Necessario il bilanciamento tra favor veritatis e diritto all'identità personale nell'impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso
15 Ottobre 2020
Massima
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità. Il caso
In accoglimento della domanda formulata dall'autore del riconoscimento a distanza di otto anni dal compimento di tale atto, il Tribunale di Torino ha annullato il riconoscimento di una minore per difetto di veridicità, disponendo le relative annotazioni sui registri dello stato civile. La sentenza è stata appellata dalla curatela della minore. La Corte di appello adita, rilevando che, nella specie, non era contestata la consapevolezza della falsità del riconoscimento in capo al suo autore, ha precisato che non si poneva alcun problema di tempestività dell'azione (imprescrittibile, in base alla disciplina previgente al d.lgs. n. 154 del 2013), sicché, dopo avere disatteso l'eccezione di nullità della sentenza per il mancato interpello della minore, ha affermato di condividere la decisione di primo grado, ritenendo di non poter accogliere i rilievi dell'appellante, secondo la quale doveva rigettarsi la domanda, attribuendo prevalenza all'interesse della minore al mantenimento della propria identità familiare, che nel tempo si era formata. Ha, quindi, sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità, evidenziandone la rilevanza ai fini della decisione, perché l'accoglimento dell'appello avrebbe potuto avere luogo solo in caso di fondatezza della questione. La questione
È fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità? Le soluzioni giuridiche
Il giudice rimettente ha censurato l'art. 263 c.c., ritenendo, innanzitutto, che tale disposizione si ponga in contrasto con l'art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento tra chi abbia consapevolmente effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia prestato il consenso alla fecondazione assistita eterologa, poiché, mentre la norma censurata consente all'autore del riconoscimento di proporre l'impugnazione per difetto di veridicità, l'art. 9, comma 1, l. n. 40 del 2004 preclude la medesima impugnazione a chi abbia prestato consenso al concepimento mediante fecondazione medicalmente assistita eterologa. Le situazioni fattuali alle quali fanno riferimento sia la norma censurata che l'art. 9 l. n. 40 del 2004 sono ritenute assolutamente identiche. Secondo il rimettente, in entrambi i casi sussiste, in capo all'autore del riconoscimento, la consapevolezza di non essere il padre biologico del riconosciuto e la volontà di assumerne comunque la paternità e, in entrambi i casi, alla base del riconoscimento, vi è un atto consapevole contra legem (nel caso dell'art. 9 l. n. 40 del 2004, il consenso alla pratica di procreazione assistita di tipo eterologo e, nel caso del riconoscimento “di compiacenza”, la violazione dell'art. 567 c.p.). Il medesimo giudice ha, poi, affermato che la ratio sottesa al divieto dell'art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 è rappresentata dalla necessità di rispettare il principio, deducibile dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, entrato a far parte integrante dell'ordinamento italiano, secondo cui, in ogni provvedimento legislativo, amministrativo o giudiziario riguardante un minore, si deve sempre considerare l'interesse preminente di quest'ultimo (cfr. la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. n. 176 del 1991; la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti del fanciullo, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con l. n. 77 del 2003; la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007). In tale quadro, secondo il giudice a quo, dovrebbe escludersi che colui che abbia riconosciuto un figlio, pur sapendo di non essere il suo genitore biologico, possa poi sacrificare lo status acquisito dal figlio solo per una riconsiderazione dei propri interessi, facendo valere una circostanza, di cui fin dal principio era perfettamente a conoscenza. È per questo che il giudice rimettente ha dubitato della ragionevolezza della disposizione censurata anche in relazione ai principi di responsabilità individuale e di solidarietà sociale, nonché di tutela dell'identità personale, che trovano espressione nell'art. 2 Cost. Al riguardo, ha rilevato che l'identità personale trova il suo elemento caratterizzante proprio nel nome, quale autonomo segno distintivo di tale identità, e che nel contesto sociale l'acquisizione del nome è l'effetto di più immediata percezione del riconoscimento di paternità (Corte cost., sent. 3 febbraio 1994, n. 13), aggiungendo che, nel caso di specie, sia in considerazione della minore età della persona riconosciuta, sia della volontà di quest'ultima di non rinunciare allo status di figlia, sia del considerevole arco di tempo durante il quale, pubblicamente, si è manifestata la paternità dell'autore del riconoscimento, il cognome paterno è divenuto autonomo segno distintivo dell'identità personale della minore. La Corte costituzionale, superate le eccezioni di inammissibilità, ha ritenuto infondate le tutte le questioni sollevate. In primo luogo, ha escluso l'illegittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., formulata in riferimento all'art. 3 Cost. e alla denunciata disparità di trattamento con l'art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004. Secondo la Corte, il divieto d'impugnare il riconoscimento nei casi di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferito a particolari situazioni, specificamente individuate dal legislatore, che rivestono il carattere di eccezionalità. Esso è volto a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del concepimento, tant'è che, per lo stesso motivo, la legge speciale nega – sempre in via d'eccezione – il diritto di anonimato della madre (art. 9, comma 2, l. n. 40 del 2004). La medesima Corte ha pure evidenziato che non possono essere equiparate la volontà di generare con materiale biologico altrui e la volontà di riconoscere un figlio altrui. Nel primo caso, la volontà porta alla nascita una persona che altrimenti non sarebbe nata, mentre, nel secondo caso, la volontà del dichiarante si esprime rispetto a una persona già nata. Anche la condizione giuridica del soggetto riconosciuto risulta differente, tenuto conto che, per la persona nata attraverso procreazione medicalmente assistita, un eventuale accertamento negativo della paternità non potrebbe essere la premessa di un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante l'anonimato del donatore di gameti e l'esclusione di qualsiasi relazione giuridica parentale con quest'ultimo (art. 9, comma 3, l. n. 40 del 2004), mentre invece, nel caso del falso riconoscimento, vi è comunque un genitore biologico, che potrebbe anche divenire genitore legale. D'altra parte, ha aggiunto la Corte costituzionale, il divieto di impugnazione del riconoscimento, previsto dall'art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, si riferisce a un contesto in cui operano alcune garanzie associate alla figura e all'intervento del medico, rigidamente disciplinate. Viceversa, la fattispecie del riconoscimento “per compiacenza” è destinata a realizzarsi in situazioni “opache”, al di fuori del circuito medico-sanitario disegnato dalla legge speciale, talora addirittura per aggirare la disciplina dell'adozione. In sintesi, la differente natura delle fattispecie impedisce, per la Corte costituzionale, di considerare la scelta normativa dell'indicato art. 9 l. n. 40 del 2004 come un idoneo tertium comparationis, ai fini della valutazione della ragionevolezza estrinseca della disposizione dell'art. 263 c.c., perché si tratta di fattispecie differenti e la diversità delle rispettive discipline si sottrae ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati in nome del principio d'eguaglianza. La questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c. è stata ritenuta infondata anche in riferimento all'art. 2 Cost. e alla dedotta irragionevolezza intrinseca della disposizione in esame. Come sopra evidenziato, nella prospettiva del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con i richiamati principi costituzionali, nella parte in cui consente l'impugnazione per difetto di veridicità anche a chi abbia effettuato il riconoscimento, pur essendo consapevole della sua falsità. La Corte costituzionale ha, tuttavia, evidenziato che tale assunto riflette la tradizionale interpretazione dell'art. 263 c.c., offerta dalla giurisprudenza di legittimità nei casi di riconoscimento consapevolmente falso, fondata sull'attribuzione dell'assoluta prevalenza all'interesse di natura pubblicistica all'accertamento della verità, rispetto a qualsiasi altro interesse che con esso venga in conflitto e quindi anche rispetto al diritto, anch'esso dotato di copertura costituzionale, all'identità sociale del soggetto riconosciuto, nonché alla necessità di far valere le responsabilità, inerenti alla qualità di genitore, assunte con il riconoscimento. Ma tale impostazione, ha precisato la Corte, è ormai superata dall'evoluzione normativa e giurisprudenziale, anche della medesima Corte costituzionale, fondata sul rilievo che l'art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, potendo il favor veritatis essere bilanciato con gli altri valori di pari rilevanza costituzionale. La Corte ha così evidenziato che, in più occasioni, il legislatore – cui l'art. 30, comma 4, Cost. ha demandato il potere di fissare limiti e condizioni per far valere la genitorialità biologica – ha attribuito prevalenza al consenso alla genitorialità e all'assunzione della conseguente responsabilità rispetto al favor veritatis. In proposito, oltre al menzionato art. 9, comma 1, l. n. 40 del 2004, tanto specifico e peculiare da non valere come tertium comparationis, che comunque fa prevalere l'interesse alla conservazione dello status, la Corte costituzionale ha ricordato proprio le novità apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013 all'art. 263 c.c. Infatti, se, da un lato, è stato garantito senza limiti di tempo l'interesse primario ed inviolabile del figlio ad ottenere l'accertamento della mancata corrispondenza tra genitorialità legale e genitorialità biologica, da un altro lato, sono stati introdotti rigorosi termini per la proposizione dell'azione da parte degli altri legittimati, assicurando così tutela al diritto alla stabilità dello status acquisito, in particolare laddove ad impugnare il riconoscimento sia il suo stesso autore. Secondo la Corte, ciò dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio, evitando il protrarsi di un'incertezza potenzialmente lesiva della solidità degli affetti e dei rapporti familiari, mediante il riconoscimento e la garanzia di una tendenziale stabilità dello stato di filiazione, in connessione con il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l'interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione. In questa stessa prospettiva, ha evidenziato la Corte, assume rilievo anche la decorrenza del termine per la proposizione dell'azione, che opera non dalla nascita ma da un momento successivo, quello dell'annotazione del riconoscimento nel relativo atto, attribuendo in questo modo rilievo, ai fini della proponibilità dell'azione, al consolidamento del diritto all'identità personale, anche quando il rapporto di filiazione è iniziato in un momento successivo alla nascita. D'altra parte, ha aggiunto la Corte, l'assolutezza del principio di prevalenza dell'interesse all'accertamento della verità biologica della procreazione è stata superata anche dalla giurisprudenza di legittimità che, da tempo, ha riconosciuto come l'equazione tra verità naturale e interesse del minore non sia predicabile in termini assoluti, essendo viceversa necessario bilanciare la verità del concepimento con l'interesse concreto del figlio alla conservazione dello status acquisito. Infine, la Corte costituzionale ha richiamato numerose pronunce in cui essa stessa ha preso atto di questa evoluzione, non solo con il riconoscimento che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia» (Corte. Cost. 10 giugno 2014, n. 162), ma anche con l'affermazione dell'immanenza dell'interesse del figlio, specie se minore, nell'ambito delle azioni volte alla rimozione dello status (v. in particolare Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272). In definitiva, secondo la menzionate Corte, la necessità di valutare l'interesse alla conservazione della condizione identitaria acquisita, nella comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti, è già contenuta nel giudizio di cui all'art. 263 c.c. ed è immanente ad esso. Si tratta, tuttavia, di una valutazione comparativa che attiene ai presupposti per l'accoglimento della domanda proposta ai sensi dell'art. 263 c.c., e non alla legittimazione dell'autore del riconoscimento inveridico. Pertanto, in caso di impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell'uno in nome dell'altro. L'esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all'art. 263 c.c., ove il diritto all'identità personale del soggetto riconosciuto deve essere correlato non solo alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all'interno della famiglia. Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con l'altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento (in particolare nelle azioni, come quella oggetto del giudizio a quo, esercitate prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013), sia, infine, l'idoneità dell'autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore. Osservazioni
La sentenza della Corte costituzionale appena richiamata assume particolare rilievo nella parte in cui ha esaminato la questione di legittimità dell'art. 263 c.c. in riferimento all'art. 2 Cost. e al parametro della ragionevolezza intrinseca. Si deve prima di tutto rilevare che la Corte, pronunciandosi in un altro giudizio su diverse questioni di legittimità costituzionale, riferite sempre all'art. 263 c.c., aveva già adottato una sentenza interpretativa di rigetto, nella quale aveva operato la stessa ricostruzione giuridica in questa sede effettuata (Corte cost., sent. 18 dicembre 2017, n. 272). In effetti, nonostante la diversità delle fattispecie esaminate e delle questioni prospettate, il problema di fondo, sotteso ad entrambi i giudizi, è lo stesso e attiene alla configurabilità nel nostro ordinamento di un limite al favor veritatis, che possa impedire l'accoglimento dell'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (Corte cost., sent. 18 dicembre 2017, n. 272) o addirittura escludere la legittimazione ad esperire tale impugnazione (Corte cost., sent. 25 giugno 2020, n. 127). Com'è noto, in via generale, il favor veritatis è un principio fondamentale in materia di stati personali. La verità biologica costituisce, di regola, una componente essenziale del diritto all'identità personale, riconducibile alle previsioni di cui all'art. 2 Cost. e all'art. 8 CEDU. L'incertezza su tale status può, infatti, determinare una condizione di disagio dell'individuo, un vulnus al suo sviluppo ed alla formazione della sua personalità (così Cass. civ., sez. I, ord. 21 febbraio 2018, n. 4194). Sulla base di tale premessa, soprattutto in passato, si è ritenuto che fosse impossibile configurare un conflitto tra favor veritatis e favor minoris, perché l'autenticità del rapporto di filiazione corrisponde per definizione all'interesse del minore, costituendo espressione dell'inviolabile diritto alla sua identità personale (cfr. Corte Cost. sentenza 22 aprile 1997, n. 112) e pertanto, anche in caso idi impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte dell'autore dello stesso, si deve dare spazio solo al favor veritatis (cfr. Cass. civ., sez. I., ord. 21 febbraio 2019, n. 5142; Cass. civ., sez. I, ord. 14 dicembre 2017, n. 30122, in motivazione; Cass. civ., sez. I, sent. 14 febbraio 2017, n. 3834; Cass. civ., sez. I, sent. 24 maggio 1991, n. 5886). I sostenitori di tale tesi non hanno negato che il perseguimento della verità del rapporto di filiazione può costituire causa di grave pregiudizio per il minore, il quale può essere costretto, talvolta anche dopo molti anni, ad un repentino allontanamento dall'ambiente familiare in cui è stato inserito per lunghissimo tempo. Questo effetto è stato, tuttavia, collegato ai tempi di durata del processo e, come rimedio, si è proposto il ricorso ad altri istituti a tutela del minore, come ad esempio l'adozione in casi particolari ai sensi dell'art. 44, lettera c), l. n. 184 del 1983, che consentano di perseguire l'accertamento della verità nel rapporto di filiazione e nel contempo garantiscano al minore la permanenza nell'originario ambito familiare come figlio adottivo (così Corte Cost., sent. 22 aprile 1997, n. 112). In altre decisioni la Corte di cassazione ha, invece, rilevato che, pur a fronte di un accentuato favore per una conformità dello status alla realtà della procreazione, il favor veritatis non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, atteso che l'art. 30 Cost. non attribuisce un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale. Secondo tale impostazione, il sistema normativo nazionale e quello sovranazionale non impongono di attribuire una automatica prevalenza del favor veritatis sul favor minoris, ma richiedono un bilanciamento fra l'affermazione della verità biologica e l'interesse alla certezza degli status (e alla stabilità dei rapporti familiari), nell'ambito di una sempre maggiore considerazione che il diritto all'identità personale non è necessariamente correlato alla verità biologica ma anche ai legami affettivi e personali, sviluppatisi all'interno della famiglia, specie quando si tratta di minori. Il menzionato bilanciamento non può, dunque, costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell'interesse superiore del minore, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale (con riferimento all'azione di disconoscimento della paternità, v. Cass. civ., sez. I. sent. 30 maggio 2013, n. 13638; Cass. civ., sez. I, sent. 22 dicembre 2016, n. 26767; Cass. civ., sez. I, sent. 3 aprile 2017, n. 8617). In tale quadro, si è inserita la sentenza della Corte costituzionale sopra richiamata (Corte cost., sent. 18 dicembre 2017, n. 272), che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c., sollevata in riferimento agli art. 2, 3, 30, 31 e 117, comma 1, Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU), nella parte in cui non prevede che l'impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all'interesse dello stesso. La Consulta ha, infatti, ritenuto che il giudice, nel pronunciarsi su tale impugnazione, è sempre tenuto ad effettuare una valutazione comparativa tra interesse alla verità e interesse del minore, perché l'equazione “verità naturale – interesse del minore” non è più predicabile in termini assoluti nell'attuale contesto giuridico, dovendosi bilanciare la verità della procreazione con l'interesse concreto del minore alla conservazione dello status di figlio, ed ha anche indicato, tra gli elementi di cui il giudice deve tener conto nel suddetto bilanciamento, la durata del rapporto instauratosi tra il minore e il genitore contestato, le modalità del concepimento e della gestazione ed anche «la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l'adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela». A tale sentenza interpretativa di rigetto sono poi seguite statuizioni del giudice di legittimità che hanno seguito tale criterio, confermando l'orientamento in precedenza già espresso (v. da ultimo, sempre con riferimento all'impugnazione ex art. 263 c.c., Cass. civ., sez. I, ord. 24 febbraio 2020, n. 4791; Cass. civ., sez. I, ord. 6 marzo 2019, n. 6517; cfr. in motivazione anche Cass. civ., sez. U, sent. 8 maggio 2019, n. 12193, con riferimento ad una fattispecie del tutto diversa). La pronuncia della Corte costituzionale in esame si pone sulla linea appena descritta, perché ha rigettato la questione di legittimità come sopra sollevata, evidenziando che, anche nel caso di impugnazione del riconoscimento sin dall'origine consapevolmente falso, la prospettata esigenza di prendere in considerazione l'interesse alla conservazione della condizione identitaria del soggetto riconosciuto come figlio non può essere conseguita mediante una aprioristica esclusione della legittimazione ad impugnare, come prospettato dal giudice remittente, ma deve essere operata in concreto, considerando, e bilanciando, nella singola fattispecie gli interessi in gioco, come già affermato in generale dalla precedente pronuncia. Non si tratta, in altre parole, di questione di legittimazione ad agire, ma (come aveva già affermato nel precedente appena riportato) di verifica nel merito dei presupposti per accoglimento dell'impugnazione del riconoscimento. Ciò che emerge con chiarezza è che, in materia di status personali, deve ormai ritenersi superata la automatica corrispondenza tra identità biologica e identità personale, perché ciascun essere umano non è solo quello che è per ragioni genetiche ma anche per il vissuto che ha avuto, per le relazioni personali, familiari e sociali che intrattiene e per il contesto in cui vive. Di ciò il giudice deve farsi carico, quando è chiamato a statuire sull'impugnazione ex art. 263 c.c., essendo tenuto a operare una verifica in ogni singolo caso, bilanciando, ove necessario, il favor veritatis con gli interessi costituzionalmente rilevanti del soggetto che è stato riconosciuto, soprattutto (ma non solo) se è un minore di età. Barletta, Diritto di azione e limiti all'impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1573; Senigaglia, Genitorialità tra biologia e volontà. Tra fatto e diritto, essere e dover-essere, in Eu. e dir. priv., 2017, 952; Tampieri, L'identità personale: il nostro documento esistenziale, in Eu. e dir. priv., 2019, 1195. |