L'azione di responsabilità degli amministratori alla luce delle modifiche apportate dal D.Lgs n. 14/2020

Andrea Fidanzia
11 Settembre 2020

L'art. 255 del d.lgs 12 gennaio 2019 n. 14 (Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza) è una norma che, nell'individuare le azioni di responsabilità esperibili dal curatore della liquidazione giudiziale, non si limita a riprodurre il contenuto della norma attualmente vigente (l'art. 146 comma 2° legge fall.) - come è avvenuto con altre norme del capo dedicato alla liquidazione giudiziale delle società - ma introduce indubbiamente delle novità la cui valenza deve essere oggetto di meditata riflessione, allo scopo di verificare se e in che misura i profili innovativi incidano sulla disciplina in questo momento vigente
Autorizzazione del G.D.

Con riferimento al profilo dell'autorizzazione del G.D., come si evince anche dalla relazione illustrativa, l'intento del legislatore è stato quello di semplificare ed accelerare la procedura di promuovimento dell'azione di responsabilità, eliminando l'adempimento precedentemente richiesto di dover disporre per l'esercizio di tale azione la preventiva audizione del comitato dei creditori (il cui parere non era comunque vincolante). Infatti, con l'abrogazione dell'inciso “sentito il comitato dei creditori” e con il richiamo all'art. 128 comma 2° - il cui contenuto riproduce l'attuale art. 31 comma 2° legge fall. – è stato uniformato il procedimento autorizzatorio dell'azione di responsabilità a quello richiesto per tutte le altre iniziative giudiziarie del curatore, essendo ora sufficiente la mera autorizzazione del G.D. (Si esprime in termini di semplificazione, rispetto all'attualità, del regime autorizzatorio delle azioni di responsabilità esperibili dalla curatela anche G. D'Attorre, La liquidazione giudiziale delle società e delle imprese collettive non societarie, in Fallimento 2019, 1258).

Sul punto, va, comunque, osservato che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., n. 20637/2004; conf. n. 2730/1995 (e non risultano pronunce successive difformi).), l'eventuale mancanza dell'audizione del comitato dei creditori non comporta attualmente conseguenze pesantemente pregiudizievoli per l'azione promossa dal curatore, non potendo i vizi inerenti alla procedura autorizzazione in oggetto essere fatti valere mediante una diretta impugnativa in sede contenziosa dell'atto posto in essere dal curatore, essendo deducibili soltanto nell'ambito della procedura concorsuale, con reclamo avanti al Tribunale fallimentare.

Peraltro, non vi è dubbio che, alla luce dell'attuale formulazione dell'art. 182, comma 2, c.p.c., e quindi delle modifiche apportate dall'art. 46, comma 2, della L. n. 69 del 2009, in ogni caso, il vizio relativo al procedimento autorizzatorio dell'azione di responsabilità non è suscettibile di pregiudicare in modo sostanziale la posizione processuale della curatela, atteso che il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione deve promuovere la sanatoria in qualsiasi fase e grado del giudizio ed indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti "ex tunc", senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali (Cass. n. 26948/2017; conf. Cass. n. 27481/2018 e 28824/2019).

Possibilità per il curatore di esercizio “separato” delle azioni di responsabilità

L'art. 255 CCII dispone che il curatore può promuovere o proseguire le azioni di responsabilità previste dalla stessa norma “anche separatamente”.

Il legislatore, attraverso l'utilizzo di tale avverbio, come si evince dalla relazione illustrativa, ha voluto consapevolmente non avallare la ricorrente affermazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in caso di fallimento, l'azione di responsabilità si esercita in forma “unitaria ed inscindibile” , affermazione, peraltro, con cui la Corte di Cassazione, nel sottolineare la “legittimazione “cumulativa” del curatore all'esercizio sia dell'azione sociale che quella dei creditori, intendeva escludere che lo stesso potesse promuovere separatamente tali azioni al fine di conseguire due volte il ripristino del patrimonio della società (Cass. n. 24352/2019. Vedi anche Cass. n. 24715/15 e Cass. n. 1918/2015). Sul punto, il legislatore della novella, nella stessa relazione illustrativa, dimostra di avvertire la stessa preoccupazione, precisando che, anche in caso di esercizio separato dell'azione di responsabilità, se si tratta del medesimo pregiudizio, devono escludersi plurimi risarcimenti.

Va, in ogni caso, evidenziato che la giurisprudenza di legittimità non ha mai avuto dubbi che, anche in caso di esercizio cumulativo da parte del curatore delle azioni di cui all'art. 2393 e 2394 cod. civ., le stesse mantengono titoli distinti ed autonomi e sono soggette a diversi presupposti (Cass. S.U. n. 1641/2017; vedi anche Cass. n. 24352/2019, che, nel ribadire che tali azioni mantengono presupposti, natura giuridica e caratteri diversi ed autonomi, ha evidenziato che la mancata specificazione del titolo, lungi dal determinare indeterminatezza della domanda, facendo presumere, in assenza di un contenuto anche implicitamente diretto a far valere una sola delle azioni, che il curatore abbia inteso esercitare, come specificamente consentito dall'art. 146 I.f., congiuntamente entrambe le azioni. In dottrina, sull'autonomia dell'azione ex art. 2394 cod. civ. rispetto a quella sociale, N. Abriani, Le azioni di responsabilità alla luce del codice della crisi, in La riforma del Fallimento, a cura di M. Pollio, Milano 2019, 58. In senso conforme, Fabiani, Il diritto della Crisi e dell'Insolvenza, Bologna 2017, 397, che evidenzia che ove non si sia determinata l'insufficienza del patrimonio e siano stati comunque compiuti dagli amministratori atti di mala gestio dannosi per la società, la responsabilità verso quest'ultima permane e il termine di prescrizione deve coincidere con la cessazione della carica e non con quello più favorevole correlato all'azione ex art. 2394 cod. civ.).

Azioni di responsabilità esperibili dal curatore

L'art. 255 è una norma che, con una tecnica redazionale simile a quella dell'art. 146 legge fall., nella sua versione originaria prima della riforma del 2006 (in questi termini si esprime Dimundo, Le azioni di responsabilità esperibili dagli organi delle procedure concorsuali: il regime attuale e la nuova disciplina introdotta dal codice della Crisi e dell'Insolvenza, in www.il Caso.it del 15 giugno 2019, 10), ha l'indubbio merito di individuare con chiarezza le azioni di responsabilità che il curatore di una liquidazione giudiziale può intraprendere e segnatamente:

  • l'azione sociale di responsabilità;
  • l'azione dei creditori sociali prevista dall'art. 2394 e dall'art. 2476, sesto comma del codice civile;
  • l'azione prevista dall'art. 2497, quarto comma, del codice civile;
  • tutte le altre azioni di responsabilità che gli sono attribuite da singole disposizioni di legge.

L'art. 255 provvede quindi alla puntuale indicazione delle azioni di responsabilità cui è abilitato il curatore, con una differente impostazione rispetto all'ampia formulazione dell'art. 146 legge fall., che contiene, invece, un generico ed indistinto riferimento alle “azioni di responsabilità”, intendendosi per tali, secondo l'interpretazione costante della giurisprudenza di legittimità, “qualsiasi” azione di responsabilità rientrante nelle c.d. azioni di massa, così denominate in quanto aventi la finalità di incrementare la massa dei beni sui quali i creditori ammessi al passivo possono soddisfare le proprie ragioni secondo le regole del concorso (Sul punto, v., in parte motiva, Cass. n. 13465/2010.

In dottrina, F. Dimundo, cit. 8, evidenzia che non si trasferiscono al curatore – e possono quindi essere legittimamente esperite (o proseguite) anche dopo il fallimento dai relativi legittimati – le azioni di responsabilità che soggetti diversi dal fallito (soci, terzi o creditori in genere) possono esercitare individualmente ed a proprio diretto ed immediato vantaggio, come le azioni ex art. 2395 c.c., 2476 comma 6° c.c. e 2497 comma 1° c.c. . V. anche sul punto Nigro, Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2012, 337.).

Proprio sul rilievo che il curatore era abilitato all'esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro amministratori, organi di controllo, direttori generali e liquidatori di società, la Suprema Corte ha statuito che la riforma societaria di cui al d. lgs. n. 6 del 2003, che pur non prevedeva più il richiamo, negli artt. 2476 e 2487 cod. civ., agli artt. 2392, 2393 e 2394 cod. civ., e cioè alle norme in materia di società per azioni, non spiegasse alcuna rilevanza abrogativa sulla legittimazione del curatore di una società a responsabilità limitata che fosse fallita all'esercizio della predetta azione ai sensi dell'art. 146 legge fall. (Cass. n. 17121/2010; Conf. Cass. S.U. n. 1641/2017, che ha evidenziato che “l'art. 146 legge fall., nel suo testo originario, era destinato solo a riconoscere la legittimazione del curatore all'esercizio delle azioni di responsabilità comunque esercitabili dai soci o dai creditori nei confronti degli amministratori, indipendentemente dallo specifico riferimento agli art. 2393 e 2394 c.c. E questa interpretazione risulta ora confermata dallo stesso legislatore, perché il nuovo testo dell'art. 146 legge fall., come sostituito dall'articolo 130 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, prevede semplicemente che il curatore è legittimato a esercitare «le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori>> della società fallita. Vedi, più recentemente anche Cass. n. 23452/2019).

L'art. 255 CCII, nell'indicare tra le azioni esperibili dal curatore quella di cui all'art. 2476, settimo comma, del codice civile, ovvero l'azione dei creditori sociali nelle società a responsabilità limitata, non ha fatto altro quindi che codificare un principio di diritto che gli interpreti hanno sempre continuato ad applicare anche nel vigore della nuova formulazione dell'art. 146 legge fall. (Sul punto, v. F. Dimundo, Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, Milano, 2019, 39 ss.. v. anche A. Bartalena, Le azioni di responsabilità nel codice della Crisi e dell'Insolvenza, in Fall. 2019, 302).

Peraltro, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità di ritenere il curatore legittimato ad agire in rappresentanza dei creditori non in qualsiasi azione di responsabilità ma solo in quelle c.d. di massa, finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica e aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo, emerge, anche a contrariis , dall'esclusione dal novero di dette azioni dell'azione ex art. 2395 cod. civ., che costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore o del singolo socio (Cass. n. 9982/2017).

La nuova impostazione dell'art. 255 CCII di non attribuire al curatore un potere generalizzato di rappresentanza dei creditori del fallito, ma di circoscriverlo alle azioni di responsabilità che sono a quest'ultimo attribuite da singole disposizioni di legge, è comunque coerente con la prospettiva di consentire allo stesso curatore il solo esercizio delle c.d. azioni di massa. Non è quindi un caso che siano state attribuite al curatore le sole azioni dirette alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica, con l'esclusione, pertanto, di quelle finalizzate a procurare un diretto ed immediato vantaggio ai singoli soggetti specifici, come l'azione ex art. 2395 cod. civ. del terzo e del socio o l'azione risarcitoria prevista dal primo comma dell'art. 2497 cod. civ. a favore del socio della società eterodiretta per il pregiudizio arrecato alla redditività o al valore della sua partecipazione.

Né l'attribuzione al curatore, da parte dell'art. 291 CCII,, della legittimazione ad esercitare le “azioni” di responsabilità previste dall'art. 2497 del codice civile consente di addivenire ad una diversa conclusione, essendo il frutto di un evidente difetto di coordinamento di tale norma con gli artt. 255 lett d) e 382 comma 3° CCII, che abilitano il curatore al solo esercizio delle azioni che spettano ai creditori e non anche quelle facenti capo ai singoli soci (Sul punto, v. F. Dimundo, in Le azioni di responsabilità esperibili dagli organi delle procedure concorsuali: Il regime attuale e la nuova disciplina introdotta dal Codice della Crisi e dell'Insolvenza, cit. nota 39, 15. Sulla necessità di un coordinamento tra il danno risarcibile in favore della curatela e quello in favore dei singoli soci, v. G. d'Attorre, cit. 1258. Sullo stesso punto, v. anche G. D'Attorre, Le azioni di responsabilità da direzione e coordinamento nel fallimento della eterodiretta, in Riv. Dir. comm. 2015, 59.)

L'azione di responsabilità nei confronti degli organi di controllo

Da un esame dell'art. 255 CCII emerge che, a differenza della normativa attuale, il legislatore non ha provveduto alla analitica indicazione dei legittimati passivi dell'azione di responsabilità, essendo stato eliminato il riferimento agli amministratori, ai componenti degli organi di controllo, ai direttori generali ed ai liquidatori.

Ne consegue che l'individuazione dei soggetti nei cui confronti può essere proposta l'azione in oggetto deve avvenire dopo aver analizzato le singole azioni esperibili dal curatore, valorizzando tutti i richiami effettuati sia dall'art. 255 CCII, sia dalle singole norme del codice civile in materia societaria per integrare la regolamentazione degli istituti non oggetto di una specifica disciplina (di tale avviso anche M. Fabiani, L'azione dei creditori sociali della s.r.l. dopo il codice della crisi, in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, A cura di M. Irrera, 825, Giappichelli, che evidenzia che l'individuazione dei soggetti destinatari delle azioni giudiziarie intentate dal curatore può avvenire con il rinvio alle singole disposizioni, tanto quelle espressamente menzionate dall'art. 255 CCII quanto quelle sparse qua e là nella legge).

Pertanto, se, da un lato, la legittimazione passiva dei sindaci delle società per azioni deriva dall'esplicito richiamo effettuato dall'ultimo comma dell'art. 2407 cod. civ. alle disposizioni degli artt. 2393, 2393 bis, 2394, 2394 bis e 2395 (che si applicano in quanto compatibili), dall'altro, la legittimazione passiva dei sindaci delle società a responsabilità limitata è frutto del richiamo esplicito dell'art. 2477 comma 4° cod. civ. alle disposizioni sul collegio sindacale previste per le società per azioni (compresa quindi la norma di cui all'art. 2407 sulla responsabilità).

Analogo ragionamento può svolgersi con riferimento ai sindaci (oltre che agli amministratori ovviamente) delle società cooperative in virtù sempre del richiamo esplicito dell'art. 2519 cod. civ. alle disposizioni delle società per azioni (applicabili in quanto compatibili ”per quanto non previsto “ dal titolo VI del quinto libro del codice civile).

Lo stesso ragionamento non è applicabile, invece, alla posizione dei revisori contabili. Se, infatti, l'ampia formulazione della locuzione “organi di controllo” , contenuta nell'art. 146 comma 2° legge fall., ha indotto la giurisprudenza di merito (Tribunale di Bologna del 12.12.2019, in www.ilcaso.it.. E' pur vero, tuttavia, che l'art. 2477 c.c. , sia nella precedente formulazione che in quella attuale (a seguito dell'entrata in vigore dell'art 379 CCII), così come gli artt. 12 e 14 CCII, tengono distinti l'organo di controllo e il revisore, così dimostrando di privilegiare una nozione restrittiva di organo di controllo.) a ritenere che i legittimati passivi dell'azione di responsabilità non possano essere circoscritti solamente ai componenti del collegio sindacale, estendendosi, invece, tenuto conto della attività espletata, anche ai revisori, in quanto soggetti deputati al controllo contabile della società, tuttavia, quando entrerà in vigore il codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza, verrà comunque meno il terreno d'appoggio su cui è stata fondata la legittimazione passiva dei revisori contabili.

In proposito, a seguito dell'abrogazione da parte del d.lgs n. 39/2010 dell'art. 2409 sexies - norma che, nel disciplinare la responsabilità dei soggetti responsabili del controllo contabile, faceva espresso richiamo all'art. 2407 cod. civ., che rimanda, a sua volta, all'art. 2394 bis cod. civ. - la legittimazione attiva del curatore ad agire nei confronti dei revisori contabili non appare più fondarsi su nessuna base normativa e ciò in virtù del mancato richiamo, anche indiretto, dell'art. 15 D.lgs n. 39/2010 (che disciplina la responsabilità dei revisori legali e delle società di revisione, in concorso con gli amministratori, nei confronti della società che ha loro conferito l'incarico di revisione legale) all'art. 2394-bis cod. civ.. Proprio in relazione a tale considerazione, deve rilevarsi che l'intervenuto inserimento, da parte della relazione illustrativa al Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza, dei revisori contabili tra i soggetti legittimati passivi dell'azione di responsabilità ex art. 255 CCII non appare coerente con la previsione generale (art. 255 lett e) che legittima il curatore ad esperire le sole azioni di responsabilità che gli sono attribuite da singole disposizioni di legge.

L'art. 378 comma 2 ° CII : ambito di applicazione e contenuto

E' una norma che, a differenza dell'art. 255 CCII, che si occupa esclusivamente della legittimazione processuale del curatore, è intervenuta a disciplinare la materia delle azioni di responsabilità sotto il diverso profilo della liquidazione del danno, modificando, con l'introduzione di un terzo comma, l'art. 2486 cod. civ..

L'ambito di applicazione della norma in esame - già entrata in vigore il 16 marzo 2019 - è dato, in via esclusiva, dalle azioni di responsabilità nelle quali sono imputati agli amministratori per i danni derivanti dalla violazione della prescrizione di cui all'art. 2486 comma 1° cod. civ., ovvero di non aver salvaguardato l'integrità e il valore del patrimonio sociale, una volta verificatasi una causa di scioglimento della società.

Una tale contestazione può essere mossa all'amministratore sia nell'ambito dell'azione sociale promossa ex art. 2493 cod. civ. ed ex art. 2476 comma 1° cod. civ., sia nell'ambito dell'azione già spettante ai creditori ex art. 2394 ed ex art. 2476 comma 6° cod. civ., e ciò si evince dall'art. 2486 comma 2° cod. civ., secondo cui “gli amministratori sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per atti o omissioni compiuti in violazione del precedente comma”.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità che si è occupata della fattispecie prima dell'entrata in vigore della modifica dell'art. 2486 cod. civ., in entrambe le tipologie di azioni, la parte attrice era tenuta a fornire la prova sia dell'esistenza del danno lamentato, sia della sua riconducibilità all'amministratore ed ai suoi eventuali concorrenti (nesso causale), ammettendosi, in relazione alle circostanze del caso concreto, ove fosse estremamente difficile, se non impossibile, una quantificazione ed una prova precisa del danno di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all'amministratore della società, il ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 cod. civ., sempre che fossero indicate le ragioni che non consentivano la rigorosa dimostrazione degli specifici effetti pregiudizievoli della condotta dell'amministratore nonché della plausibilità logica del ricorso a tale criterio nel caso concreto.

In ogni caso, presupposto imprescindibile per l'applicazione del criterio equitativo era che la parte attrice non si fosse limitata ad allegare un qualsiasi inadempimento, dovendo dedurre ed anche provare un inadempimento almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui si chiedeva il risarcimento (in questi termini Cass. S.U. n.9100/2015 , che ha richiamato Cass. S.U. n. 577/2008, che aveva, a sua volta, richiesto che l'allegazione del creditore attenesse “ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”; vedi anche Cass. n. 9983/2017) pur nella difficoltà della sua esatta quantificazione.

Si pone, a questo punto, la questione se l'art. 378 comma 2° CCII abbia o meno innovato rispetto alla disciplina previgente (risultante dall'evoluzione giurisprudenziale) e, in caso affermativo, se si sia limitato a dispensare il creditore dall'onere di allegare le circostanze concrete che hanno reso difficoltosa se non impossibile la quantificazione precisa del danno o lo abbiano addirittura esonerato dall'allegazione e prova del nesso eziologico tra inadempimento dell'amministratore e danno*.

L'art. 378 comma 2° così recita:

“Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

Deve ritenersi, in ordine al quesito sopra posto, che la norma in esame, nel prevedere la liquidazione del danno sulla base del criterio dei netti patrimoniali – salva la prova di un diverso ammontare - o, in subordine, (in caso omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili) della differenza tra attivo e passivo “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo”, non abbia con ciò inteso derogare al principio generale, evincibile dall'art. 1223 cod. civ., della necessaria sussistenza del nesso di causalità tra inadempimento e danno** (si approfondirà nel corso della trattazione come in concreto la giurisprudenza ha disciplinato l'onere incombente sulla parte attrice), non potendo l'accertamento della responsabilità degli amministratori prevista dalla nuova norma essere circoscritto alla sola condotta, senza estendersi necessariamente anche al danno ed al nesso di causalità tra i due elementi, pur risultando evidente la volontà del legislatore di agevolare la parte attrice nel fornire la prova dell'ammontare del danno dalla stessa subito attraverso l'introduzione di due presunzioni.

In particolare, nella prima parte dell'art. 378 comma 2° CCII– applicabile anche alle azioni di responsabilità non proposte dalla curatela – è stata prevista una presunzione relativa di quantificazione del danno, accogliendo, come sopra anticipato, quale criterio legale, in difetto della prova da parte del convenuto di un diverso ammontare, quello dei c.d. netti patrimoniali. Nella seconda parte della norma in esame (limitatamente, tuttavia, alle azioni proposte dal curatore dopo l'apertura della procedura concorsuale), è stata, invece, introdotta una presunzione assoluta, prevedendo, in caso di mancanza delle scritture contabili o in caso di impossibilità di determinare i netti patrimoniali per irregolarità nella tenuta delle stesse o per altre ragioni, la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra attivo e passivo.


*N. Abriani – A. Rossi A., in “Nuova disciplina della crisi d' impresa e modificazioni del codice civile: prime letture” , in Società, 2019, 408-409, sottolineano che il plus della norma non riguarda tanto la quantificazione del danno, ma il nesso di causalità, presumendosi non il quantum del danno, ma la sua stessa esistenza.

Analogamente, A. Rinaldi, nel suo intervento del 28.3.2019 nell'ambito del ciclo di incontri intitolato “Lettura ragionata del Codice della Crisi di Impresa, presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Verona, rileva che “pare che, attraverso la presunzione legale di quantificazione del danno sia venuta meno la necessità di indicare il nesso di causalità tra evento e danno”.

Per M. I. Severino, in “Responsabilità degli Amministratori”, in www.storaristudiolegale.it, “l'unica ratio che pare avere ispirato il legislatore è quella di semplificare il lavoro degli organi delle procedura concorsuali e dei giudicanti, che non saranno più tenuti a compiere onerose riflessioni per dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra la prosecuzione illecita dell'attività di impresa e il danno che ne sia conseguenza immediata e diretta”.

**In senso conforme, C.F. Giamapaolino, Il “danno” ex art. 2486 c.c.(con alcune considerazioni in tema di concordato preventivo e discrezionalità amministrativa), in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, A cura di M. Irrera, 848, Giappichelli, che evidenzia che il criterio presuntivo di cui all'art. 378 CCII si applica alla “ misurazione delle conseguenze dannose, cioè ai “danni”, ovvero al “danno risarcibile” menzionato all'art. 2486 comma 3° cc. Tuttavia, non vi è presunzione sull'accertamento della responsabilità che deve comprendere la violazione commessa con lo specifico comportamento, l'evento negativo patrimonialmente valutabile ed il nesso di causalità tra i due”.

Art. 378 CCII: norma sostanziale o processuale?

All'indomani dell'entrata in vigore della modifica dell'art. 2486 comma 3° cod. civ. (16 marzo 2019), apportata dall'art. 378 CCII, ci si è comprensibilmente posto il quesito in ordine alla natura sostanziale o processuale della norma in esame ed alla sua eventuale applicabilità ai giudizi già in corso.

Ove, infatti, si valorizzasse la natura processuale della norma in oggetto - e ciò sul rilievo che la stessa dispensa la parte a favore della quale opera dal provare i fatti costitutivi della domanda, agevolandola quindi sul piano processuale - ne conseguirebbe, senza ombra di dubbio, l'immediata applicabilità dell'art. 2486 comma 3° cod. civ. in virtù del principio “tempus regit actum”.

Deve, tuttavia, privilegiarsi la natura sostanziale della norma in questione, e non solo sul rilievo che sia la norma generale sulla ripartizione dell'onere della prova (l'art. 2697 cod. civ.), sia quella che introduce eccezioni alla regola generale (l'art. 2728 cod. civ.), si collocano all'interno del codice civile, ma soprattutto in relazione alla circostanza che le norme sull'onere della prova, nel dettare regole di giudizio, incidono sul merito della decisione e non sul procedimento, non attenendo al regolare instaurarsi o evolversi del rapporto processuale.

Inoltre, depone quale argomento decisivo per il riconoscimento della natura sostanziale di una norma che incide sull'onere della prova il rilievo che l'art. 2698 cod. civ. ammette la stipulazione di patti diretti a invertire o modificare l'onere della prova.

Infatti, se la norma sull'onere della prova avesse carattere processuale non potrebbe essere concesso alcuno spazio all'autonomia privata, atteso che le parti non possono modificare, mediante accordi contrattuali, le regole del processom (S. Patti, Le prove, Parte Generale, in Trattato di diritto privato a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Milano 2010, 93. Sulla natura sostanziale della regola sull'onere della prova di cui all'aer. 2697 cod. civ., v. in giurisprudenza Cass. S.U. n. 564 del 14/01/2009).

Se dunque si addiviene alla conclusione che l'art. 378 CCII ha natura sostanziale, conseguenza diretta dovrebbe essere, in linea di principio, l'inapplicabilità di tale norma ai giudizi in corso, in virtù di quanto previsto dall'art. 11 delle Preleggi, secondo cui “La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.

Deve, tuttavia, rilevarsi che la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte ha precisato in numerose pronunce (Cass. n. 16039 del 02/08/2016, secondo cui “ Il principio della irretroattività della legge comporta che la nuova norma non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso, sicché la disciplina sopravvenuta è invece applicabile ai fatti, agli "status" e alle situazioni esistenti o venute in essere alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai nuovi fini, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi dal collegamento con il fatto che li ha generati”. Conf. Cass. n. 16620/2013.) l'effettiva portata del principio di irretroattività, affermando che la nuova legge non può essere applicata ai rapporti giuridici ancora pendenti alla sua entrata in vigore quando incide sul fatto generatore del rapporto, non escludendosi, tuttavia che la nuova disciplina possa trovare applicazione allorquando sia diretta a regolare solo un effetto non ancora esaurito di un rapporto giuridico già esistente.

Alla luce di tale riflessione, è stata sostenuta l'applicabilità dell'art. 378 CCII anche ai rapporti giuridici sorti anteriormente sul rilievo che la nuova norma non ha modificato la disciplina relativa ai doveri cui è tenuto l'amministratore nella gestione di una società, ma solo gli effetti (ovvero la quantificazione del danno) scaturenti dall'inosservanza di tali obblighi che sono, invece, rimasti immutati (In questi termini si sono espressi M. Orlando e F. Ferrari, in Lexatadvisory.com, evidenziando che nella sentenza n. 3231/1987, in una fattispecie in cui era stata affrontata la questione relativa all'applicabilità, ai giudizi in corso, del novellato primo comma dell'art. 1784 c.c.. ad opera della L. 15 febbraio 1977 n. 35 (che aveva modificato il limite massimo della responsabilità dell'albergatore per la sottrazione, la perdita e il deterioramento delle cose portate dai clienti in albergo, portando tale limite, prima fissato in lire 200.000,00, a cento volte il prezzo dell'alloggio giornaliero in albergo), la Suprema Corte ha stabilito che “la legge nuova non ha regolato il fatto o l'atto generatore del rapporto, ma soltanto un effetto di esso non ancora esaurito (ammontare del risarcimento del danno)”, con la conseguenza che “la legge sopravvenuta deve essere comunque applicata quando il rapporto giuridico disciplinato, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i suoi effetti e purché la norma innovatrice non sia diretta a regolare il fatto o l'atto generatore del rapporto ma gli effetti di esso”. ).

In proposito, pur convenendosi con l'osservazione che il nuovo art. 378 CCII non abbia affatto inciso sul fatto generatore del diritto al risarcimento del danno dedotto in giudizio, neppure può, tuttavia, affermarsi che la nuova disciplina si sia limitata a regolare un mero effetto di un rapporto giuridico già esistente, in quanto, intervenendo tale norma sul criterio di ripartizione dell'onere della prova, è indubitabile che quantomeno, in linea di principio (salvo quando si evidenzierà nel corso ulteriore della presente trattazione nei paragrafi relativi all'orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità), debba ritenersi che tale norma sia venuta ad incidere in modo penetrante sulle posizioni processuali delle parti dei giudizi in corso.

A tal proposito, dopo l'entrata in vigore della modifica dell'art. 2486 cod. civ. consta, allo stato, un primo precedente giudiziario (Corte di Appello di Catania, 16.1.2020, in www.ilcaso.it) in cui è stata ritenuta l'inapplicabilità della nuova norma ai giudizi in corso proprio sul rilievo che, ragionando diversamente, sarebbe resa ingiustificatamente deteriore la posizione processuale del convenuto, imponendogli un onere probatorio cui non sapeva di andare incontro nel momento in cui il processo è iniziato con le evidenti conseguenze relative alla scelta della strategia di difesa da proporre in giudizio, tenuto conto anche che, in quel giudizio, la modifica della norma era intervenuta quando le preclusioni istruttorie erano già maturate cristallizzando il thema decidendum e probandum (La Corte d'Appello, nella sentenza del 16.1.2020, ha richiamato – individuando la medesima ratio - la sentenza della Corte di Cassazione n. 25542/2019 che ha ritenuto la non applicabilità in via retroattiva dell'art. 2 comma 2 sexies della L. n. 89 del 2001 (che ha introdotto la presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo in caso di estinzione del giudizio a norma degli artt. 306 e 307 c.c.) sul rilievo che, a prescindere dalla sua natura processuale o sostanziale, costituendo una norma sopravvenuta che imponeva di fornire prove che, al momento del promuovimento della lite, non costituivano oggetto dell'onere della parte, operava sugli effetti della domanda, implicando un mutamento dei presupposti legali cui era condizionata la disciplina del caso concreto).

Deve, d'altra parte, osservarsi che la norma che incide sul criterio di ripartizione di onere della prova, non modificando il fatto generatore del rapporto dedotto in giudizio, può sicuramente ritenersi applicabile ai fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore, purchè, tuttavia, intervenga in un momento antecedente alla proposizione della domanda giudiziale o quantomeno, ove sopravvenga nel corso del giudizio, in un momento precedente alla individuazione del thema decidendum e probandum, non verificandosi in tali situazioni una penalizzazione della posizione processuale dell'amministratore convenuto.

Va, infine, osservato, che, al fine di valutare la concreta rilevanza della questione relativa all'applicabilità o meno dell'art. 378 CCII ai giudizi in corso, si rende opportuno approfondire, a questo punto, l'orientamento seguito, al momento dell'entrata in vigore della predetta norma, dalla giurisprudenza di merito e da quella di legittimità sia in ordine alla portata dell'onere di allegazione dell'inadempimento dell'amministratore incombente sulla parte attrice, sia in relazione alle modalità di quantificazione del danno derivante dalla prosecuzione dell'attività di impresa nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento, tenuto conto che il criterio dei c.d. netti patrimoniali (così come il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare) era già da tempo utilizzato dalla giurisprudenza, seppur al ricorrere di determinate condizioni (allegazione della condotta produttiva del danno e puntualizzazione delle ragioni che hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore).

In particolare, analizzando come, precedentemente all'entrata in vigore della novella, la giurisprudenza ripartiva in concreto tra le parti l'onere di allegazione e della prova nell'accertamento dell'esistenza e nella quantificazione del danno da indebita prosecuzione dell'attività di impresa dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (sul punto, la citata sentenza delle S.U. n. 9100/2015, nel richiedere l'allegazione di un inadempimento dell'amministratore potenzialmente idoneo a cagionare il danno, non aveva dovuto inoltrarsi ad approfondire come tale onere di allegazione dovesse esplicarsi in concreto, atteso che nella vicenda concreta sottoposta al suo esame la curatela aveva dedotto come inadempimento la mera mancata tenuta della scritture, condotta del tutto inidonea a porsi anche in astratto come causa del danno. ), potrà cogliersi la reale innovatività o meno del nuovo art. 2486 comma 3° cod. civ. e, conseguentemente, la reale esigenza di stabilirne o escluderne l'applicabilità ai giudizi in corso.

L'orientamento della giurisprudenza di merito

La prevalente giurisprudenza di merito era orientata tendenzialmente a ritenere che, in caso di prosecuzione dell'attività di impresa da parte della società dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (normalmente la perdita del capitale sociale), fosse sufficiente l'allegazione da parte della curatela della violazione da parte dell'amministratore del c.d. obbligo di gestione conservativa e del conseguente aggravamento del dissesto, mentre il danno risarcibile veniva quantificato attraverso l'utilizzo del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali (differenza fra il valore del patrimonio sociale al momento del verificarsi della causa di scioglimento e del valore dello stesso al momento della dichiarazione di fallimento, sottratto il valore delle diminuzioni patrimoniali che si sarebbero comunque verificate se la società fosse stata posta tempestivamente in liquidazione al momento del verificarsi della causa di scioglimento)*.

* In evidenza

Il Tribunale di Milano, nella sentenza del 19/04/2018, in www.giurisprudenzadelleimprese.it ha applicato tale criterio, precisando (in relazione alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame) che il danno da illegittima prosecuzione dell'attività non “concorre” con quello derivante dagli ingiustificati prelievi, poiché il risultato negativo degli stessi è già ricompreso nella perdita netta che si ricava confrontando il patrimonio della società al tempo in cui essa avrebbe dovuto essere posta in liquidazione e il patrimonio netto della società immediatamente prima della dichiarazione di fallimento. Diversamente ragionando, si finirebbe per duplicare la medesima voce di danno.

Il criterio dei netti patrimoniali è stato applicato, sulla base del medesimo presupposto dell'allegazione dell'indebita prosecuzione dell'attività dopo il verificarsi della causa di scioglimento, dal Tribunale di Catania nella sentenza del 30/03/2017, riv. cit.

Il Tribunale di Torino, con sentenza del 4/07/2018, riv. cit., ha ulteriormente precisato di ritenere applicabile il criterio dei netti patrimoniali ove fosse concretamente impossibile ricostruire ex post, in considerazione della dinamicità e complessità dell'attività di impresa, le singole operazioni “non conservative” del valore e della integrità del patrimonio sociale, poste in essere dall'amministratore, in violazione dell'art. 2486 c.c. nonostante il verificarsi della causa di scioglimento (nel caso sottoposto al suo esame , l'amministratore unico aveva proseguito l'attività d'impresa per ulteriori dieci esercizi, rendendo impossibile la ricostruzione delle singole operazioni e il loro effetto sul patrimonio sociale).

Infine, anche la Corte d'Appello di Milano, nella sentenza 10/06/2019, in Il Caso.it, ha ritenuto la legittimità del ricorso al criterio equitativo dei netti patrimoniali una volta accertata l'impossibilità di ricostruire i dati in modo così analitico da individuare le conseguenze dannose dei singoli atti illegittimi imputati agli amministratori e sindaci della società.

Tuttavia, non mancano pronunce che, ai fini dell'applicazione del criterio dei netti patrimoniali, non reputano sufficiente che il curatore fallimentare deduca, quale condotta illecita, il mancato accertamento della totale erosione del capitale sociale per perdite e la conseguente omissione degli adempimenti di cui all'art. 2485 cod civ., dovendo, invece, lo stesso allegare ed individuare specificamente le iniziative imprenditoriali non conservative intraprese dagli amministratori successivamente alla perdita del capitale nonché indicare quali conseguenze negative, immediate e dirette, sul piano del depauperamento del patrimonio ne sarebbero derivate, al netto dei ricavi [In questi termini si è espresso il Tribunale di Bologna, nella sentenza del 21/12/2017, in www.giurisprudenzadelleimprese.it. Anche il

Tribunale di Milano, nella sentenza del 2/2/2017

, Riv. cit, nella stessa prospettiva, ha ritenuto manifestamente incongruente, in logica e in diritto, la pretesa di ricondurre alla violazione dei limiti gestori di cui all'

art. 2486 c.c.

un danno risarcibile commisurato all'entità di “debiti” maturati in capo alla società in epoca successiva all'asserita perdita del capitale sociale. In tal modo, infatti – si è osservato - si finirebbe per riproporre puramente e semplicemente la previsione del previgente

articolo 2449 co. 1 c.c.

abrogata dalla riforma del 2003 (disposizione che appunto faceva riferimento a una diretta responsabilità degli organi sociali per “i debiti” maturati dalla società), laddove la nuova disposizione dell'

art. 2486 c.c.

fa piuttosto riferimento al risarcimento di eventuali “danni” procurati al patrimonio sociale in relazione a “perdite” maturate nella gestione sociale, ovvero ad un rapporto negativo tra costi e ricavi di esercizio. Si è quindi ritenuto che il dato relativo alla esistenza di “debiti” maturati in capo alla società in epoca successiva al momento di asserita perdita dei requisiti di capitale è circostanza di per sé semplicemente “neutra” rispetto alla possibile individuazione di un danno risarcibile, in relazione al quale vanno, invece, richiamati gli oneri di deduzione e di prova indiscutibilmente gravanti sull'attore in tema di danno e nesso di consequenzialità rispetto alla condotta contestata].

L'orientamento della giurisprudenza di legittimità

La Suprema Corte di Cassazione ha recentemente statuito che, in caso di prosecuzione dell'attività, pur in presenza di una causa di scioglimento della società (con conseguente violazione dell'obbligo di cui all'art. 2486 c.c.), il giudice può avvalersi in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all'incompletezza dei dati contabili, ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali, a condizione che tale utilizzo sia congruente con le circostanze del caso concreto e che, quindi, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato ed abbia specificato le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla sua condotta (Cass. 20 aprile 2017, n. 9983; conf. Cass. 30/09/2019 n. 24431).

Dunque, la Suprema Corte, consapevole della estrema difficoltà, se non dell'impossibilità, del curatore di ricostruire ex post le singole operazioni non conservative in caso di dichiarazione di fallimento intervenuto dopo un lungo lasso di tempo rispetto al verificarsi della causa di scioglimento – che può spiegarsi anche in considerazione della dinamicità e complessità dell'attività di impresa – non ha posto a carico di costui l'onere di allegazione e di individuazione delle singole operazioni poste in essere in violazione dell'art. 2086 cod. civ.(come preteso da alcune pronunce di merito), né di rigorosa prova del danno, ammettendo il ricorso al criterio equitativo dei netti patrimoniali – ma analogo ragionamento può essere svolto anche per il criterio della differenza tra attivo e passivo della procedura concorsuale, in caso di mancanza o irregolare tenuta delle scritture contabili* – allorquando il ricorso a tale criterio sia plausibile per essere stato allegato un inadempimento astrattamente idoneo a cagionare il danno lamentato.

Va, peraltro, osservato che la Corte di Cassazione ha specificamente affrontato la questione degli oneri di allegazione e probatori riconducibili all'obbligo dell'amministratore, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, di porre in essere solo operazioni di natura conservativa dell'integrità e del valore del patrimonio nella sentenza n. 2156/2015**, in cui ha perentoriamente affermato che la sentenza che ponga a carico della curatela l'onere di dimostrare l'assenza della finalità liquidatoria degli atti posti in essere dagli amministratori incorre nella violazione del precetto legale sulla ripartizione dell'onere della prova ex art. 2697 cod. civ. ed è come tale censurabile in Cassazione per violazione di legge.

Pertanto, la parte che agisce in giudizio (la curatela) ha l'onere di provare l'esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d'impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d'impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari per portare a compimento attività già iniziate.
Questa interpretazione, oltre che con il principio di vicinanza della prova avente ad oggetto fatti a diretta conoscenza della società e dei suoi amministratori (che sono quindi nella migliore condizione di renderla), è coerente con la loro natura di fatti impeditivi o modificativi del diritto che il creditore ha azionato allegando e provando i relativi fatti costitutivi e cioè il compimento di atti negoziali successivamente allo scioglimento della società.

* Le S.U. della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 9100/2015, hanno statuito che nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, secondo comma, legge fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo. Conf. Cass. n. 2500/2018, che ha ritenuto costituire condotta astrattamente idonea a cagionare il danno lamentato la cessione da parte dell'amministratore a sé stesso, a prezzo vile, di rami d'azienda e la pluriennale mancata tenuta delle scritture contabili, evidenziando, in particolare, che la mancanza della contabilità a partire dall'anno 2000 e fino al 2004 aveva costituito ostacolo insormontabile all'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta illecita serbata dell'amministratore medesimo.

** Se è pur che nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte nella citata sentenza, l'oggetto del giudizio verteva sulla dedotta violazione dell'art. 2449 cod. civ. (nel testo utilizzabile "ratione temporis", antecedente alle modifiche apportate con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) e si dibatteva sulla nozione di “nuova operazione”, tuttavia, quanto statuito dalla Corte di Cassazione rileva, a maggior ragione, anche ai fini della individuazione di quelle operazioni degli amministratori non aventi la finalità di conservare l'integrità ed il valore del patrimonio sociale, ai sensi dell'art. 2486 cod. civ., norma, del resto, espressamente citata dalla predetta pronuncia. In proposito, già in precedenza (Cass. n. 17033/2008) la Suprema Corte parte aveva evidenziato che per “nuove operazioni” s'intendono tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alla liquidazione delle attività sociali, vengono costituiti dagli amministratori, con assunzione di ulteriori vincoli per l'ente, e siano preordinati al conseguimento di nuovi utili (Cass. 16.2.2007, n. 3694; Cass. 28.1.1995, n. 1035; Cass. 10.9.1995, n. 9887). Si tratta, in sostanza, di nuovi atti di impresa non più consentiti, atteso che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, come in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale.

Nella sentenza n. 2156/2015 la Suprema Corte ha precisato ulteriormente che se è agevole ritenere estranei alla nozione di “nuove operazioni” gli atti ordinari (e non anomali) di adempimento delle obbligazioni preesistenti, la cui omissione potrebbe comportare una responsabilità personale e solidale degli amministratori per violazione dell'obbligo di conservazione dei beni sociali, al fine di individuare le nuove operazioni, occorre, indipendentemente dal profilo cronologico (rispetto al verificarsi della causa di scioglimento), verificarne la natura o meno di atto di impresa (essendo quest'ultimo preordinato alla realizzazione di utili) e la sua estraneità o meno alla finalità liquidatoria.

Deve quindi giungersi alla conclusione che le nozioni di nuove operazioni e di atti conservativi dell'integrità e del valore del patrimonio debbano ritenersi speculari, rientrando “le nuove operazioni” tra i nuovi atti di impresa posti in essere dall'amministratore successivamente al verificarsi della causa di scioglimento che si connotano per la loro estraneità alla finalità liquidatoria. Né peraltro è condivisibile l'opinione di chi ritiene che la fattispecie di cui all'art. 2486 cod. civ. non sia comparabile a quella di cui all'abrogato art. 2449 cod. civ sul rilievo che quest'ultima prescindesse dall'accertamento del nesso di causalità tra l'atto degli amministratori ed il pregiudizio subito dai soggetti interessati.

Sul punto, va segnalata la citata Cass. n. 17033/2008, secondo cui ove l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall'art. 2447 cod. civ., non è giustificata, in mancanza di uno specifico accertamento in proposito, la liquidazione del danno in misura pari alla perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell'attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell'attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa

Conclusioni

Va osservato che, alla luce dei sopra illustrati orientamenti della giurisprudenza di legittimità e della prevalente giurisprudenza di merito, è stato riscontrato che anche a prescindere dall'applicabilità immediata o meno dell'art. 378 CII ai giudizi in corso, già in precedenza all'entrata in vigore della nuova norma, era previsto a carico della parte attrice un onere di allegazione che, pur richiedendo la deduzione di un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, non si spingeva fino ad imporre alla parte attrice la specifica indicazione delle operazioni di natura non conservativa poste in essere dallo stesso organo gestorio.

Pertanto, sotto tale profilo, la nuova norma, pur agevolando il creditore nell'ottenere il ristoro del danno, non ha sostanzialmente innovato rispetto al “diritto vivente” .

A diverse conclusioni, deve addivenirsi con riferimento alla concreta quantificazione del danno, in ordine alla quale il ricorso al criterio presuntivo dei netti patrimoniali (e in subordine della differenza tra attivo e passivo) ai fini della quantificazione del danno derivante dalla prosecuzione dell'attività di impresa, non è più subordinato, dopo l'entrata in vigore dell'art. 378 comma 2° CCII, alla precisa illustrazione da parte dell'attore dell'impedimento ostativo al rigoroso accertamento degli effetti dannosi della condotta dell'amministratore ed il giudice non è più tenuto ad argomentare la plausibilità logica del ricorso a tale criterio. Ciò in considerazione del fatto che il legislatore ha provveduto a codificare il criterio dei netti patrimoniali (oltre a quello sussidiario del deficit fallimentare in caso di mancanza o irregolare tenuta delle scritture contabili) che è stato assunto come metodo primario e diretto di liquidazione del danno, da applicarsi quindi in via immediata, e non come parametro equitativo utilizzabile solo in via sussidiaria ex art. 1226 cod. civ. (In questi termini, F. Dimundo, Responsabilità degli amministratori per violazione dell'art. 2486 c.c. e danno risarcibile, in Fallimento 2019, 1298).

Dunque, la nuova norma, sotto questo profilo, può ritenersi senz'altro innovativa e di maggior favore per la parte attrice, ma non è tale da stravolgere la disciplina preesistente [Anche il metodo di detrarre “i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione” si pone in linea di continuità con l'esigenza da sempre avvertita dalla giurisprudenza di merito e di legittimità (vedi per tutte Cass. S.U. n. 9100/2015) di non far gravare sull'amministratore, a titolo di responsabilità, quelle ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un'impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione in quanto generate proprio dalla cessazione dell'attività, anche in considerazione del fatto che i propri asset devono essere valutati non più nella prospettiva della continuità ma in un'ottica liquidatoria], con la conseguenza che la problematica relativa all'applicabilità della medesima ai giudizi in corso, pur assai stimolante, assume comunque una minore valenza agli effetti pratici.

Sommario