Lo ha chiarito la Cassazione con sentenza n. 27788/20, depositata il 7 ottobre.
L'avvocato veniva sottoposto ad indagini per aver falsificato la firma del cliente in calce all'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. In particolare, venivano disposti la perquisizione dello studio legale e il sequestro della documentazione.
Proposta istanza di riesame, il Tribunale l'accoglieva parzialmente e annullava il provvedimento impugnato quanto alle pratiche di ammissione al patrocinio statuale diverse da quello del cliente, ritenendo che in relazione a queste ultime non vi era alcuna illustrazione del vincolo di pertinenzialità rispetto al falso oggetto del giudizio.
Avverso tale decisione, oltre al PM, ha proposto ricorso per cassazione l'indagato, invocando la nullità dell'ordinanza impugnata per violazione dell'art. 103, comma 2, c.p.p. e affermando che, al momento della perquisizione e del sequestro, gli atti e i documenti presenti non erano stati individuati con precisione, quindi il fatto che fosse stata ritenuta presente la documentazione concernente quel preciso procedimento a carico del cliente era una mera congettura.
Posta la fondatezza del ricorso proposto dall'avvocato, con riferimento al complesso della documentazione sequestrata, la Cassazione ritiene che per corpo del reato, in relazione alla fattispecie di cui all'art. 481 c.p., deve intendersi esclusivamente l'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato apparentemente sottoscritta dal cliente e ciò in quanto ai sensi dell'art. 253, comma 2, c.p.p., sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo.
Ne consegue che il sequestro che esuli da detti limiti non può essere utilizzato. Conclusione questa che trova conforto nella giurisprudenza della stessa Corte, la quale ha sancito che «non è quindi sufficiente a superare il divieto, assistito dalla sanzione di inutilizzabilità di cui al comma 7, dello stesso articolo, la mera utilità probatoria dell'oggetto del sequestro, perché la legge esige un quid pluris che giustifichi l'interferenza nel rapporto professionale cliente/difensore, e cioè che l'atto o documento appreso costituisca, esso stesso, corpo del reato».
Pertanto, quanto alla documentazione che concerne i coimputati del cliente, l'estraneità rispetto alla nozione di corpo del reato è del tutto evidente e il sequestro di documentazione che li riguarda; il vincolo che riguarda la documentazione concernente soggetti diversi dal cliente è dunque del tutto privo di giustificazione.
Per tale motivo, la Corte annulla il provvedimento impugnato.