumento dei canoni previsti per le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative anche alle concessioni aventi ad oggetti la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto, a decorrere dal 1° gennaio 2007.

Ad avviso dell'appellante, risulterebbero violate: a) le libertà fondamentali riconosciute dal Trattato agli articoli 49 e ss.; b) la direttiva 2014/23/UE, per la quale il rischio operativo concesso all'attività di impresa deve derivare da fattori al di fuori del controllo delle parti, risultando espressamente vietato che comportamenti di una parte (nella specie lo Stato) possano incidere sul rischio operativo che il concessionario si era assunto all'inizio del rapporto; c) il principio di tutela dell'affidamento, a tutela dei diritti quesiti.

La soluzione. Il Consiglio di Stato, dopo aver richiamato le sentenze della Corte Costituzionale che hanno rigettato le questioni di legittimità costituzionale sull'art. 3, d.l. n. 400/1993, come modificato dall'art. 1, co. 251, l. n. 296/2006, ha escluso che tali disposizioni si pongano in contrasto con il diritto dell'Unione Europea.

In primo luogo, ha escluso la violazione della direttiva 2014/23/UE, trattandosi di disciplina non applicabile alle fattispecie in esame.

Come chiarito dalla Corte di Giustizia, infatti, le concessioni demaniali mirano allo sfruttamento di un'area demaniale e possono quindi essere qualificate come “autorizzazioni”, ai sensi delle disposizioni della direttiva 2006/123. Si tratta, invero, di atti formali che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di poter esercitare la loro attività economica.

Tale inquadramento trova conferma nel considerando n. 15 della direttiva 2014/23, in cui è previsto che gli accordi attraverso i quali un operatore economico gestisca determinati beni o risorse del demanio pubblico, in regime pubblicistico o privatistico, ed in cui lo Stato fissi unicamente le condizioni generali d'uso dei beni o delle risorse, senza però acquisire lavori o servizi specifici, non si configurano come “concessione di servizi” ai sensi della predetta direttiva, rientrando, quindi, nella disciplina della direttiva 2006/123.

Sotto altro profilo, il Collegio ha ritenuto infondate le censure relative all'asserita violazione delle libertà europee di circolazione, in quanto le norme in questione non attengono alle modalità di scelta del contraente, ma alla determinazione dei canoni. In particolare, il legislatore si è limitato ad adeguare l'entità dei canoni dovuti alla effettiva natura dei beni pubblici nella prospettiva della valorizzazione ed utilizzazione economica dei beni stessi.

Il Consiglio di Stato ha infine escluso la possibile violazione del principio di affidamento, richiamando l'orientamento della giurisprudenza sovranazionale secondo cui l'applicazione ai rapporti di durata in corso di svolgimento di sopravvenute modifiche legislative è illegittima nei soli casi in cui queste ultime risultino “improvvise e imprevedibili”, senza che lo scopo perseguito dal legislatore ne imponesse l'intervento.

Nel caso di specie, invece, da un lato, l'intervento legislativo non è giunto inaspettato, “giacché esso si è sostituito ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente”. Dall'altro, si è trattato di un intervento sorretto da ragioni di interesse generale, rappresentate dall'esigenza di realizzare un complessivo sistema di cambiamento del regime dei beni pubblici, teso alla loro valorizzazione e alla loro utilizzazione secondo criteri economici.

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