Cadono le accuse nei confronti di Marco Cappato e Mina Welby. Per i Giudici le testimonianze dei familiari di Trentini consentono di appurare che la sua decisione è stata pienamente autonoma, legata a una volontà precisa e connessa a una situazione di vita caratterizzata da enorme sofferenza e dalla dipendenza dai trattamenti sanitari e dai familiari.
Fu una scelta libera e consapevole quella presa nel 2017 da Davide Trentini, cioè rivolgersi a una struttura in Svizzera per ottenere un suicidio assistito, morire dignitosamente e porre fine alla sofferenza connessa alla inarrestabile sclerosi multipla che lo aveva colpito venti anni prima. Di conseguenza, nessun addebito è possibile nei confronti di Marco Cappato e Wihelmine Schett – nota come Mina Welby – che hanno aiutato Davide a raggiungere il suo scopo ma che non possono per questo essere ritenuti responsabili né di “rafforzamento del proposito suicidario” né di “agevolazione dell'esecuzione del suicidio”. (Corte d'Assise di Massa, sentenza n. 1/20, depositata il 2 settembre).
L'origine del caso giudiziario risale all'aprile del 2017, quando Davide Trentini, 53 anni di età, affetto da 20 anni dalla sclerosi multipla, riesce a mettere in atto il proprio progetto e in una clinica in Svizzera porta a compimento il proprio suicidio. A rendere possibile questa azione è anche il contributo offerto da Marco Cappato e Mina Welby, che finiscono per questo sotto processo.
Fondamentale per evitare la loro condanna è l'istruttoria che, grazie a diverse testimonianze, consente di appurare che in maniera autonoma e consapevole Davide Trentini ha deciso di porre fine alle proprie sofferenze, a una vita in perenne dipendenza dai farmaci e da altre persone.
Esemplare, in questa ottica, il racconto fatto dalla madre di Davide Trentini. La signora spiega che il figlio «era affetto da sclerosi multipla, insorta circa venticinque anni prima», cioè dal 1993, e che mentre «nella fase iniziale del decorso della patologia, era riuscito abbastanza a fare una vita normale, riuscendo anche a svolgere un'attività lavorativa», successivamente, in una seconda fase, «la malattia aveva avuto un decorso sempre più rapido ed aggressivo, progredendo in maniera assai accentuata e peggiorando sempre più le condizioni» del figlio. Di conseguenza, «negli ultimi anni della sua vita», il Trentini «non poteva fare niente della vita quotidiana; non riusciva ultimamente più a mangiare da solo perché prendeva in mano il cucchiaio e cadeva; per riuscire ad alzarsi dal letto, per fare la doccia e per fare altri movimenti, era costretto a ricorrere al sostegno fisico di altre persone (la madre o anche i vicini di casa); per muoversi doveva necessariamente utilizzare una sedia a rotelle o un deambulatore ma ciononostante spesso finiva col cadere in terra perché le gambe a un certo punto non reggevano. Soffriva di dolori fortissimi, che lo affliggevano anche quando stava seduto e fermo: aveva dei dolori per tutto il corpo, era soggetto a spasmi continui che lo costringevano ad irrigidirsi alle volte sembrava un marmo».
Inizialmente, «i suoi dolori erano stati «trattati e tenuti sotto controllo con il ricorso a farmaci ed antidolorifici». Poi però «i dolori erano andati via via progressivamente aumentando» e «anche la somministrazione di detti farmaci era stata sempre maggiore: si era fatto ricorso alla terapia del dolore, utilizzando farmaci e trattamenti sempre più potenti ed invasivi, come i cerotti con l'oppio, la marijuana terapeutica e il metadone. Soprattutto il ricorso alla marijuana terapeutica, ma anche al metadone, erano riusciti, inizialmente, a ridurre fortemente ed a contenere le sofferenze fisiche» del Trentini, ma negli ultimi anni, racconta la madre, «la terapia del dolore non riusciva più ad alleviare i dolori» del figlio.
Così, «non riuscendo più a sopportare quella condizione (“era ridotto che lui diceva che non era più un uomo”)», il Trentini aveva iniziato a «pensare al suicidio», racconta ancora la madre, aggiungendo che a lei aveva detto che «avrebbe voluto suicidarsi anche gettandosi dalla finestra della sua abitazione». Successivamente, «consultando diversi siti internet, aveva scoperto che vi erano delle strutture sanitarie che operavano legalmente in Svizzera e che potevano aiutarlo a porre fine senza dolore alla sua esistenza» e «aveva quindi preso contatto» con varie strutture, prima di riuscire, anche tramite Cappato e Welby, a trovare il posto giusto, sempre in Svizzera, per programmare e realizzare il proprio suicidio, messo in atto nell'aprile del 2017, coll'ultimo viaggio verso la terra elvetica, viaggio cominciato col saluto di addio alla mamma: “Stai tranquilla perché io vado a stare bene”.
Per i giudici le testimonianze raccolte – non solo quella della mamma di Trentini, ma anche quella della sorella e quella della compagna – consentono di affermare che «il proposito di suicidio era sorto nel Trentini indipendentemente da qualsiasi intervento» da parte di Cappato e Welby. Non a caso, la struttura svizzera «era stata già individuata autonomamente dallo stesso Trentini (che però l'aveva abbandonata pensando di poter attuare più celermente il suo proposito ricorrendo a un'altra struttura poi chiusa dalle autorità della Svizzera», e ciò significa che «il successivo intervento» di Cappato e Welby «si era limitato a permettere al Trentini di riallacciare quel contatto con la struttura senza ulteriori ritardi».
In sostanza, le due persone sotto accusa «non hanno influito sul processo volitivo che ha condotto il Trentini a decidere di suicidarsi». E difatti, «la decisione di porre fine alla propria vita era stata presa dal Trentini parecchi mesi prima di contattare Cappato e Welby».
Per quanto concerne, invece, l'ipotesi accusatoria relativa a una presunta «condotta di agevolazione all'esecuzione del suicidio», i giudici ritengono vada applicata la prospettiva tracciata dalla Corte Costituzionale che «ha creato una nuova causa di giustificazione in presenza della quale l'agevolazione all'esecuzione del suicidio non è punibile», prevedendo requisiti precisi, ossia «1) deve essere stato accertato da un medico che la patologia era irreversibile, 2) deve essere stato verificato da un medico che il malato pativa una grave sofferenza fisica o psicologica, 3) deve essere stato oggetto di verifica in ambito medico che il paziente dipendeva da trattamenti di sostegno vitale, 4) un medico deve avere accertato che il malato era capace di prendere decisioni libere e consapevoli, 5) la volontà dell'interessato deve essere stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni, 6) il paziente deve essere stato adeguatamente informato sia in ordine alle sue condizioni, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all'accesso alle cure palliative».
In questo caso, osservano i giudici, vi sono tutti i predetti requisiti, considerata nei dettagli la storia di Davide Trentini, che, tra l'altro, «era affetto da una patologia irreversibile e pativa una grossa sofferenza fisica», dipendeva «da trattamenti di sostegno vitale», intesi come «qualsiasi trattamento sanitario» la cui interruzione provocherebbe «la morte del malato, anche in maniera non rapida», ed «era ridotto in una condizione di oggettiva ed assoluta dipendenza da un'altra persona e tale dipendenza concerneva i suoi bisogni vitali» come «mangiare, muoversi, andare in bagno».
Da non dimenticare, poi, «la chiara ed univoca volontà del Trentini di suicidarsi», chiosano i giudici.
Tutti gli elementi a disposizione, quindi, consentono di far cadere le accuse nei confronti di Cappato e Welby, poiché «manca qualsiasi prova del fatto che vi sia stata una condotta di rafforzamento del proposito di suicidio del Trentini» che, invece, «si era autonomamente e liberamente determinato al suicidio».
Fonte: Diritto e Giustizia