Un anno di Riforma Orlando. Era tutto necessario?

Viviana Torreggiani
03 Agosto 2018

L'interrogativo non ancora sopito è se fosse davvero necessario sconvolgere tanto profondamente il sistema ordinamentale penale e quale ne sia stata la ratio.
Abstract

La legge 23 giugno 2017, n. 103, come sappiamo, ha apportato numerose modifiche sia al codice penale che di procedura, contenendo anche una delega in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario la cui attuazione è stata fortemente sollecitata dagli avvocati penalisti in quanto volta ad introdurre percorsi rieducativi per i condannati in attuazione dell'art. 27 Cost., ma che, allo stato,pare definitivamente abbandonata.

L'interrogativo non ancora sopito è se fosse davvero necessario sconvolgere tanto profondamente il sistema ordinamentale penale e quale ne sia stata la ratio.

Le modifiche al codice penale
La riforma, che prende il nome dal Ministro della Giustizia Orlando, difficilmente si presta ad una lettura sistematica dei principi ispiratori stante la varietà e disomogeneità degli istituti toccati. L'ennesima riforma “a macchia di leopardo” che rischia di creare maggiori problemi di quelli che si proponeva di risolvere proprio a causa della sua disorganicità e lacunosità. Per quanto riguarda alcuni degli interventi che hanno interessato il codice penale quali la nuova disciplina della prescrizione e l'irragionevole inasprimento delle pene per determinati reati di maggiore allarme sociale, è parso evidente sin da subito come si sia voluta dare una risposta politica, allo scopo d'incrementare il consenso, alle istanze populiste di maggiore sicurezza e certezza della pena. Quello che pare non essere stati affatto considerati sono, invece, i principi garantisti del nostro ordinamento, fra i quali la ragionevole durata del processo che non può e non “dovrebbe” mai applicarsi a discapito delle garanzie processuali dell'imputato. Chi si occupa di diritto penale sa, o meglio dovrebbe sapere, che i dati statistici diffusi dal Ministero della Giustizia rivelano una realtà del tutto diversa da quella percepita e recepita dalla gente e che la prescrizione, circa nel 70% dei casi, matura addirittura nella fase delle indagini preliminari. Le inefficienze del sistema sono, pertanto, endemiche e dovrebbero essere affrontate mediante maggiori investimenti volti ad aumentare l'organico e a riorganizzare gli uffici giudiziari. Purtroppo, complice anche la crisi economica, non pare sia possibile provare a risolvere il problema se non facendo ricadere sul sistema delle garanzie l'impossibilità di giungere all'accertamento processuale in termini ragionevoli. Per questo, ben prima dell'entrata in vigore della riforma, gli avvocati penalisti hanno denunciato, mediante periodi di astensione dalle udienze, il pericolo che l'allungamento dei termini di prescrizione potesse portare a risultati diametralmente opposti rispetto a quelli dichiarati e perseguiti quali l' illegittima dilatazione dei tempi processuali. Non si dovrebbe mai dimenticare che chi viene indagato gode della presunzione, costituzionalmente garantita, di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva e che la pena deve tendere alla rieducazione del reo. Ebbene, il nuovo regime della prescrizione rischia, non solo di rendere più gravosa l'attività difensiva di ricerca della prova dopo molti anni dal fatto, ma, in caso di condanna, che la sanzione colpisca una persona divenuta del tutto diversa, per le esperienze di vita nel frattempo maturate, rispetto all'epoca del fatto, snaturando la funzione stessa della pena. Appare, inoltre, inaccettabile, proprio perché in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo, che un individuo debba restare in balia di una pendenza processuale per anni prima di poter vedere accertata o meno la propria responsabilità, con tutte le conseguenze sul proprio futuro ed opportunità di vita. Peraltro, le conseguenze dell'allungamento dei termini di prescrizione e quindi processuali, mancano l'obiettivo anche nella prospettiva del soggetto passivo del reato, a cui la riforma sembra abbia voluto dare ascolto, dilatando e frustrandone le istanze di giustizia. La riforma ha introdotto, per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, una nuova causa di estinzione del reato (art. 162-bis c.p.) che permette all'imputato di superare le eventuali contrarietà della persona offesa rispetto alla possibilità di rimettere la querela (art. 152 c.p.) nonostante l'intervenuto risarcimento, e di uscire dal circuito processuale dimostrando di aver provveduto alla riparazione integrale del danno cagionato dal reato (danno criminale). In tal caso, il giudice, sentite le parti e la persona offesa, valutata positivamente la condotta riparatoria dovrà dichiarare estinto il reato. Purtroppo la norma ha dimenticato d'indicare (diversamente a quanto è invece previsto dall'art. 35 d.lgs. 274/2000 per il procedimento davanti al giudice di pace) i criteri utilizzabili dal giudice per “valutare positivamente” la condotta al fine di dichiarare l'estinzione del reato nonché di fornire riferimenti procedurali: non sono indicate le modalità in cui debba essere sentita la persona offesa, né le conseguenze della sua mancata audizione se presente in udienza (cfr. art. 464-quater, comma 7, c.p.p.), in caso di esito negativo della condotta non sono stati previsti quali requisiti motivazionali debba avere la relativa decisione, né è stata disciplinata alcuna incompatibilità del giudice che si sia pronunciato sfavorevolmente. Recentemente la Suprema Corte ha stabilito che l' ordinanza con la quale il giudice rigetta l'istanza d'estinzione del reato per condotte riparatorie non è autonomamente impugnabile per abnormità in quanto si colloca all'interno del sistema processuale e non determina alcuno stasi del procedimento ed è quindi appellabile unitamente alla sentenza di primo grado (Cass. pen., Sez. I, 28 giugno 2018, n. 29562). La norma, concepita (male) quale strumento deflattivo, a causa delle numerose lacunosità porterà necessariamente in un futuro prossimo a vari interventi interpretativi/integrativi da parte della giurisprudenza. Lo stesso legislatore ha dovuto, all'indomani delle prime applicazioni (Gup T. Torino, sent. del 2 ottobre 2017), intervenire sull'istituto prevedendo espressamente la sua inapplicabilità al reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. (legge 4 dicembre 2017, n.172). La nuova causa di estinzione del reato è destinata a trovare più ampia applicazione a seguito dell'attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 16 lett. a) e b) e 17, l. 103/2017, con la quale è stato ampliato l'elenco dei reati procedibili a querela di parte, ricomprendendovi tutti i reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni, ad eccezione del reato di violenza privata e dei reati contro il patrimonio previsti dal codice penale. L'istituto, contrariamente da quanto aveva affermato la Relatrice Donatella Ferranti (PD), non realizza affatto «un ulteriore passo verso la giustizia ripartiva» in quanto non presuppone un pentimento né la rieducazione del reo, ma soltanto il risarcimento del danno alla vittima, la quale, si vedrà costretta ad accettare una deflazione del procedimento in cambio di una giustizia più veloce. Ci si è, peraltro, chiesti se il disposto di cui all'art. 162-bis c.p. c.p. potrà reggere al vaglio costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27,commi 1 e 3, Cost.
Modifiche al codice di procedura penale

Sul fronte processuale in una dichiarata logica deflattiva del sistema gli interventi di maggiore portata hanno riguardato i riti alternativi (decreto penale di condanna e giudizio abbreviato), il rafforzamento della motivazione della sentenza (art. 546 c.p.p.) e la correlata previsione, a pena d'inammissibilità, della necessità di specificità dei motivi nell'atto d'appello (art. 581 c.p.p.), la modifica della disciplina in materia di giudizi d'impugnazione (attuata con d.lgs. 11/2018), la reintroduzione del c.d. concordato sui motivi d'appello (artt. 599-bis e 602 c.p.p. ). Quanto ai riti alternativi la riforma ha mancato l'occasione per rendere maggiormente “appetibile” il ricorso al giudizio abbreviato relativamente al quale la nuova disciplina si è limitata a mutuare, normandole, le interpretazione già formatisi in giurisprudenza in materia di preclusione dell'eccezione d'incompetenza territoriale e la sanatoria delle nullità, ad esclusione di quelle assolute, introducendo, quindi, la possibilità di ottenere il dimezzamento della pena ma solo per le ipotesi contravvenzionali (art. 442 c.p.p.).

La riforma ha reintrodotto, come auspicato da tempo, il concordato sui motivi d'appello abrogato dal d.l. 92/2008.

L'art. 599-bisc.p.p., al comma 4, ha tuttavia previsto che il procuratore generale presso la corte d'appello indichi, sentiti i magistrati dell'ufficio e i procuratori della Repubblica del distretto, i criteri secondo i quali, nel rispetto dell'autonomia d'udienza, orientare le valutazioni relative alle richieste di concordato. In ossequio a tale previsione sono stati adottati dalle varie procure protocolli che, spesso, hanno suscitato le critiche da parte dell'avvocatura anche per il fondato timore di violazione del principio d'uguaglianza ex art. 3 Cost. stante la disomogeneità dei criteri adottati da ciascuna procura, così come evincibile da quelli sino ad oggi resi pubblici.

Gli interventi sugli artt. 546 e 581 c.p.p. hanno delineato un nuovo modello legale di motivazione al quale si raccorda l'onere di specificità dei motivi d'appello, valorizzando l'intima correlazione funzionale tra struttura dell'argomentazione della sentenza e la struttura dell'atto d'appello. Solo una sentenza ben motivata e suddivisa in capi e punti, potrà permettere un'altrettanta puntuale e specifica redazione dei motivi d'impugnazione (cfr. Cass. pen., Sez. V, 20 luglio 2018, n. 34504). Proprio in tale logica di reciprocità e stretta correlazione tra la decisione del magistrato e l'atto difensivo s'inserisce il protocollo d'intesa intervenuto tra il Consiglio Nazionale Forense e il Consiglio Superiore della Magistratura sottoscritto in data 19 luglio 2018, che ha previsto al punto 6.2 quale debba essere la struttura della sentenza di primo e secondo grado e al punto 6.3 quella degli atti difensivi in materia penale. Poiché il mancato rispetto dei requisiti prescritti per l'atto d'appello è sanzionato, nella logica deflattiva della riforma, con l'inammissibilità (artt. 581, comma 1, lett. c) e 591, comma 1, lett. c) c.p.p.) sarà necessario “adeguarsi” alla struttura normativa richiesta al fine di scongiurare tale infausto epilogo. Si tratta di prendere coscienza della responsabilità e dell'impegno che ciascun difensore deve assumersi nel curare la propria preparazione per contrastare il rischio che la pronuncia d'inammissibilità possa essere utilizzata a mero scopo deflattivo a fronte di ricorsi sciatti e aspecifici .

Fortemente avversate dall'avvocatura, ancora una volta ricorrendo anche a ripetuti periodi di astensione, sono state sia la previsione del dibattimento a distanza “allargato” (art. 146-bis disp.att. c.p.p.) sia la riforma delle intercettazioni. Per quanto riguarda le intercettazioni è stato denunciato come la legittimazione dell'uso generalizzato di strumenti di captazione informatica intrusivi, installabili da remoto in pc, tablet e smartphone (già consentito per le intercettazioni tra presenti per i soli delitti di criminalità organizzata da Cass. pen., Sez. unite, n. 26889/2016, Scurato), possa, nel segno della lotta alla criminalità, divenire fonte di illimitata ed irragionevole intrusione nella vita privata dei cittadini, anche di quelli estranei alle indagini (spesso esposti alla indiscriminata pubblicità mediatica per fatti anche del tutto irrilevanti rispetto alla prova del reato). Si è invece criticato come la possibilità di celebrazione del processo a distanza nei confronti dell'imputato detenuto, anche nelle ipotesi di reati previsti dagli artt. 51, comma 3-bis, 407, comma 2 lett. a) n. 4 c.p.p., giustificata da discutibili esigenze di risparmio, da un lato privi l'imputato del proprio diritto di partecipazione effettiva al giudizio in cui si discute della sua responsabilità e dall'altro impedisca al giudice di avere diretta conoscenza del soggetto che deve giudicare, a discapito del diritto di difesa e degli irrinunciabili e incomprimibili principi del contraddittorio e dell'immediatezza. Il c.d. decreto mille proroghe del 24 luglio 2018 ha posticipato al 31 marzo 2019 l'operatività della nuova disciplina delle operazioni di intercettazione di cui all'art. 9 del d.lgs. 216/2017 attuativo della legge delega contenuta nella l. n. 103/17, mentre ha sospeso l'efficacia delle disposizioni della l. 103/2017 relative al dibattimento a distanza sino al 15 febbraio 2019, ad eccezione per le persone che si trovano in stato di detenzione per aver svolto un ruolo apicale in associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione all'ordine democratico (art. 270-bis, comma 1, c.p.), in associazioni di tipo mafioso anche straniere (art. 416-bis, comma 1, c.p.) ovvero associazioni finalizzate al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, comma 1 d.P.R. 309/1990).

Tra le poche norme accolte con favore da parte degli avvocati, vi è senz'altro l'introduzione nell'art. 162 c.p.p. del comma 4-bis il quale prevede che l'elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio non abbia effetto se l'autorità che procede non riceve, unitamente alla dichiarazione di elezione, l'assenso del difensore domiciliatario. Obiettivo della riforma, in questo caso, è quella di consentire la effettiva conoscenza del procedimento penale da parte dell'indagato, a garanzia dell'effettività della difesa, evitando che il meccanismo della (forzata) elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio diventi una astratta presunzione di conoscenza del procedimento, rimettendo a quest'ultimo la decisone se acconsentire o meno a tale elezione (con le implicazioni che ciò comporta sulla disciplina del procedimento in assenza). Affinché la norma esplichi appieno la propria finalità occorre che l'assenso alla domiciliazione da parte del difensore d'ufficio debba essere espresso ed accertato da parte dell'Autorità procedente, senza possibilità di ricorrere ad alcun meccanismo presuntivo. Correlativamente, il mancato assenso da parte del difensore d'ufficio dovrà necessariamente comportare la necessità di ricorrere alla procedura ordinaria di notificazione ex artt. 157 e 159 c.p.p., escludendo la possibilità di procedere alla notifica ex art. 161, comma 4, c.p.p., che vanificherebbe l'effettiva portata applicativa della nuova disciplina.