La nuova procedibilità del reato di appropriazione indebita commesso dall'amministratore di una società
16 Gennaio 2019
Abstract
Il recente decreto legislativo n. 36 del 10 aprile 2018, entrato in vigore il 9 maggio 2018, dando attuazione parziale alla delega prevista dall'art. 1, comma 16, lett. a) e b), della legge 103/2017 (c.d. riforma Orlando), ha esteso l'area di operatività della procedibilità a querela per taluni reati, tra cui quello previsto e punito dall'art. 646 c.p. La modifica introdotta in attuazione della riforma Orlando
L'articolo 10 del citato decreto legislativo 36/2018 ha abrogato il comma 3 dell'art. 646 c.p., che disponeva la procedibilità d'ufficio al ricorrere della circostanza aggravante indicata nel comma 2 della medesima disposizione (appropriazione indebita di cose possedute a titolo di deposito necessario), ovvero di «taluna delle circostanze indicate nel numero 11 dell'articolo 61» (abuso di autorità o di relazioni domestiche, abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità). Contestualmente, il Legislatore ha introdotto l'art. 649-bis c.p., prevedendo alcuni casi di procedibilità d'ufficio. La norma in parola, in particolare, stabilisce che per i fatti perseguibili a querela preveduti, tra gli altri, dall'art. 646, comma 2, c.p. o aggravati dalle circostanze di cui all'art. 61, comma 1, n. 11, c.p. si procede d'ufficio qualora ricorrano circostanze aggravanti a effetto speciale, ovvero quelle che implicano un aumento della pena superiore a un terzo. Il Legislatore delegato ha previsto, poi, all'art. 12, due norme transitorie, che disciplinano la procedibilità dei reati di nuova perseguibilità a querela, commessi prima della data di entrata in vigore del decreto stesso. Più precisamente, secondo il disposto del comma 1 dell'art. 12, la persona offesa che abbia avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato, è rimessa nel termine di tre mesi per presentare querela, termine che decorre dall'entrata in vigore del provvedimento di riforma. Ove, invece, sia già pendente un procedimento penale, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l'esercizio dell'azione penale, informa la persona offesa della facoltà di esercitare il diritto di querela ed il termine di tre mesi decorre dal giorno in cui tale informazione avviene (comma 2). In ordine a quest'ultima disposizione, le Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. unite, 21 giugno 2018, n. 40150), hanno già avuto modo di chiarire, da un lato, che in presenza di ricorso per Cassazione inammissibile, non deve darsi alla persona offesa l'avviso previsto dall'art. 12, comma 2, per l'eventuale esercizio del diritto di querela e, dall'altro, che durante i novanta giorni decorrenti dal predetto avviso, non opera la sospensione del termine di prescrizione. Il Legislatore, con la riforma in commento, ha perseguito un evidente intento deflattivo, volto a ridurre il carico processuale gravante sull'amministrazione della giustizia, rimettendo ai privati la scelta di far perseguire o meno le condotte appropriative aggravate. Tale riforma ha, peraltro, fatto rientrare anche le ipotesi anzidette tra quelle per cui è applicabile l'istituto dell'estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie previsto dall'art. 162-ter, c.p.. Invero, la citata disposizione normativa disciplina l'istituto dell'estinzione del reato per condotte riparatorie e prevede che, limitatamente ai reati procedibili a querela soggetta a remissione, il giudice dichiari estinto il reato qualora l'imputato abbia riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato ed abbia eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato. La dichiarazione di estinzione del reato ex art. 162-ter, c.p. avviene, altresì, ove il giudice riconosca la congruità dell'offerta reale di una somma a titolo di risarcimento del danno, formulata dall'imputato e non accettata dalla persona offesa. Una tipica ipotesi di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 11, c.p., in quanto commessa con abuso delle relazioni d'ufficio, è quella posta in essere dall'amministratore di una società. A tale proposito, è stato infatti affermato, a più riprese, dalla giurisprudenza di legittimità, che integra il delitto di appropriazione indebita, aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio, la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato (Cass. pen., Sez. II, 14 novembre 2013, n. 50087). Conformemente, si è precisato che integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una società di capitali che versi somme di denaro della società a terzi, per il perseguimento di un interesse estraneo a quello dell'ente ed in mancanza di un formale assenso dei soci al compimento di tali erogazioni (Cass. pen., Sez. VI, 6 maggio 2016, n. 39008). Peraltro, è stato riconosciuto colpevole del reato di appropriazione indebita anche l'amministratore unico di una società a responsabilità limitata, che sia anche l'unico socio in quanto detentore del 100% delle quote, il quale si appropri – trattenendo per sé – senza alcun giustificato motivo di denaro della società distraendolo quindi dallo scopo cui è destinato (Cass. pen., Sez. II, 14 novembre 2013, n. 50087). Allo stesso modo, posto che l'amministratore di una società ha una posizione di garanzia nei confronti dell'integrità del patrimonio societario, è stato stabilito che quest'ultimo risponde ai sensi dell'art. 40 cpv c.p. del delitto di appropriazione indebita, quando non abbia impedito la distrazione di somme dal patrimonio sociale a favore di terzi, che non siano titolari di diritti di credito ovvero che non abbiano effettuato alcuna prestazione a vantaggio della società (Cass. pen., Sez. II, 25 ottobre 2017, n. 49489). In vigenza del disposto di cui all'art. 646, comma 3, c.p., il reato di appropriazione indebita commesso dall'amministratore di una società, essendo aggravato ex art. 61 n. 11 c.p., era procedibile d'ufficio. Con il mutato quadro normativo, sorge il problema di individuare il soggetto legittimato a proporre querela per il reato di appropriazione indebita commessa dall'amministratore di una società. Nei procedimenti in cui parte offesa è una persona giuridica, infatti, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha da sempre affermato che la titolarità e l'esercizio dei relativi diritti processuali spetta all'organo munito dei poteri di gestione e di rappresentanza, secondo le norme legali e statutarie, con esclusione di un potere rappresentativo suppletivo in capo ai soci, i cui diritti individuati sono tutelati mediante il riconoscimento della veste di danneggiati dal reato (Cass., Sez. II, 14 luglio 2011, n. 36927). Pertanto, si è ritenuto pacifico che nei reati, quali l'appropriazione indebita, commessi ai danni di una società, la legittimazione a proporre la querela spettasse soltanto al legale rappresentante, essendo i singoli soci, sui quali ricadono le conseguenze patrimoniali dell'illecito, solo danneggiati dal reato; legittimati, al più, a costituirsi parte civile. Il problema sorge allorquando il legale rappresentante, che dovrebbe rivestire la qualifica di persona offesa del reato, si è, egli stesso, reso responsabile di condotte appropriative illecite, in danno della società. In tali casi i giudici di legittimità hanno riconosciuto la legittimazione a proporre querela per i fatti illeciti commessi dall'amministratore in danno della società al «singolo socio che assume la posizione non solo di danneggiato dal reato, ma anche di persona offesa titolare del bene giuridico costituito dalla integrità del patrimonio sociale» (Cass. pen., Sez. II, 24 settembre 2014, n. 40578). In conclusione
In conclusione, quindi, si può osservare come l'intento manifestato dal Legislatore con l'adozione della nuova normativa in tema di procedibilità a querela del reato di appropriazione indebita, nonché di altri numerosi reati, sia quello di ridurre il carico processuale che grava sui tribunali. Una politica, quella di deflazione del contenzioso giudiziario, che, tuttavia, non ha permeato però in modo omogeneo l'agire del legislatore che si è indirizzato nel senso esattamente opposto per quanto riguarda altre fattispecie criminose, anche di valore offensivo modesto. Basti pensare, ad esempio, alla punibilità d'ufficio introdotta con riferimento ai reati di corruzione tra privati e di istigazione alla corruzione tra privati, di cui agli artt. 2635 e 2635-bis c.c., dalla recentissima legge anticorruzione. |